Piazza Fuga la mattina alle otto. Questo giro inizia al Vomero, chi sa poi dove andrà a finire.
Oggi ci accompagna Mirella, un’altra amica da tanti anni. Adesso abita altrove ma ha vissuto a lungo in questo quartiere e da qui comincia il suo canto, il suo itinerario napoletano personale. Mo ve lo dico subito: fa la giornalista, secondo me ci aspettano cose curiose.
Siamo ancora fermi sulla piazza quando passa un signore col bastone, non messo proprio benissimo in arnese.
Mirella: Hai visto quel signore? È una persona molto particolare. Ha avuto alterne vicende nella vita, adesso verso piazzetta Mondragone fa delle piccole installazioni, secondo me interessanti, usando oggetti di recupero.
Si chiama Gennaro Pagnotta, lo chiamano Marenna, indovinate.
Eccolo finalmente. Inseguivo da tempo ‘sto signore.
A via S. Carlo alle Mortelle, se ci passate, fate attenzione: sui dissuasori lungo il margine destro della strada, scendendo, subito prima della chiesa con lo stesso nome, probabilmente troverete dei piccoli oggetti fatti con pezzi di giocattoli, con bicchieri di plastica, con qualsiasi cosa, c’ho visto anche dei frutti. Una sola volta avevo incontrato un uomo seduto, avevo avuto il sospetto che fosse l’autore ma non il tempo di fermarmi, o in quel momento l’apertura giusta, lo avevo solo fotografato un attimo. Per capire dovevo incontrare stamattina chi nel suo Canto ha la strofa che riguarda lui; e può ricrearlo.
Poi, a mezza voce: Ma tu il caffè nei bar lo stai prendendo?
Sì, ogni tanto.
Io non ci vado da mesi, quasi quasi.
Andiamo nel bar qui, a fianco alla funicolare?
La massima concessione è: Però da asporto.
Mi pare contenta di aver recuperato questo piccolo rito dei napoletani. Con la pandemia, ogni volta che interrompiamo una delle nostre abitudini, ci stiamo allontanando da quello che eravamo. Può essere il momento per cambiare un po’ strada volendo, basta non vivere solamente col freno a mano tirato.
Iniziamo a scendere per via Cimarosa.
Incrociamo un suo amico che accompagna il figlio a scuola. Ha l’espressione di chi sta partecipando ad una specie di evento prodigioso, la soddisfazione di chi ha appena vinto un’importante battaglia di una rivoluzione: la riapertura delle scuole.
Poi lungo via Scarlatti.
Mo penserete che è una strada troppo facile: che c’entra in un giro personale? dove uno non è che va a fare shopping ma racconta almeno un pezzetto della sua storia? Be’ la cosa è semplicissima, in un palazzo a metà di questa strada lei ha vissuto per anni.
Anche io che la conosco da tempo ho un ricordo legato a questo luogo, dove accadeva un fatto curioso: voi premevate il tasto del citofono a fianco al suo cognome e dopo una frazione di secondo sentivate dalla strada, sempre, mai che non sia capitato una volta, suonare una campana, chiara, forte. Se ripetevate l’operazione state pur certi che ricapitava di nuovo.
Il fatto è che avendo un padre piuttosto sordo, per suoneria aveva dovuto installare una campana di quelle che si usano nelle caserme dei vigili del fuoco.
Era un palazzo di proprietà dei Barberini, la famiglia romana, papale. Ma loro probabilmente ‘sto palazzo non lo avranno mai visto.
Nel frattempo mi racconta del quartiere Vomero come quello degli artisti, agli albori delle costruzioni ottocentesche nella zona e oltre. Pure di Ingeborg Bachmann, una grande scrittrice del Novecento, che aveva vissuto qualche tempo al Vomero alto. Il suo “Il trentesimo anno”, te lo consiglio, a me lo hanno regalato il giorno di quel mio compleanno.
Poi uno dei guizzi di fantasia curiosa di questa nostra guida di oggi: Ma a Villa Lucia ci sei mai stato?
No, non sono mai riuscito a entrarci, neppure un giorno che c’era la giornata dei luoghi aperti del F.A.I. non mi ero prenotato in tempo, non stavo nell’elenco.
Allora adesso proviamo.
Se non fosse che i selfie non so come si fanno vi farei vedere la contentezza della mia faccia in questo istante.
Andiamo verso il cancello.
Il portiere ancora non ha aperto.
Allora prova a chiamare un signore che abita qui dentro.
Stamattina siamo partiti troppo presto per disturbare le persone con le nostre idee brillanti estemporanee, e giustamente nessuno risponde.
Aspettiamo.
Dopo un po’ riusciamo a raggiungerlo, e con grande disponibilità il professore ci autorizza a entrare.
Iniziamo a scendere lungo i vialetti immersi nel verde.
Piante rigogliose; saranno curate ma hanno anche qualcosa di spontaneo, solenne, un’energia da felci giganti primitive. Sembra di stare in un punto del tempo che è un incrocio tra la villa Floridiana, di cui questo posto una volta faceva parte, e il parco giurassico dei dinosauri.
La giornata è umida, dopo un po’ a Mirella si appanna la mascherina dal di dentro, mai successo prima. Sarà che mi sta raccontando, ma soprattutto l’umidità trattenuta da tutte queste piante. Sugli alberi cresce il muschio verdissimo, anche sulle panchine di pietra.
Poi sbuca un angelo; poi una casa in uno stile tra il tirolese e il Signore degli anelli di Tolkien.
Ecco, voleva che vedessimo soprattuto questo.
Lamont Young -l’architetto geniale che a Napoli ha disegnato diverse cose strambe: il Grenoble, Castello Aselmeyer, villa Ebe, anche Castello Grifeo quel palazzo con la torre merlata tonda che ogni volta che mi affaccio dal belvedere della Floridiana sento dire: “che peccato, tutta lesionata” guardando la spaccatura finta, progettata per creare l’illusione del gotico e che invece desta spesso l’impressione sgarrupo. Per favore metteteci un cartello: “No sgarrupo, bensì finta frattura, solo per effetto scenico, così l’architetto ha voluto”– qui ha realizzato questa casa favolosa, di legno, dentro l’armonia delle piante.
Passiamo sopra un ponticello altissimo. e c’è tutto il golfo della città sullo sfondo. Mentre siamo fermi, passa in auto il professore.
Questo era uno dei luoghi di Napoli in cui moltissimi artisti ed intellettuali, negli anni, sono passati: Neruda, Viviani, Eduardo De Filippo, Caccioppoli, Togliatti; pure Robert Capa il fotografo famoso, sembra ci sia stato alla fine della guerra con l’esercito degli Alleati, probabilmente il giorno in cui aveva fotografato i funerali dei giovani vomeresi morti combattendo le Quattro giornate. Ecco un po’ del Vomero a cui si riferiva Mirella, mi ci ha portato dentro.
Iniziamo a risalire per uscire.
Adesso l’idea è di scendere lungo le scale del Petraio, dove sembra che stamattina stiano filmando e la curiosità sta sempre lì che ci cammina a fianco.
Ci avviamo ma passando per un’altro luogo importante.
Il primo anno del liceo per me fu un po’ l’aprirsi di un mondo. Sentivo un fermento di idee che alle scuole medie noi di quella generazione non vedevamo proprio.
Arrivavi alle occupazioni, poi, e sentivi quelli degli anni successivi arringare le folle. Ha detto proprio così: “arringare le folle”, è il suo gusto per l’ironia sulle espressioni troppo note.
Le chiedo di salire i gradini davanti al portone per una fotografia. E vedo l’emozione di quelli per i quali un posto è ancora sacro, come se non fosse passato un secondo. E poi oggi sono tre giorni che dopo la DaD lo hanno riaperto. È il liceo Sannazaro.
Scendiamo, anzi ci tuffiamo lungo la scalinata che c’è a pochi metri da qui, alla fine di via Donizetti. Se volete fare una capriola dentro il golfo questo è il posto più adatto.
Un pezzetto di via Luigia Sanfelice ed eccoci al Petraio. Che dirvi, i lettori di queste pagine le conoscono, non aggiungo altro.
Una ragazza vestita di colori tenuissimi, consunti, su una sedia di legno, in pausa sigaretta. Sono le riprese di un film sui De Filippo.
C’è la troupe dovunque, si riconoscono dalle radio appese alla cintura e dalla cadenza della capitale. Poi esce un signore con la barba e una giacca tutta rossa a righe che solo un attore.
Dai, continuiamo a scendere. Nel frattempo ci ha raggiunto un’amica di Mirella, Chiara.
Siamo sul corso Vittorio Emanuele Secondo.
Il pescivendolo che io passando avrei preso per un negozio come gli altri, camminando con Mirella diventa una galleria d’arte perché ha i disegni di un architetto molto noto. Nel frattempo prenota il pesce per il pranzo tra poco.
Questo negozio invece, vedi, meriterebbe un articolo a parte. Il proprietario ha inventato un gioco diventato famoso. Si chiama “Sinco”.
Nella vetrina potete trovare uno di tutto per la casa, sopra la porta c’è scritto pure “abbigliamento”.
Si affaccia sulla porta il proprietario, simpaticissimo, e lo fotografo, poi mi fa entrare per uno scatto alla copertina ufficiale del gioco e da quel momento non riesco più a tornare fuori sebbene dica una decina di volte che tornerò a vedere.
La prossima tappa è il Teatro Nuovo.
Per dove scendiamo?
Le scale S. Maria Francesca fanno al caso nostro.
Dopo poco c’è uno dei murales che in questi giorni sono al centro di discussioni. A me sembra un’occasione da cogliere per provare a far dialogare almeno un attimo le due parti della città che hanno paura una dell’altra. La città di sotto ha espresso questa immagine scrivendoci dentro la sua richiesta: Verità e giustizia. Cancellarla e basta vorrebbe dire negare la domanda invece di provare a rispondere.
Una signora del presepe, sopra la macelleria, da una finestrella che solo nella sacra rappresentazione può davvero contenere qualcuno.
Dopo un poco ecco il Teatro Nuovo.
C’era questo professore, all’Università, che mi fece innamorare del teatro. Io per un periodo era di quello che volevo scrivere.
Una volta qui venni a vedere tutte le repliche di uno spettacolo di Antonio Neiwiller, completamente muto, per osservare le piccole variazioni, involontarie o meno. Mi piacque moltissimo.
C’è un cuore sullo sfondo della foto che le faccio. Sarà comparso adesso, quando il teatro ha ascoltato questo suo racconto.
La prossima tappa è l’università L’Orientale.
Salendo verso piazza del Gesù si ricorda che qui c’è un barista di fiducia, prima stava in un altro bar poi si è messo in proprio.
Entriamo, eccolo, lo disturbiamo mentre sta mettendo ordine.
Ci vuole offrire il caffè ma soprattutto è l’unico che dice che tra i clienti che stanno tornando e un po’ di ristori: ‘sta stagione non è per niente da buttare, forse addirittura il contrario.
Un po’ di ottimismo ci ha tirato su più del caffè che ci voleva offrire.
Vabbè di S. Chiara non parlo, come faccio ad attribuirmi un posto che è uno dei più belli di Napoli credo per quasi tutti.
Questo sarebbe un coro più di un canto. Nei punti di incrocio delle mappe mentali di molte persone deve sentirsi una musica forte, come il brusio di una volta nelle piazze.
Giriamo per via Santa Chiara, quella che costeggia il muro del chiostro delle monache. Iniziano a comparire i mille disegni sui muri, come nel giro di qualche giorno fa con Salvatore Allinoro.
Sbuchiamo davanti all’università l’Orientale.
Mi ero iscritta qui perché avevo visto che Lettere moderne aveva esami più interessanti (storia del cinema, storia del teatro, antropologia) rispetto a Lettere della Federico II di quell’epoca.
Con alcuni professori ancora sono in contatto.
Al primo anno, la prima lezione che ho seguito all’università, un sabato mattina, quasi non ci volevo andare, e invece, come entrai, una folgorazione. Era il professore Alfonso Di Nola, storico delle religioni. Riusciva a collegare tanti mondi, letteratura, arte, presente, passato, era bravissimo, faceva appassionare. E quell’aula il sabato mattina era affollatissima. Poi, da quella prima lezione in assoluto, gli chiesi la Tesi di laurea.
Ecco un altro primo ingresso in un’aula che le ha dato un impressione forte e una direzione da seguire in futuro.
Mirella per alcuni anni, appena laureata, inizia ad insegnare.
Prima nella scuola media. Il primo giorno che arrivai, ero giovanissima, si avvicina un ragazzino e mi dice: “Professorè io sonco o figlio ‘e… ” e il nome del capopopolo della zona.
A ripensarci dopo ho capito che quello alla fine era un gesto di vicinanza, un’offerta di disponibilità, ma ero troppo giovane, un poco mi spaventai.
Poi passai ai licei, ma mi divenne chiaro a un certo punto che non era il lavoro per me.
Mio padre, professore, diceva sempre: “Io quasi non mi capacito: faccio una cosa che mi piace moltissimo e mi pagano pure”. Per me invece non era così, io volevo fare la giornalista. Allora un giorno vado a dare le dimissioni.
Professoressa ma forse volevate dire “Aspettativa”?
Forse volevate un cambio di sede?
Ah, proprio dimissioni? E mo vediamo come si fanno.
Insomma le ci è voluto circa un mese per fare questa cosa rarissima, sconosciuta a memoria d’uomo: le dimissioni dal posto di ruolo da professoressa.
Mentre mi racconta sbuca l’incrocio, il punto d’intersezione di due vie: il disegno che Salvatore aveva subito individuato con la firma, in un vicoletto qui dietro del centro, ve lo ricordate? Eccoci qui davanti, soltanto che lo vedo solo io, e neppure trovo più la firma, allora è vero che appartiene ad un altro canto e che si crea soltanto cantandolo.
Stiamo andando verso un altro posto: il Museo di Paleontologia, quello col dinosauro dentro, lo conosci?
Ah, l’ho visitato moltissimi anni fa, credo fossi al liceo o addirittura prima.
Allora andiamo.
Passiamo davanti al cortile delle Statue e Gianbattista Vico stamattina non c’è, sarà andato a comprare il giornale per vedere che sta combinando Draghi.
La porta è aperta, con Salvatore, e questa è un’intersezione vera, un territorio comune dei due personaggi, l’avevamo trovata chiusa, come ogni sabato. Il custode sull’uscio ci dice che però si entra solo su prenotazione.
Dai, magari ci ritorniamo un altro giorno.
Questa passeggiata avrebbe potuto continuare ancora per ore. I canti di quelli che scrivono per i giornali inizio a pensare che siano vastissimi, perché gli interessano un sacco di cose, appena sentono vibrare una nota restano affascinati.
Passeggiata lungo un tracciato proposto da Mirella Armiero. Da piazza Fuga, lungo via Alessandro Scarlatti, via Cimarosa, via Puccini, via Donizetti, i gradini del Petraio, Montecalvario, via Santa Chiara, Largo Banchi Nuovi, via Giovanni Paladino.
Se avete anche voi una linea da camminare preferita a Napoli o dintorni e volete condividerla, scriveteci. Qui trovate i nostri contatti.
Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)