IL MATEMATICO NAPOLETANO (4/5) – Quella sera che Caccioppoli diede una lezione di libertà

Una sera del 1938, insieme con Sara Mancuso, sua futura moglie, il professor Caccioppoli si trova in un locale, alcuni sostengono fosse la birreria Lowenbrau a piazza Municipio, altri Il Grottino, un ristorante verso Mergellina. Anche le versioni di quello che accadde sono un po’ diverse tra di loro ma il succo è sostanzialmente uguale.

Secondo Ermanno Rea il posto era la birreria e successe questo.

Dentro la birreria c’è un gruppetto di militari fascisti che a un certo punto iniziano un canto fastidioso per le orecchie di Caccioppoli: Faccetta nera.

Cantano sempre più ad alto volume, poi addirittura a squarciagola. Coprendo le note, diverse, che il pianista del locale stava già suonando. Anzi imponendogli di suonare le note giuste per accompagnare la loro canzone.

Fascisti, che cantano una canzone “oscena”, disturbando un onesto lavoratore intento al suo mestiere. Non ci poteva mai stare il professore. Allora, finita quella esibizione, Caccioppoli si alza, si avvicina al pianista. Gli chiede se lo può sostituire. Lui che al pianoforte era molto bravo inizia a suonare una canzoncina facilissima, orecchiabile, francese: la Marsigliese. Anche lui sempre più ad alto volume.

Quando finisce nessuno applaude. Hanno capito tutti che c’è tensione. Ma a lui la tensione non basta, vuole la scintilla della rivoluzione.

Allora si alza e inizia a spiegare cosa rappresenta quella canzone francese, che la libertà è un grande valore e che in Italia, grazie a Mussolini, non se ne può più godere.

Non gli aveva dato scelta insomma Caccioppoli ai militari, che magari volevano pure fare finta di niente, che magari manco la capivano quella canzone in francese. Si alzano, gli tappano la bocca con un fazzoletto, e se lo portano via, insieme a Sara.

La birreria Lowenbrau

Rea nel suo libro, Mistero napoletano, dice che di quel posto non ce n’è più traccia, che è scomparso del tutto. Stava, dicono, attaccata al Grand Hotel de Londres. L’albergo di cui a piazza Municipio potete leggere ancora, sul palazzo che sta a sinistra guardando il mare, solamente il nome. Noi avevamo provato a cercare quella birreria sul posto, in articoli di giornale, in vecchie foto di quella piazza, e senza esito avevamo smesso.

Una sera sto andando a Chiaia con la Metropolitana. Scendo alla fermata di piazza Municipio. Poi per uscire sbaglio direzione, appena passo il cancelletto automatico so che sto allungando.

Poi per un attimo mi ricordo di Caccioppoli e che questa era la sua zona. Allora cammino con una certa attenzione.

Devo andare verso via Toledo e passo davanti all’edificio che era del Grand Hotel de Londres.

Lungo il marciapiede c’è una porta a vetri, chiusa, con le tende aperte. Dentro c’è appena appena un po’ di luce accesa.

Birreria Lowenbrau (oggi sede del TAR)

Mi affaccio un attimo a guardare.

Sui muri mi pare di vedere dipinte delle figure strane. Uomini col cappello tirolese, i calzoni corti, donne con il grembiule.

Fotografo un paio di volte; ingrandisco la foto nel visore: boccali di birra enormi nelle mani. Eccola la birreria Lowenbrau, non s’era mai mossa, solo che stava talmente attaccata alla porta dell’albergo che non ero ancora riuscito a vederla.

L’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi

Per salvarlo da conseguenze serie la famiglia decise di farlo dichiarare, falsamente, pazzo. A lui quest’idea non piacque mai.

Al posto del carcere, del confino, forse peggio, gli valse diversi mesi di clinica psichiatrica, prima al Leonardo Bianchi e poi a Villa Fleurent.

Andiamo a vedere cosa resta anche di quelle.

Stanno una di fronte all’altra su calata Capodichino, in alto, verso la fine.

Salgo da Piazza Carlo Terzo. Aspetto un poco alla fermata su calata Capodichino.

Vabbe’ dai, quasi quasi inizio a camminare, po’ se vere, nel caso passa un autobus lo pigliamo al volo. La zona sembra interessante.

Dal momento in cui ho guardato l’Ospedale dei poveri del regno dal suo lato sinistro ho avuto la sensazione istantanea, forte, di stare al di là di una specie di confine. Sarà un confine dentro la mia testa, ché in questa zona della città, in questa ala del palazzo, raramente sono venuto a vedere.

Le case qui sono vecchie, gli anni ’50, anzi l’immediato dopo guerra infinito della nostra Napoli capitale. Consumate dai bombardamenti, appena finiti solo dagli anni ’40.

Case coi balconi pieni di panni. Un aereo in atterraggio a Capodichino passa nella fessura tra due palazzi. Chi sa la gente, nelle case, come lo sente.

Sono quasi in cima, un’inferriata altissima e dietro un cartello blu: “Presidio Psichiatrico Leonardo Bianchi”, eccoci arrivati.

Ingresso del Leonardo Bianchi

C’è un ingresso deserto, un viale per auto, senza nessuno dentro.

A sinistra al di là del muro, un edificio neoclassico molto maltrattato, nelle finestre i vetri colorati hanno mischiato tutti i colori.

Dettagli di ferro battuto raffinati e tettoie di lamiera, panni stesi e antenne della televisione. Più avanti delle enormi sfere ornamentali di pietra sopra la balaustra avvolta nelle reti per non far cadere i calcinacci. Un antico splendore in frantumi.

C’è un primo cancello ma proseguo oltre: partiamo dalla fine. Una madonna dentro una casetta di vetro: la luce la illumina dal fondo, forte.

C’è un secondo cancello, entro e c’è un giardino antico.

Ancora non ho visto nessuno eccetto un uomo che parlava al cellulare. Un colombo è il primo essere che vive. Spunta da un buco nella parete di una finestra murata. È un colombaio, i buchi sono tanti e messi ad uguale distanza di quadrato. Sta fermo, non si muove.

Pare tutto fermo qua dentro, l’erba è la cosa più veloce che si muove.

L’edificio era giallo. Adesso l’intonaco è crollato. L’hanno mimato col grigio del cemento. Era la cosa più costosa che hanno trovato.

Una finestra di legno a quadretti, elegantissima, scrostata, e a fianco un altro colombaio.

Un’altra antenna, poi un condizionatore. Un buco nel muro con una forma a caso, fatto in un posto a caso, serve a far entrare e uscire cavi per tutte le utenze.

Oltre c’è scritto “Assistenza domiciliare, terapia del dolore e cure palliative”. Di metodi palliativi qua pare che ne facciano continuamente uso per risolvere tutte le cose.

Un pino altissimo sembra ben curato. Poi c’è un albero di agrumi e un campo che ricorda qualcosa di un orto, prima di un altro padiglione chiuso.

Torniamo indietro. Che posto strano.

Entro nel cancello che avevo superato.

Ecco, c’è un custode adesso. Ci chiede dove andiamo. Gli spieghiamo i motivi per i quali siamo qui e ci dice di parlare con qualcuno.

Lo cerchiamo ma la porta è chiusa. Poi chiediamo, lo chiamano e compare.

Finalmente gli chiediamo del professor Caccioppoli. Conosce la storia.

Ha una grazia questo posto, anzi un’eleganza, che non ci aspettavamo. La scala principale, oltre il portone d’ingresso, ha ancora un fascino particolare.

In cima, al centro, c’è la statua di Leonardo Bianchi, che è la cosa meglio conservata che qua dentro abbiamo visto.

Al muro un cartello separava gli uomini dalle donne, come all’ospedale dei poveri, e pure in altri terribili posti.

Atrio del Leonardo Bianchi

Ci siamo fatti un’idea. Volevamo vedere almeno un poco cosa aveva visto il professore quel giorno che si era dovuto fingere pazzo perché una buona parte d’Italia aveva perso la ragione.

A dire il vero avevo dei dubbi se venire a vedere, che fosse troppo triste questo posto. E invece quest’architettura elegante non dà quell’impressione. Però io l’ho visto oggi, senza dentro nessuno ed ho visto solo la parte di fronte, quella per i visitatori. Se guardate sulla cartina questo era un complesso molto vasto, c’era spazio chi sa per quante altre visioni.

Esco e mi fermo un attimo in un negozio sulla strada appena fuori dal cancello principale.

Faccio due chiacchiere con il proprietario. Lui si ricorda di quando i degenti uscivano sulla strada, gli era concesso in certi modi. Se ne ricorda i nomi, o i soprannomi.

Villa Fleurent

Caccioppoli era stato ricoverato lì un mese, poi lo avevano trasferito in una clinica privata, che sta esattamente di fronte.

E allora questa mattinata folle continua un altro poco. Attraverso calata Capodichino e vado a Villa Fleurent che adesso è una scuola.

Della vecchia villa sembra non sia rimasto niente. Entriamo e chiediamo al bidello. Lui ci indica un altro signore che lavora qui da oltre trent’anni. Molto gentilmente ci porta in giro e prova a raccontarci. È un edificio moderno, di cemento.

Sala Teatro di Villa Fleurent

Poi oltre alcuni corridoi c’è una sala molto grande. Sulla sinistra c’è qualche foto che testimonia di quando questa era una clinica. Proprio al centro ci sono i posti a sedere e il palco di un piccolo teatro.

Lo sappiamo che non è questo il luogo, lo sappiamo. Ma per un attimo ci sembra di vedere Caccioppoli pianista che, come raccontano, quasi ogni giorno, radunati tutti gli ospiti di quel posto, suonava al pianoforte a coda che s’era fatto portare, cantando l’inno della Marsigliese, la rivoluzione della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità francese.

Indomabile quel signore, nipote di un anarchico famoso.

E pensavamo che questa storia fosse un buon momento raccontarvela oggi.

(Fine quarta parte, continua qui).

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

IL MATEMATICO NAPOLETANO (3/5) – Terza puntata alla ricerca dei luoghi di Renato Caccioppoli: abitazioni, un ristorante, un cinema particolare

Nelle prime due parti di questo viaggio alla ricerca dei luoghi del professor Caccioppoli, geniale matematico, e non solo, della Napoli degli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, siamo andati a vedere la sua stanza nel dipartimento di Matematica dell’università Federico II e la sua prima casa, quella dove è nato. Oggi andiamo a cercare gli altri due appartamenti in cui ha vissuto, un ristorante da lui molto frequentato e un cinema particolare.

Viale Calascione n°16

Dopo la villa di Capodimonte, la famiglia Caccioppoli si sposta sulla collina più antica della città, a Pizzofalcone.

Lungo via Monte di Dio, andando verso il belvedere di Monte Echia, sulla destra, trovate una piccola deviazione. Sembra solo un arco in un palazzo, poi se ci guardate dentro solo un vicolo stretto, quasi un ingresso privato e un poco buio. Sul muro, proprio all’inizio, c’è affissa una poesia, si intitola ‘O duje centesime, è dedicata a questa piccola strada. Il titolo ricorda di quando da qui, al modico prezzo di due centesimi di lire, si poteva scendere a via Cappella Vecchia, cioè passavate in un minuto dal popolo del Pallonetto alla zona di Chiaia. Mo lungo quella scalinata, a monte e a valle, ci sono due cancelli: non basta più pagare, per passare dovete proprio dimostrare, chiavi alla mano, che ca ncoppe ci abitate.

Viale Calascione

Svoltiamo sotto l’arco. Nella penombra, davanti a noi, cammina una signora elegante, con un vestito tutto arancione. Ci pare allora di essere sulla strada giusta, perché il professore di eleganza ne aveva da vendere e pure di piccole stranezze nel vestire, diciamo: di sicuro era particolare.

Man mano che si va avanti la luce aumenta. In fondo c’è un piccolo slargo, un poco affollato stamattina da un sacco di scooter e un paio di macchine. Al centro c’è una panchina che gira in tondo proteggendo una pianta. Poi, due metri più avanti, l’eplosione: si apre moltissimo lo spazio e la luce, si vedono la punta di Posillipo e il mare. A limitare lo sguardo c’è soltanto questo cancello annanz’ e a sinistra una lunghissima balconata di un palazzo signorile con le colonne e le statue.

Ma ricordiamoci perché eravamo venuti, ah sì, per cercare la casa di Renato Caccioppoli fino al matrimonio con Sara Mancuso, al Municipio del Vomero, avvenuto il 28 giugno 1939. Qui abitava con i genitori ed il fratello Ugo, al numero 16, eccolo.

È il palazzo rosso che corre sul lato corto di questa piccola piazza. Passiamo il portone altissimo: la guardiola del portiere è di quelle napoletane rimaste cristallizzate nel tempo; nel ‘700 poteva pure essere uguale. A volte penso che i portieri dei palazzi di questa città siano dei soggetti molto particolari. Sanno molte cose di chi ci abita, stanno lì fermi dentro quelle piccole vetrine e vedono l’umanità che si muove; sembra di vedere Napoli: conosce tutto di noi, osserva senza parlare, ferma, mentre ci vede agitare.

Mi affaccio nel vano ma il portiere non si vede, allora chiamo.

Dopo pochissimo compare: buongiorno, sto cercando la casa dove abitava Caccioppoli il famoso matematico napoletano. So che il numero civico è questo, mi potrebbe dire più esattamente dove?

Sì, abitava qui. La casa è quella al primo piano, dall’esterno vedete tutta la fila di balconi.

Allora esco di nuovo per fotografare.

Metà dei balconi sono in rosso e metà stanno nell’edificio a fianco, vedete, quello con i muri gialli, ma è la stessa abitazione.

Poi torniamo dentro e il portiere mi mostra che anche dal cortile interno, i balconi del primo piano, proprio sopra la guardiola, sono tutti balconi da cui da ragazzo Caccioppoli si poteva affacciare. Questa casa sta in un vicolo antico, sottile, in parte oscuro, però guarda lontano, è aperto verso l’orizzonte, il largo, le possibilità che portano il cielo e il profondo del mare. Forse, a furia di vedersi tutti i giorni, hanno cominciato ad assomigliarsi lei e il professore, napoletano, matematico dall’intuizione aperta e pianista del profondo romantico.

La scalinata verso Chiaia

Mentre me ne vado, poi, prima di andare verso Monte di Dio, torno un attimo a rivedere il panorama dall’alto della scala chiusa a chiave. Scatto una foto e sono solo, tolgo l’occhio dalla macchina fotografica e ho a fianco un giovane. Ha le chiavi del cancello, apre. È troppo un’occasione; senza neppure pensare gli chiedo se posso andare insieme a lui a fare questo piccolo viaggio. Questa scala non è lunghissima però è la connessione tra due parti molto diverse dello stesso corpo: la collina un poco isolata, dove è nata la città vecchia, Palepolis, e il quartiere molto animato e chic dei negozi di Chiaia.

Molto gentilmente mi invita a passare. È fatta di due o tre rampe, lunghe. La prima alla luce, coi gradini di marmo, scoperta, vista mare; poi diventa più semplice, di cemento grigio e scende tra il verde delle piante. Mentre guardo e fotografo ci mettiamo a parlare. Gli racconto la storia della mia venuta qui di stamattina e…”sì, sì quella al primo piano, dove abitava Caccioppoli, quella è casa mia”.

La scalinata verso Chiaia

Che combinazione: il cancello era chiuso e non c’era nessuno, poi appare un ragazzo che abita esattamente in quella casa, ha l’età che aveva Caccioppoli quando ci abitava, e ci invita a passare.

Tre minuti e la scalinata finisce su vico Santa Maria a Cappella Vecchia, siamo nel quartiere Chiaia, pochi metri e c’è piazza dei Martiri.

Il ristorante Umberto

Stamattina siamo fortunati perché la seconda casa che stiamo cercando oggi sta proprio qua vicino, in un palazzo famosissimo di Napoli, a via Chiaia, palazzo Cellamare. Però m’è venuto in mente che da queste parti dev’esserci pure uno dei ristoranti più frequentati dal professore, si chiamava Umberto ed esiste ancora. Non mi ricordo l’indirizzo preciso ma l’insegna, allora vado in giro a memoria per i vicoletti; ed eccolo qui, in via Alabardieri.

Umberto, ristorante pizzeria dal 1916.

Nella parete esterna del locale c’è uno schermo incassato dietro un vetro, allora mi fermo un attimo a guardare. Dopo pochi secondi, nel video, compare proprio lui, Caccioppoli, il professore. Sta in una foto molto nota a chi lo cerca: lui al centro di un tavolo lungo, e intorno altre quattro persone, amici, professori, e don Savino Coronato, il prete suo assistente prediletto, col quale oltre che all’università e al ristorante, andavano, due appassionati di musica, ad ascoltare i concerti al teatro S. Carlo.

Allora entro e chiedo.

Mi accoglie molto cordialmente Massimo, l’erede della tradizione familiare.

Io all’epoca ero troppo piccolo, di persona non l’ho mai incontrato, però mi ricordo di quello che mi raccontavano mio zio e mio padre.

Mi dicevano che a volte veniva in compagnia ma anche molto spesso, a pranzo, da solo. In quelle occasioni era molto riservato, un po’ schivo, silenzioso, e scriveva molto. I due tavoli a cui più frequentemente sedeva erano questi, adesso te li faccio vedere.

Sono, andando verso l’interno del locale, il primo, a destra, piccolo, e poi proprio in fondo, un tavolo lungo, per tante persone. È esattamente quello della foto che sta nel video fuori. In quella foto, alle spalle di Caccioppoli, si vede uno specchio grande, con un’enorme réclame della birra Peroni. Quel tavolo lungo oggi mette molta allegria; sopra ci sono piatti colorati e dietro, al posto dello specchio, c’è un quadro con dentro ballerini con gli stessi colori. Anche se il locale, ci dice Massimo, è un po’ cambiato, il pavimento è quello degli anni ’50, fatto con i pezzetti di marmo di tanti colori. Poi continua a ricordare: mi dicevano che chiedeva pietanze semplici, o la pizza; non era un grande mangione.

Gli chiedo se può apparecchiare il tavolo dove Caccioppoli stava quando era da solo. Lui apparecchia con una certa cura, inizialmente per due. Fotografo, poi gli chiedo di lasciare un unico piatto.

Riguardando le due foto sembra di vedere il passaggio da quando magari c’era venuto con la moglie Sara Mancuso e poi, quando lei lo aveva lasciato, invece era da solo.

Lo ringrazio delle spiegazioni e dei ricordi ed esco. In pochi metri abbiamo trovato un sacco di pezzi della Napoli di quegli anni e di quel signore.

Il cinema Alhambra

A trecento metri da qui c’è un altro posto che ha visto spesso protagonista il professore. In via Nisco, una traversa di via dei Mille, c’era un cinema, si chiamava Alhambra. Caccioppoli, insieme ad altri, aveva fondato il Circolo del Cinema, e una volta alla settimana si tenevano le proiezioni.

Ermanno Rea ci fa ancora una volta da guida, e dice: il luogo dove ogni domenica mattina centinaia di napoletani andavano a compiere una specie di rito purificatorio, tra discussioni e dibattiti. […] Le proiezioni venivano presentate generalmente da Renato Caccioppoli […] d’una arguzia mai fine a se stessa, la quale ci accompagnava per mano in fondo alla malinconica comicità di Buster Keaton oppure in fondo agli occhi di ghiaccio di Ivan il Terribile, ma sempre alla ricerca soprattutto di noi stessi.

Andiamo a cercare anche questo luogo, e però vi dobbiamo dire che non siamo riusciti subito a trovarlo, ci sono voluti alcuni giorni.

Abbiamo chiesto un po’ ai negozianti della zona. Qualcuno si ricordava del cinema, ma non esattamente il portone. Poi dentro ad un articolo finalmente lo abbiamo trovato. Siamo andati a vedere se poteva davvero essere, se quel palazzo avesse davvero tutto lo spazio per ospitare tante persone. Siamo entrati ed effettivamente il locale è molto grande, largo e profondo. Mentre ci camminavamo dentro cercavamo di immaginare come fosse in quegli anni, dove fosse lo schermo, se per caso si sentisse ancora qualche eco delle voci di quelle persone. Sta ancora lì, in via Nisco, potete andare a vederlo anche voi, è facilissimo trovarlo, solo ricordatevi che dovete cercare non più la scritta Alhambra ma il marchio di Upim.

Palazzo Cellamare

Mo andiamo a cercare l’ultimo pezzetto di storia di oggi: la sua ultima casa, a palazzo Cellamare.

A via Chiaia, salendo, sopra il cinema Metropolitan, vedete un palazzo antico, rosa scambiato. La parte inferiore sembra una fortezza, un castello; quella oltre il primo piano invece è di un palazzo raffinato, con i merli ornamentali, un po’ tarlato.

È uno dei palazzi più storici di questa città. La parte fortezza serviva per difendersi dagli attacchi dei corsari (si trovava fuori della città, non lontano dalla spiaggia, la chiaia, dal mare) e dei napoletani durante la rivoluzione di Masaniello e durante la peste del 1656. Trovate scritto dappertutto che ha ospitato Torquato Tasso, Giambattista Basile, Goethe, Giacomo Casanova e Caravaggio.

Palazzo Cellamare, esterno

Nobiltà decaduta, eleganza consumata, e pensando questo mi pare identico allo stile di Caccioppoli. Anche lui indossava camicie cucite su misura, soprabito di grande fattura, ma ben stropicciati, troppo utilizzati, senza curarsi di quello che possono pensare. La cosa più interessante è che in molti poi lo imitavano, se è vero quello che vi stiamo per dire. Caccioppoli passava quasi tutte le sere alla redazione napoletana del l’Unità, che si trovava a fianco alla Galleria Umberto, all’Angiporto Galleria, oggi piazzetta Matilde Serao, ed evidentemente parecchi redattori di quel giornale subivano il suo fascino perché ad un certo punto pure i vertici comunisti ebbero da ridire. Franco Prattico, ex giornalista de l’Unità ci racconta questo:

Vestivamo alla Caccioppoli: camicia aperta, maglietta dolcevita. Finché persino un tipo anticonformista come Giorgio Amendola non si ritenne in dovere di intervenire: fummo obbligati a mettere la cravatta”.

Rena’ ma tu si’ marxista? gli chiedevano. E lui non rispondeva mai. Forse qualche buon motivo per rimanere sempre indipendente, vicinissimo, dentro, ma con la forza dei propri pensieri, non c’era bisogno di raccontarlo a parole.

Ma torniamo a palazzo Cellamare. Se trovate il primo cancello aperto, quello che lascia accedere a una curva in salita, riuscite ad arrivare a quell’altro varco, monumentale. Stamattina ci arrivo, inizio a guardare, scatto una foto. Scattando guardo in alto e vedo, a fianco al portale, un piccolo cartello, di plastica, con una freccia rivolta verso destra e la scritta: Portiere. E mentre la leggo mi affiora, comm’è piccirillo sto cartello, un piccolo presentimento nero. Giro lo sguardo seguendo la freccia e c’è una signora fuori ad una porta, ad una decina di metri, che mi guarda aspettando.

Buongiorno signora, è lei la portiera?

Sì, buongiorno, sono io.

Scrivo per un giornale napoletano, sto cercando i luoghi dove ha vissuto il famoso matematico Caccioppoli. So che abitava qui, oltre il cancello, in una casa a piano terra oltre il cortile di sinistra del palazzo, non è che si potrebbe entrare?

Credo di no.

Ah. E mo che dico? Neppure un attimo? solo per fotografare, fino ad un certo punto, non nell’abitazione?

Direi di no.

Non è che per caso mi potrebbe far parlare con chi abita in quella casa, per citofono, oppure le lascio il mio recapito. Io so che lui abitava in una casa che affaccia nel cortile che si trova entrando sulla sinistra, ma non conosco l’interno.

Non credo.

Vabbuò, difesa impenetrabile, portiere fortissimo, tre a zero; però, siete testimoni, c’abbiamo provato a farvi entrare. Nel frattempo ho capito una cosa: mai avere presentimenti perché poi si avverano.

Si intravede sullo sfondo il cortile e l’edificio al cui piano terra abitava Caccioppoli

Vabbè, non ci hanno fatto entrare però di questo posto teniamo qualche fotografia di alcuni mesi fa e questo ricordo scritto da Ermanno Rea sempre dentro Mistero napoletano, il suo libro bellissimo, di un giorno particolare.

Era il pomeriggio del 13 giugno 1940, il giorno in cui Parigi, sotto la pressione dei nazisti, cade:

[…] C’erano, inoltre, tre o quattro imprecisati amici, e c’era Mario Palermo, una delle più solari figure di galantuomo e di antifascista della Napoli di quegli anni. Piangeva a dirotto, l’allampanato avvocato, piangeva senza ritegno davanti a tutti, che lo guardavano a loro volta trattenendo il respiro, prigionieri di un’emozione di cui riusciva difficile individuare gli stessi confini. Era a Castelcapuano, in Tribunale, quando aveva appreso la notizia: si era messo subito a correre, dirigendo istintivamente i passi in direzione di palazzo Cellammare: in quale altro posto avrebbe potuto piangere Parigi se non là, accanto a Renato? […] a un certo punto Renato Caccioppoli alzò in maniera imprevista il coperchio del pianoforte e, in piedi, con la sola mano destra, accennò al motivo della Marsigliese: pochissime note soltanto, ma senza ritmo, sfibrate, simili a un flebile sospiro”.

Ma di riunioni in questa stessa casa in momenti storici importanti ci racconta anche Maurizio Valenzi, comunista, senatore, pittore, sindaco di Napoli.

L’11 giugno 1946, erano passati nove giorni dall’esito del “referendum sulla scelta “Monarchia o Repubblica”[…] (che) aveva visto a Napoli […] la vittoria schiacciante dei monarchici. Perciò quando in via Medina […] la Federazione comunista issò le bandiere rossa e tricolore, la rabbia dei manifestanti monarchici esplose in un vero e proprio assalto a mano armata. Dopo ore di fuoco (che fecero 7 morti ed un centinaio di feriti) la polizia di Romita intervenne con le armi e mise fine alla sommossa […] Sedato il tumulto, a notte inoltrata, assieme a Mario Palermo ed Emilio Sereni ci recammo a casa di Renato ove si erano dati appuntamento per un incontro urgente diversi uomini politici. Caccioppoli […] aveva partecipato attivamente alle lotte per la Repubblica (teneva comizi nelle vie della città, ndr). Perciò la scelta della sua casa per quell’incontro non era casuale. Così lo conobbi.

Poi non dite che era solo un matematico, o che era semplicemente un eccentrico che andava in giro con un gallo al guinzaglio, perché lo vedete che anima grande forse è una definizione molto migliore.

(Fine terza parte, continua qui).

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

Riferimenti:

  • Ermanno Rea: “Mistero Napoletano”, ed. Einaudi, 1995.
  • Ermanno Rea: “Il caso Piegari”, ed. Feltrinelli, 2014.
  • Romano Gatto, Laura Toti Rigatelli: “Renato Caccioppoli. Tra mito e storia”, ed. Morgana, 2009.
  • Renato Caccioppoli: hanno detto di lui”, a cura di Francesco Chiacchio, Flavia Giannetti, Carlo Nitsch. Università degli studi di Napoli Federico II, Accademia Pontaniana, COINOR, 2009
  • Caccioppoli intimo”, nota di Luciano Carbone e Maria Talamo. Rend. Acc. Sc. fis. mat. Napoli Vol. LXXVII, (2010) pp. 63-108.
  • Piero Antonio Toma: “Renato Caccioppoli, l’enigma”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2° ediz. 2004.
  • Tullio Saldaneri: “Il Gruppo Gramsci”, ed. Homo Scrivens, 2015.
  • Esther Basile: “Il giacobino di Monte di Dio”, ed. Homo Scrivens, 2017.
  • Antonio Fiore: “Quei «vecchi cinema Paradiso»: a Chiaia valevano l’abito da sera”, Corriere del Mezzogiorno, 15 aprile 2013.
  • Maurizio Valenzi: “Confesso che mi sono divertito”, ed. Tullio Pironti, 2007.

IL MATEMATICO NAPOLETANO (2/5) – Seconda puntata sui luoghi di Renato Caccioppoli, in cerca della casa dov’è nato

La settimana scorsa eravamo andati a visitare, dentro l’università Federico II, la stanza del professore. Cioè eravamo partiti dal centro, da quello che, principalmente, era diventato da adulto. Oggi andiamo a cercare la sua prima casa, quella nella quale è nato, dov’è stato bambino, villa Caccioppoli, ncopp Capodimonte.

La principale traccia oggi ce la dà un libro (Gatto, Rigatelli: Renato Caccioppoli, nei Riferimenti). Dentro c’è la fotografia dell’Atto di nascita, che dice:

l’anno millenovecentoquattro, Avanti di me Avvocato … Uffiziale dello Stato Civile del Comune di Napoli San Carlo è comparsa Elena Papazafiropulo di anni ventinove, levatrice … la quale mi ha dichiarato che alle ore antimeridiane dieci e minuti trenta, del dì venti del corrente mese (gennaio, ndr), nella casa posta in Via Capodimonte numero Villa Caccioppoli da Giulia Sofia Bakunin fu Michele d’anni trentaquattro Dottoressa moglie di Giuseppe Caccioppoli fu Domenico d’anni cinquantuno Medico Chirurgo seco lei convivente è nato un bambino che ella mi presenta, e a cui dà i nomi di Renato Ciro Agostino. La dichiarante à [sic] denunciata la nascita suddetta per avere nella sua qualità assistito al parto della Bakunin ed in luogo del marito di questa perché impedito.

Bene, allora abbiamo un certo numero di informazioni:

La mamma, Bakunin di cognome, era di origini russe, anzi era proprio la figlia* di un russo anarchico famoso: Michail Bakunin, uno che non stava mai fermo in un posto, ha vissuto in mille città. Solo a Napoli, eccezione, ha trascorso due anni (1865-1867), tempo lunghissimo per lui, gli piaceva la gente ed il caffè della nostra città, era qui dicono che ebbe la sua definitiva maturazione anarchica e ci stava per tornare, se non fosse morto. La mamma, Giulia Sofia, si era diplomata al liceo Umberto ed era stata la seconda donna a laurearsi in medicina all’università di Napoli. Il padre era un chirurgo molto noto, professore agli Incurabili. (Poi, tra parentesi: il cognome della levatrice è impronunciabile e Caccioppoli, sono andato a vedere, era capricorno ascendente ariete).

Poi, riassumendo le informazioni più utili per oggi: l’indirizzo della casa è via Capodimonte, numero civico Villa Caccioppoli. Un numero civico un poco strano, ma evidentemente all’epoca era sufficiente per individuare il luogo, per fare arrivare la posta a destinazione.

Prima di partire guardo su internet, sulla mappa elettronica del mondo: via Capodimonte non è lunga, però di ville con quel nome di tracce non ce ne sono. Forse ha cambiato nome, l’unica cosa è provare sul campo.

La ricerca sul posto

Scendo dal pullman, via Capodimonte, fuori Porta grande del Real Bosco. C’è un bar. Vado a prendere un caffè, magari mi fa venire un’idea nuova, cerco un’ispirazione.

L’idea non mi viene, però chiedo al signore alla cassa. Scusate sapete villa Caccioppoli qual è?

Villa Caccioppoli? No, mi dispiace. Però mi porta all’ingresso e mi indica due signori fermi a chiacchierare che potrebbero saperlo. Hmmm neppure loro hanno un’idea precisa. Forse è la villa che sta più in basso, nella curva prima della Madre del Buon Consiglio, la chiesa grande.

Allora inizio a scendere.

Ma no, a istinto non sono convinto, torno indietro: meglio chiedere qui alla gente del quartiere perché più in basso non ci sono case e chiedere di nuovo non sarà possibile.

Entro nell’edicola all’angolo nel punto esatto dove finisce via Capodimonte e inizia via Ponti Rossi. C’è una signora dietro il banco.

Guardate dobbiamo chiedere a mio marito perché io non sono di Napoli, lui è della zona. E mi porta dall’uomo che stava all’ingresso parlando del più e del meno con una signora.

Il nostro ricercatore principale

Lui subito si entusiasma, gli vengono mille idee; ma la prima è guardare su internet con il cellulare. Trova le cose che avevo visto io da casa. Villa Caccioppoli, alcune notizie, ma niente indirizzo, soltanto il nome. Però non si perde d’animo: “Ma io sto nome me lo ricordo”, e continua a cercare; poi telefona a un amico della zona che sape tutt e fatti e secondo lui lo deve per forza sapere.

Nel frattempo dice alla moglie di guardare tra le ristampe di foto d’epoca che tiene in una cartellina nel negozio, dietro al bancone. Lui non perde tempo e intanto parla con quell’amico al cellulare.

Cerchiamo, discutiamo, poi la moglie dice: eccola: e tira fuori una foto gialla con scritto “Napoli-Porta Piccola, Capodimonte, villa Cacciopoli” con una “p” soltanto. L’ha trovata, e mi pare quasi incredibile.

La foto della villa

Guardiamo la foto e lui cerca di ricordarsi se ha visto quella forma e dove. Però un dato è importante: Porta Piccola. Allora la casa sta sull’altro lato del bosco, non da questo. Via Capodimonte forse una volta si chiamava anche quella da quell’altro lato.

Ringrazio assai, saluto, entro da Porta Grande, esco dalla Piccola e reinizio a chiedere a quelli su quest’altra sponda.

Dal lato di Porta Piccola

Per adesso nessuno sa molto. Poi vedo un signore anziano seduto lungo il marciapiede e gli faccio la fatidica domanda.

Il signore seduto sul marciapiede

Lui pensa un poco, parla, pensa, ascolta. Poi dice qualcosa. Nel frattempo dal negozio esce una signora, forse la moglie, e iniziano a parlare. Piano piano arrivano, discutendo tra loro, ad una ipotesi, cioè per la signora è un’ipotesi, lui invece è sicuro. Io sbaglio, e mi fido ma solo fino ad un certo punto.

Però seguo la loro traccia. Nel frattempo di nuovo chiedo, un po’ perché l’indicazione che mi hanno dato per me che non sono della zona è chiara ma non del tutto e un po’ per raccogliere magari altri elementi.

Dentro una cartoleria la scena in parte si ripete.

Questa volta è una signora sulla settantina che la ricerca la inizia dal suo telefonino. Quanto è diffuso oggi questo modo di cercare; è il primo posto che ci viene in mente se abbiamo qualcosa che ci manca.

Nella cartoleria

Esco senza molti indizi nuovi. Promettendo di tornare nel caso che la trovo, perché adesso anche loro sono curiosi di sapere se questo posto esiste e dove.

Fuori ad una salumeria, dalla vetrina, una donna mentre passo mi guarda incuriosita. Forse perché ho la macchina fotografica in mano e desto attenzione. Allora entro e chiedo pure a loro.

Bene, mi pare convinta, mi dà un’indicazione precisa e saremmo quasi arrivati. Vado sul posto, lì c’è effettivamente una villa famosa ma dopo poco scopro che non è quella. Però mi indicano il Liceo Sbordone, anche loro sembrano convinti e poi questa collocazione combacia quasi perfettamente con quella che mi aveva dato il signore anziano, all’inizio, lungo il marciapiede. Si trova all’inizio di via vecchia San Rocco, dal lato di via Bosco di Capodimonte che è quella che stiamo risalendo noi.

Vado, entro nel cancello della scuola, chiedo al custode. Sì, la villa è questa qui a fianco. Ci abitano ancora, una persona sola, provate a citofonare.

Eccola, la memoria del quartiere si è ricostruita, è riuscita a convergere, attraverso le teste ed i ricordi delle sue persone, verso questo luogo che gli appartiene. Citofono una volta, due tre, dopo la quarta fotografo dal cancello chiuso e vado via. Ma per ritornare.

Il viale d’ingresso di villa Caccioppoli

Tornando verso casa racconto a quelli a cui avevo chiesto e che erano curiosi, che la villa l’ho trovata, e gli do la posizione: quasi su viale Colli Aminei, proprio attaccata al Liceo Sbordone. Così magari abbiamo avuto anche noi una piccola utilità: di rinfrescare un ricordo del quartiere.

Ritorniamo sul posto

Poi dopo alcuni giorni ci torno. Busso, e la scena sembra uguale, non c’è nessuno che risponde. Chiedo di nuovo al custode della scuola, che ormai si ricorda. Ci consiglia di ritornare tra un poco.

E allora più tardi torniamo. Oh, adesso c’è un signore nel lungo viale d’ingresso, oltre il cancello principale, che sta potando le piante che in questo posto stanno ovunque. Gli facciamo segno da lontano, forse ci stava aspettando.

Si avvicina e gli chiediamo: Questa è villa Caccioppoli?

Sì è questa.

È nato qua il famoso matematico napoletano?

Mah, da quello che mi raccontava sempre mio padre, che curava prima di me questo posto,quando ci abitavano, Caccioppoli era nato in un’altra casa della famiglia. Mi pare… e cita un ricordo vago.

Gli chiediamo se possiamo entrare a vedere com’è adesso la casa. Ma deve chiedere ai proprietari se danno il permesso, per stamattina, giustamente, non si può entrare.

Un po’ di delusione, e un poco di speranza.

Poi, fino ad ora, non ci hanno mai chiamato ad andare a vedere.

Però sapere in quale punto della città ha avuto inizio la storia di quest’uomo ci pare già abbastanza. Possiamo collocare dentro Napoli, l’atmosfera, la luce, l’altezza, il punto da cui ha visto e dal quale lo ha guardato il cielo in quel suo primo giorno.

E poi, se devo dirla tutta, la soddisfazione è che queste giornate ci hanno confermato che chiedere ai napoletani è un bel piacere, e che battono ancora di gran lunga pure internet, quando li metti in rete, anzi è molto più bella la parola insieme.

(Fine seconda parte, continua qui).

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

* È accertato da lettere dell’anarchico russo, che la reale paternità delle figlie dichiarate da Bakunin fosse, con Bakunin consapevole e dimostrante grandissima umanità e non attaccamento, dell’avvocato napoletano Carlo Gambuzzi. Vedi ultimo testo tra i Riferimenti sotto.

Riferimenti:

  • Ermanno Rea: “Mistero Napoletano”, ed. Einaudi, 1995.
  • Romano Gatto, Laura Toti Rigatelli: “Renato Caccioppoli. Tra mito e storia”, ed. Morgana, 2009.
  • Michail Bakunin, “Viaggio in Italia”, ed. elèuthera, 2013.
  • Atti Accademia Pontaniana, Napoli N.S., Vol. LXIII (2014), pp. 119-162 “Marussia Bakunin: una rilettura aggiornata della vita e della carriera. Nota del socio ord. res. Carmine Colella”

IL MATEMATICO NAPOLETANO (1/5) – Caccioppoli, alla ricerca dei luoghi del professore geniale

Da un po’ di tempo stiamo andando in cerca, come abbiamo già fatto per Giacomo Leopardi, dei luoghi napoletani di un altro personaggio molto interessante.

Un uomo altrettanto internazionale, poliglotta, sensibile e geniale. Solo che invece di guadagnarsi da vivere scrivendo poesie, campava insegnando matematica e inventando teoremi.

A pensarci bene neanche in questo, tra i due, la differenza è molta. Perché per creare un teorema ci vuole una grande capacità di volare alto per vederlo, d’intuito, e poi di scavare sotto terra, in profondità, per tirare fuori le prove che convincano anche gli altri, quelli che con l’intuito non ci riescono ad arrivare, la dimostrazione.

Renato Caccioppoli (foto dal web)

Si chiama Renato Ciro Agostino Caccioppoli, per molti ‘o genio o ‘o prufessore.

Su di lui hanno scritto tante cose. Ne sentivo parlare da molto tempo, poi ne ho trovato traccia in un libro bellissimo: “Mistero napoletano”, di Ermanno Rea, che mi ci ha fatto definitivamente avvicinare.

C’è anche un film famoso, del 1992, “Morte di un matematico napoletano”, di Mario Martone. Che però della vita racconta soltanto il finale. M’aveva lasciato una strana sensazione quel film, un gusto amaro. Probabilmente perché amaro era quell’uomo negli ultimi suoi giorni, e più pesante.

Poi, andando alla ricerca dentro ai libri, sopra le fotografie, mi è sembrato di vedere anche un altro uomo: sottile, sottilissimo, non ben piazzato sulla terra come quell’attore.

Dicono pesasse meno di cinquanta chili, che moltiplicato per l’altezza, uno virgola settantasette, fa una figura geometrica lunga e sottile. Il poeta Andrè Gide forse aveva colto questo quando lo aveva definito un’anima, ma anche l’uomo più intelligente di Napoli.

Renato Caccioppoli (foto dal web)

Sembra lungo e trasparente il professore, dentro questi libri, e così complesso da restare oscuro. Partigiano della pace, comunista senza tessera, senza mai farsi ingabbiare, leader naturale perché chi sta avanti chilometri agli altri, se non tiene la sua visione per sé soltanto, non può che guidare.

Ma procediamo piano, ché qua, per troppo entusiasmo, vi sto dicendo tutto nel verso esattamente opposto a quello giusto. Allora andiamo insieme, passo per passo, sulle tracce di quest’uomo ricco che aveva addosso sempre lo stesso vestito e camminava quasi solamente a piedi.

Via Mezzocannone 8

Partiamo da via Mezzocannone 8, la strada centrale, a Napoli, dell’Università “Federico II”. Qui c’è la sede storica del dipartimento di matematica e stamattina la andiamo a visitare.

Portale del ‘400, marmo nei pavimenti, dietro il vetro della guardiola c’è l’usciere, attento. Buongiorno, mi potrebbe dire dov’è la stanza del prof. Carbone?

Ha un attimo di esitazione; allora io: mi sta aspettando, ho un appuntamento. Però so solo il piano, non l’interno esatto.

Riprende fiato: in fondo a sinistra trova l’ascensore, al quarto piano trova i colleghi e può chiedere a loro con più precisione.

Entro. Dopo pochi metri c’è un busto molto grande, il cappotto ha le spalle troppo larghe, eccolo, non me l’aspettavo, sta già qua davanti a noi il professore, perché questo dipartimento adesso porta il suo nome: Dipartimento di Matematica e Applicazioni “Renato Caccioppoli”. Che fosse un genio lo avevamo capito, ma teneva davvero ‘na capa accussì enorme?

Il busto nell’atrio di Mezzocannone 8

Al quarto piano mi indicano una porta a vetri antica, grande, a forma di arco. Fuori bisogna bussare a un citofono moderno.

Forse sto posto mi fa troppa emozione: se non era per la ragazza del bar, che sta portando il caffè, stavo lì a spingere la porta invece che tirarla per altre due ore.

Finalmente oltre c’è un altro corridoio spazioso, lungo. E a sinistra, in fondo, una grande scritta in oro sotto un fregio di marmo: “Istituto di Analisi Superiore”; più in alto di questo non potevamo arrivare.

La porta si apre: spunta un signore placido in maglione azzurro.

Buongiorno, piacere professore.

Ci accoglie in questo ambiente rimasto com’era da molto tempo: le porte di legno, i pavimenti, le poltrone. E ci porta subito a vedere una cosa, il fulcro, il centro: la stanza personale di Renato Caccioppoli, professore, soprattutto di Analisi Matematica, in questa Università dal 1933 al suo ultimo giorno.

Sto fotografando troppo in fretta: troppe cose rare. Provo a rallentare.

C’è una scrivania di legno rosso dentro la luce d’oro, laterale, di questa giornata che avevano previsto di pioggia.

La scrivania del professor Caccioppoli

Fotografo, fotografo; ad un certo punto però mi pare che non sto acchiappando niente, di scattare a vuoto.

Allora glielo dico: però, professore, mi sembra una stanza in uno stile esattamente opposto, per quello che ho letto, a quello del professor Caccioppoli. Dicono tutti che era una persona molto alla mano, senza nessuna velleità formale; elegante, ma di un’eleganza … interiore per approvare questo stile forse un po’ di rappresentanza?

La vista dalla stanza del prof. Caccioppoli

E lui, in poche parole: sì, infatti io credo che lui qui si appoggiasse soltanto.

Ah ecco, sta poltrona l’avrà visto seduto chi sa quante volte. Però sul mobile a fianco c’è un busto, piccolo stavolta, e acuto, somiglia molto alle espressioni nelle foto che abbiamo visto in questi giorni, prima di partire.

Il busto nella stanza

Le stanze subito attigue invece sono nel suo stile. Scrivanie essenziali, una lavagna con sopra scritte delle formule, poi troviamo lo stesso pavimento identico di una delle case napoletane di Leopardi.

Queste sono le scrivanie degli assistenti, sono due stanze una di seguito all’altra: la distanza dalla prima scrivania era direttamente proporzionale, in qualche modo, alla vicinanza ideale al professore.

Allora ci viene in mente che quella alla quale siamo seduti adesso il professor Carbone e io, doveva essere la scrivania di don Savino Coronato, ‘o prevete, lo storico assistente e amico, sacerdote, di un professore comunista ateo.

Nell’ultima stanza c’è una bella raccolta di modelli.

Ecco, fino ad ora io pensavo che un modello matematico fosse una parola riguardante un pensiero immateriale. Mo invece i modelli fisicamente li vedo dentro queste vetrine: vedere per capire, capire per vedere, mi dice il professore. Ci si faceva prima un’idea generale di un “pensiero matematico” ma poi per cercarne i dettagli si faceva realizzare (molti di questi vengono addirittura dalla Germania) un modello reale, fisico, che si può toccare. Perché per certe geometrie complesse non si riesce a immaginare tutto.

Poi mi fa notare dentro le vetrine dei congegni meccanici. E mi dice: servivano per calcolare.

Per esempio per calcolare l’area sottesa ad una curva (che si può chiamare pure “integrale”) si disegnava la curva su un foglio, poi mentre con la punta di uno di questi congegni si seguiva la curva disegnata, dall’altra parte un’altra punta tracciava su un altro foglio l’andamento numerico dell’area. I computer sono una cosa di pochi anni. Per molto tempo i sistemi sono stati altri.

Anche le fotocopie, ci dice il professore, fino a non molti anni fa non esistevano o erano rare e quindi si realizzavano di un libro gli “estratti”. Fascicoletti di un singolo argomento trattato nel testo. Così si potevano dare in prestito agli studenti senza rischiare che il libro venisse “perso”. E mi mostra una libreria di estratti dentro uno scaffale alto. Sopra, sotto il soffitto, una macchia di umido aspetta.

L’aula per le presentazioni scientifiche ai docenti

La porta per l’ingresso del relatore

Poi il professore ci porta a vedere la stanza dove si facevano le presentazioni scientifiche ai colleghi. È arredata con le sedute del coro del convento dei gesuiti che stava qui dentro. Perché qui siamo in quello che era la Casa del Salvatore, la Casa Madre dei Gesuiti fino al ‘700. Quando furono smantellati quei locali si riuscì a salvare questi arredi e portarli in queste stanze.

C’era una certa attenzione al colpo di scena, e infatti qui, vede, c’è una seconda porta. Quando il pubblico era seduto intorno, compariva il professore da quest’altra per la lezione.

Lui attribuisce anche a Caccioppoli, probabilmente, una tendenza a fare scena. Qualcosa di vero ci dev’essere se venivano ad assistere alle sue lezioni anche studenti di altre facoltà e persone che con la matematica non c’entravano assolutamente niente.

E ci racconta un aneddoto famoso che era studiato con premeditazione, non solo, ma ci assicura che questo, a differenza di altri di cui non si ha certezza, aveva fino a non molto tempo fa testimoni viventi.

Un giorno si presenta a sostenere l’esame col professore una ragazza. Be’, Caccioppoli, sebbene molto amato dagli studenti, non era affatto largo di voti e neppure di promozioni: allora ad un certo punto chiede alla studentessa di tracciare alla lavagna una retta, poi di prolungarla, poi di continuarla ancora perché si sa, la lunghezza di una retta non ha fine; poi la lavagna finisce e comincia il muro ma il professore è molto esigente: continui, continui. L’idea era di farla uscire, povera, senza essere stata promossa, in compagnia di quella retta.

E non finisce qui, l’evento ebbe una continuazione serale poco conosciuta. La studentessa in questione era nota a Caccioppoli in quanto figlioccia di un’assistente universitaria, Maria del Re, la cui casa era frequentata dal professore. Allora la sera il professore e la ragazza si incontrano casualmente in quella casa e pare che lui le abbia chiesto: “Lina, ti vedo abbattuta. Che ti è capitato?”. Sembra che Caccioppoli non amasse per nulla le persone che pensavano di ottenere dei vantaggi dalla semplice conoscenza personale e allora quella ragazza rientrando, forse, nella mente del professore, in quella categoria, ricevette un trattamento un po’ feroce.

Abbiamo telefonato nei giorni seguenti alla figlia della signora in questione. Ci ha confermato la cosa dai racconti della madre. Ha aggiunto però, per la precisione, che quel trattamento pare sia stato riservato a ben più di uno studente.

La vecchia lavagna orizzontale

Mo andiamo in giro per le aule di lezione, quelle più antiche. Ad un certo punto il professore si infila in una porticina, poi quasi al buio su per una scaletta. Pochi metri e usciamo in alto, sul fondo di un aula in discesa.

Una delle vecchie aule

È una delle ultime aule rimaste come allora. Chi sa che non sia esattamente il luogo in cui è successo quell’evento, perché dietro la lavagna moderna, che sale e scende in verticale, ce n’è una lunga lunga, orizzontale, e poi un breve tratto di muro, prima della porta, su cui disegnare.

La sala “Battaglini”

Sempre qui al quarto piano c’è anche la stanza utilizzata a quei tempi per le riunioni tra docenti, è la sala “Battaglini”.

La sala Battaglini

Entriamo e alle pareti ci sono i nomi dei matematici più famosi del mondo fino al ‘700 e oltre. Nel film di Martone, Caccioppoli, durante una riunione in questa sala, poiché non era interessato alle questioni economiche, prima si mette a leggere disteso sopra al tavolo che adesso abbiamo di fronte, poi ci si addormenta e ci rimane da solo. Ma non era mancanza di rispetto verso Giuseppe Battaglini, tutto al contrario, perché il “Giornale di matematiche” che Battaglini aveva fondato, Caccioppoli, insieme al professor Carlo Miranda, lo diresse proprio. Ecco forse lui badava alle cose importanti, recuperava sonno su quelle di normale amministrazione.

Andando in giro per questi ambienti in cerca di tutte le stanze ad un certo punto ripassiamo davanti ad un’antica libreria. Sul ripiano più basso, proprio sullo spigolo, adesso c’è appoggiato un pacchetto di sigarette che non c’era; fai che di qua nel frattempo è passato Caccioppoli e non l’abbiamo visto, lui che era un grande fumatore.

Poi scendiamo per queste scale coi gradini di piperno per andare a vedere un altro luogo, dentro questi stessi palazzi, in cui Caccioppoli era familiare, l’Accademia Pontaniana. Di questa Accademia non solo fu membro, ma subito dopo la fine della guerra fu tra quelli che si impegnarono di più per farla rinascere dalle ceneri dei bombardamenti.

Libri dappertutto in queste sale immense, eleganti. L’aria che si respira è diversa da fuori. Non siamo nel 2018, siamo senza tempo.

Ci sono anche due grandi sale per convegni. Una è l’aula magna. La sensazione, per un attimo, è di vedere le riunioni politiche degli anni ’50. Forse perché leggendo del professore, i racconti di quelle pagine, richiamano atmosfere uguali.

Appeso al muro c’è un ritratto di donna in una cornice d’oro. Quello è il ritratto della zia di Caccioppoli che si trova in molti libri, ci fa notare il professor Carbone: Maria Bakunin, sorella della mamma di Caccioppoli, era stata presidente di quest’Accademia addirittura.

Lo scalone della Minerva

Mentre percorriamo queste scalinate, da una finestra compare per un momento un altro luogo legato al ricordo del professore: è lo Scalone della Minerva.

Qui nel giugno del 1952, quando gli americani si erano impossessati del porto di Napoli con la loro Sesta Flotta e la gente e gli operai e gli studenti, in occasione dell’arrivo del generale Ridgway (il “generale peste” perché in sospetto di aver fatto uso di armi batteriologiche nella guerra di Corea), manifestavano contro la guerra fredda, Renato Caccioppoli era uno dei massimi esponenti dei Partigiani della pace.

Abbiamo scovato la pagina de l’Unità che lo racconta, è quella di martedì 17 giugno 1952. Ecco il brano che ci riguarda in senso stretto.

“…Il secondo episodio della giornata ha avuto a protagonisti gli studenti universitari napoletani che in numero di molte centinaia hanno manifestato per la pace e l’indipendenza nazionale distribuendo volantini e riaffermando a voce alta dinanzi allo Ateneo i loro sentimenti. Successivamente, mentre la Celere cingeva di cordoni l’edificio, una grande assemblea è stata tenuta sulla grande scalinata interna dove ha parlato il prof. Renato Caccioppoli, ordinario di analisi matematica e membro del Comitato provinciale dei Partigiani della Pace. La polizia non ha osato però questa volta dare l’ordine di penetrare nell’Ateneo e solo più tardi il prof. Caccioppoli è stato invitato in questura per un interrogatorio durato oltre due ore. …”

E così ci ricorda Ermanno Rea di quella stessa mattina: “all’università, accerchiata da cordoni di celerini, sulla grande scalinata interna si svolse un’assemblea molto affollata alla presenza del nostro professore-idolo: Renato Caccioppoli. In omaggio all’assolata giornata pre-estiva egli si offrì al nostro sguardo senza il suo amatissimo impermeabile bianco, la cui assenza ce lo fece apparire quasi implume. Nudo. Nonostante la giacca doppiopetto marrone. Ci tenne uno dei suoi ineffabili discorsi, ma insolitamente avaro d’ironia. Piuttosto duro, preoccupato. Del tipo “prepariamoci al peggio”. Dopo l’assemblea mentre se ne stava andando la polizia lo bloccò. …uomini in borghese… agenti… Soltanto a sera seppi che era stato trattenuto oltre due ore in questura dove, dopo avergli contestato passi del discorso svolto all’interno dell’università, lo avevano diffidato “a partecipare ad alcuna manifestazione non previamente autorizzata”.

Ecco perché il signore di cui stiamo parlando non era solo un matematico, seppure geniale.

Il Cortile delle Statue

Giordano Bruno nel Cortile delle Statue

Poi scendiamo ancora ed arriviamo in uno spazio enorme: è il Cortile delle statue. Ci vengono incontro appena appena, tra gli altri, Leopardi e Giordano Bruno.

Questa città è un pozzo senza fondo. Questa città puoi scavarla in eterno. Il professore mi accompagna fino al portone su via Paladino, poco prima c’è un’iscrizione in marmo: “a Papa Clemente quattordicesimo che con bolla del 21 luglio 1773 aboliva la Compagnia di Gesù…”.

Poi usciamo e, a sinistra e a destra, i basamenti dei pilastri ai lati del portone mi accorgo che erano quelli di un tempio. Di nuovo la stessa sensazione. Uno pensa di andare in giro per Napoli a scavare nel passato, e poi si rende conto che non la sta quasi scalfendo neppure.

Ci fermiamo qui per oggi in questa ricerca perché di luoghi da cercare del professore ce ne sono tanti. A presto, se volete, per un’altra parte di questa escursione.

(Fine prima parte, continua qui)

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

Riferimenti:

  • Ermanno Rea: “Mistero Napoletano”, ed. Einaudi, 1995.
  • Ermanno Rea: “Il caso Piegari”, ed. Feltrinelli, 2014.
  • Romano Gatto, Laura Toti Rigatelli: “Renato Caccioppoli. Tra mito e storia”, ed. Morgana, 2009.
  • Renato Caccioppoli: hanno detto di lui”, a cura di Francesco Chiacchio, Flavia Giannetti, Carlo Nitsch. Università degli studi di Napoli Federico II, Accademia Pontaniana, COINOR, 2009
  • Caccioppoli intimo”, nota di Luciano Carbone e Maria Talamo. Rend. Acc. Sc. fis. mat. Napoli Vol. LXXVII, (2010) pp. 63-108.
  • Piero Antonio Toma: “Renato Caccioppoli, l’enigma”, Edizioni Scientifiche Italiane, 2° ediz. 2004.
  • Tullio Saldaneri: “Il Gruppo Gramsci”, ed. Homo Scrivens, 2015.
  • Esther Basile: “Il giacobino di Monte di Dio”, ed. Homo Scrivens, 2017.

LEOPARDI A NAPOLI (2/2) – La seconda puntata sui luoghi napoletani del poeta

Eravamo rimasti, nella puntata scorsa, in questo nostro viaggio alla ricerca dei luoghi di Leopardi, accennando all’ultima casa napoletana occupata da lui e da Antonio Ranieri  (lo potete chiamare Totonno se pure voi siete poeti).

È la casa dove hanno vissuto più a lungo a Napoli, dal maggio del 1835 al giugno 1837, e si trova in vico Pero n°2. Affaccia su via Santa Teresa degli scalzi, poco sopra il Museo Nazionale.

Se guardate il palazzo da questa strada, all’incrocio con via Materdei, vedete la lapide che ricorda l’accaduto. È stata proprio questa iscrizione, vista una mattina, che ci ha suggerito l’idea di andare a cercare per Napoli Leopardi. Ed è il posto, durante questa ricerca, dove più spesso siamo stati. Adesso ci ritorniamo e, grazie alla cortesia dell’attuale proprietario, riusciamo ad entrare proprio nell’abitazione.

È una casa vasta, ma a noi, che non volevamo essere troppo invadenti, bastava scattare una foto dal balcone: la casa, sono passati quasi due secoli, è ovviamente cambiata e a noi del poeta interessa la visione. Nella foto vedete ripreso di lato il balcone dal quale si affacciava il conte, dà su via Santa Teresa. Sembra che amasse molto starsene qui affacciato a guardare fuori. Oggi forse, con il traffico delle macchine è meno pittoresco, ma se uno prova a ricostruire col pensiero come poteva essere senza il pullman che sta passando adesso, forse si immedesima un poco negli occhi del poeta.

Questa non è una casa qualunque, è stata l’ultima casa terrena di Leopardi, è qui che è passato oltre, il 14 giugno 1837, proprio oggi, 181 anni fa.

Allora ringraziamo molto il proprietario che gentilmente ci ha aperto pure se stava in vestaglia, e torniamo in strada.

Ma pensando a quell’ultimo giorno teniamo dentro un poco di silenzio. Cca ce vo nu cafè, il bar più vicino sta a pochi metri, sullo stesso lato del palazzo, sempre su via Santa Teresa, entriamo. Dietro al bancone ci sta un signore affabile coi baffi e gli occhiali rossi, ogni volta che siamo venuti in questo bar sulle tracce di Leopardi ci ha detto sempre qualche notizia, anche a lui incuriosisce ‘sto poeta. Alla moglie invece sta antipatico, ogni vota ca trasimme ci dice: si però Leopardi era tropp’ triste, una sola poesia sua è bella: “A Silvia”.

E noi ogni volta proviamo a difendere un poco la memoria del poeta: si ma “L’Infinito” per esempio, ve la ricordate? A me, rileggendola adesso, mi pare molto positiva, mi sembra la descrizione perfetta di un attimo di illuminazione.

Ma a giudicare dall’espressione della signora nun l’avimme convinta. Però almeno ce simme pigliat nu buonu cafè e distratti nu poco.

Poi ci viene in mente una domanda: ma Leopardi, quando usciva di casa aro’ se ne ieva?

Un luogo di sicuro lo ha visitato, abbiamo le prove. Si trova a piazza Dante, che a quell’epoca si chiamava ancora piazza del Mercatello: è la scuola del marchese Basilio Puoti, accademico della Crusca e compilatore anche di un bellissimo Vocabolario domestico napoletano e toscano. In quella scuola di belle lettere andava un giovane ragazzo che diventerà famoso, Francesco De Sanctis, e quel ragazzo in un suo libro così ci racconta:

Una sera egli (Basilio Puoti ndr) ci annunziò una visita di Giacomo Leopardi … quando venne il dì grande era l’aspettazione … Ecco entrare il conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè, mentre il marchese gli andava incontro. Il conte ci ringraziò, ci pregò a voler continuare i nostri studi. Tutti gli occhi erano sopra di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. Non solo pareva un uomo come gli altri, ma al disotto degli altri. In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso. Uno degli <Anziani> prese a leggere un suo lavoro. Il marchese interrogò parecchi, e ciascuno diceva la sua. Poi si volse improvviso a me: “ E voi cosa ne dite, De Sanctis?” … Parlai una buona mezz’ora e il conte mi udiva attentamente, a gran soddisfazione del marchese, che mi voleva bene. …Quando ebbi finito, il conte mi volle a sé vicino, e si rallegrò meco, e disse ch’io avevo molta disposizione alla critica…… Il marchese, che, quando voleva, sapeva essere gentiluomo, usò ogni maniera di cortesia e di ossequio al Leopardi, che parve contento quando andò via. La compagnia dei giovani fa sempre bene agli spiriti solitari. …” (1)

Insomma non solo c’era stato ma s’era pure divertito. (C’o vulesse ricere alla moglie del barista n’coppa Santa Teresa).

Ormai avete capito che dopo aver letto di sicuro siamo andati a vedere.

È il palazzo rosso che sta esattamente, su via Toledo, di fronte a Port’Alba. La facciata è imponente e anche il portone. Al primo piano sventola l’insegna di una Accademia del make-up, cambiano i tempi e i tipi di scuole, e ci viene da sorridere un momento pensando alla faccia del marchese Puoti che non voleva nomi altisonanti: voleva che la sua accademia venisse chiamata semplicemente studio. Entriamo oltre il portone, a destra c’è una scuola di tango, a sinistra una confraternita. Insomma palazzo Ruffo di Bagnara, costruito all’inizio del ‘600, restaurato dal fratello di Domenico Fontana, attaccato dai rivoltosi di Masaniello nel 1647, sede del Comitato Napoletano di Liberazione Nazionale alla fine dell’ultima guerra mondiale, ne ha viste, e continua a vederne, di tutti i colori. (3) Poi ci avviamo oltre il cortile, c’è una scala bellissima, ampia, dopo le prime rampe venite accolti da un gruppo scultoreo enorme. Negli angoli dei pianerottoli ci sono delle piccole sedute. Le fotografiamo chiedendoci se per caso Leopardi, salendo quella sera questa scala non si sia fermato qui un momento per riprendere fiato. Incontriamo due inquilini ma nessuno dei due sa dirci dove fosse quella scuola. Lasciamo a voi di indagare oltre, a noi per ora è bastato varcare quella soglia e salire i gradini in compagnia del conte.

Poi a Napoli arrivò il colera. E De Sanctis di nuovo ci racconta: “Le immaginazioni furono colpite; la paura rendeva irresistibile l’epidemia. … Non c’erano allora giornali; il governo col suo mutismo accresceva il terrore e provocava le esagerazioni. … La vita pubblica fu sospesa; le scuole, le botteghe, erano deserte”. (1) E quindi anche lo studio del Puoti per un po’ dovette chiudere, “…il marchese con tutta la sua famiglia s’era ricoverato in Arienzo”.(1)

E pure Leopardi e Ranieri per cercare di proteggersi dal morbo decidono di spostarsi in campagna, a Torre del Greco, nella casa di Giuseppe Ferrigni, cognato di Ranieri. Quella diventata famosissima per una poesia, Villa delle Ginestre. Sta in mezzo alla campagna, vicino al Vulcano, sotto.

Ci andiamo una mattina in circumvesuviana. Questo posto è così importante nella nostra memoria collettiva che la ferrovia gli dedica una fermata intera: Villa delle Ginestre. Scendiamo. Sul treno ci stava un milione di persone che andava a Pompei, a questa fermata siamo scesi soltanto noi. Subito fuori alla stazione, troppo amata da chi scrive sui muri, molto meno, sembra, da chi quei muri dovrebbe curarli, c’è il cartello con la storia della villa. Poi iniziamo a salire a piedi. Proviamo a cercare una strada secondaria, per pedoni, ma pur chiedendo e richiedendo ci spediscono tutti su un vialone largo buono più per le automobili; però almeno ci sono le indicazioni per la villa. A un bivio la strada comincia a farsi più stretta. Siamo quasi arrivati, si gira per campagne.

La terra è nera di Vesuvio, ci sono gli orti. Una signora sta proprio adesso nel suo campo a raccogliere i piselli. C’è qualche vite per pochi e qualche albero da frutti. Poi finalmente la casa: il cancello è semichiuso però si passa. Già il cortile è bellissimo, ampio, panoramico: si vede Capri nell’acqua. La porta a vetri è accostata ma basta usare la maniglia.

È un ambiente centrato, a forma di quadrato. Un gentilissimo dipendente del comune ci accoglie e ci lascia salire, siamo gli unici visitatori. La scala per il piano di sopra ha le alzate comodissime: sembra l’abbia disegnata il Vanvitelli che in questa casa è stato ospitato. Secondo me ha accentuato la prospettiva di questa scalinata, stringendola man mano che si sale in alto. Ricorda un poco quella della Reggia di Caserta, che vista da lontano sembra enorme ma poi a salirci ha i gradini bassi bassi e finisce subito. Poi finalmente la stanza del poeta.

Ci sono mobili dell’epoca, il letto con le tavole, la scrivania. Dalla finestra non si vede il Vesuvio. Ma il monte si sente in questo posto, è alle spalle, ma è come se fosse dappertutto. E doveva essere ancora più forte la sua presenza all’epoca perché era molto più attivo, di notte si vedevano le fiamme.

Poi da una scaletta corta che mentre salite sembra portare in cielo, andiamo sul tetto della casa: è una grande terrazza. da qui si vede bene che questa villa sta sulla linea esatta tra il Vesuvio e Capri, fuoco e acqua, dio Vulcano e Sirene di mare. Poi riscendiamo.

All’uscita il custode ci mostra una reliquia, qualcuno che il poeta lo ha conosciuto di persona: è il cipresso che sta qui a fianco alla villa. Vedete un cipresso particolare, sembra consumato dalla vita ma resiste, ormai è diventato amico del tempo.

Poi chiediamo al guardiano se c’è un’altra strada, pedonale, per tornare al treno e con grande gentilezza ci apre un grande cancello, dalla parte opposta dalla quale siamo entrati. Fuori c’è il basolato e le recinzioni delle altre campagne. Pini molto alti, larghi con il loro ombrello, fino a un vecchissimo cancello un poco sbilenco, usciamo e fuori c’è scritto Villa delle ginestre. Adesso sembra l’ingresso di servizio, era invece quello principale molto indietro nel tempo.

Continuiamo a scendere, seguendo le indicazioni ricevute dal custode: è una strada strana, corre tra due muretti neri, ci passa solo una fila di macchine, allora chi ci arriva per primo, suona il clacson per prendersi lo spazio e fermare chi viene dal lato opposto. Si torna tra le case moderne, poi per riprendere il treno c’è un’altra stazione, questa ha proprio un nome poetico, si chiama Leopardi.

Ma se è vero quello che dice il Ranieri: “nessun uomo al mondo ha tanto odiato la campagna quanto Leopardi la odiava, dopo averla tanto inimitabilmente cantata. …Napoli l’attraeva come la stella attrae il pianeta” (2) (pare di sentire Woody Allen che fuori da New York, anzi Manhattan, non riesce a campare), non ci meraviglia sapere che appena può, appena l’epidemia di colera sembra essersi calmata, chiede di tornare a Napoli. E allora torniamo pure noi nella Capitale.

Una delle volte che eravamo andati a bussare alla casa di vico Pero per prendere notizie, ispirazione, o vedere se ci facevano entrare, dopo eravamo andati pure al bar di cui già vi abbiamo parlato, si chiama bar Puoti, mo v’o ddicimme, chè non è un segreto.

Mentre prendiamo un caffè facciamo come al solito due chiacchiere col proprietario e come sempre esce in mezzo Leopardi. Il signor Puoti però stavolta ci fa: “lo sapete che il certificato di morte sta ancora nella chiesa qua dietro?”

Ah, e questa è una notizia che non avevamo ancora afferrato. Ci incuriosisce vedere un documento scritto quel giorno. Andiamo alla chiesa, parliamo col parroco, poi chiediamo i permessi necessari, e finalmente una mattina torniamo per vedere.

Il diacono ci sta aspettando, ha già preso dall’armadio il registro con su scritto “1837” e lo ha poggiato sul tavolo. È un librone rilegato in pelle, chiuso con lo spago, e scritto credo con la penna d’oca. Sulla sinistra una freccia tracciata a matita indica l’ospite illustre di cui in mille avranno chiesto. Sono tre righe esatte, in un italiano di un’altra epoca, separate da altre registrazioni fatte lo stesso giorno, 14 giugno 1837, soltanto da due linee orizzontali: andate a vedere tra le immagini, lo abbiamo fotografato.

Come sapete anche la tomba del poeta si trova nella nostra città, vicino a quella di un altro poeta, molto più antico e pure lui nato più a nord del nostro golfo, Virgilio.

Intorno alla sepoltura anche c’è parecchio mistero: Ranieri sostiene di essere riuscito, dietro molte insistenze, e l’intervento del ministro Delcarretto, a farlo seppellire nella chiesa di San Vitale, a Fuorigrotta. Altri sostengono che il corpo sia invece finito, a causa del colera che imperversava in città in quei giorni, nelle fosse comuni, nel rione Sanità, altri raccontano ancora altre storie.

Oggi comunque al poeta sorge un grande monumento, in un parco tranquillo, recintato di alloro. C’è anche la lapide che prima si trovava presso la chiesa di San Vitale, con la civetta simbolo di saggezza, e il serpente in circolo che ricorda il ritorno delle cose del mondo. Alla base del monumento ci sono dei fiori. Anche in questo posto di Leopardi c’è pochissima gente ma non è abbandonato.

Il parco continua verso la tomba del poeta latino. C’è l’altro ingresso della Crypta Neapolitana, la prima galleria che metteva in comunicazione Napoli con la zona di Agnano. Appena fuori c’è una iscrizione con versi di Leopardi che parla di Virgilio. Poi si sale una scaletta di tufo, e c’è un piccolo edificio a forma di cono. Subito fuori ci sono le iscrizioni antiche che dicono che qui si conservano le spoglie del poeta mantovano. All’interno c’è un braciere a tre piedi di ferro: ha dentro un ramo di alloro, quello dei poeti, che cresce qui attorno, e nel piatto stamattina ci sono tanti biglietti colorati, qualcuno ha scritto pure su quello del pullman: dediche a Virgilio ma pure a Leopardi. Il tempo mischia le carte per quelli che dentro la memoria delle persone conservano uno spazio. Sono dediche interessanti, commenti seri e battute di spirito, ce ne sta pure una in una lingua orientale fatta di ideogrammi: l’unica cosa che capisco è Virgile, la parola finale.

Siamo arrivati alla fine di questo nostro viaggio e vorremmo darvi un consiglio: se una domenica non tenete idea di dove passeggiare noi vi suggeriamo l’idea di partire da sopra al Museo Nazionale, di andare poi lungo via Toledo, verso i Quartieri Spagnoli, andare insomma da una casa all’altra a trovare il poeta, pure se non potete salire ché lui sta dormendo e Paolina, la sorella di Ranieri che lo accudisce, non vi farà entrare.

Se poi girate per Spaccanapoli, in via Domenico Capitelli 14, all’angolo con via Cisterna dell’Olio, c’era la bottega di Starita, l’editore napoletano dei “Canti”. Leopardi lo chiama “pidocchioso libraio, il quale… sicuro dello spaccio, ha dato la più infame edizione che ha potuto, di carta, di caratteri e di ogni cosa”. E quando uno non fa un lavoro fatto bene si sa prima o poi è destinato a chiudere. Oggi al posto del libraio trovate un negozio in cui potete entrare per farvi un bel panino: al posto della carta per libri trovate la carta per avvolgere la mozzarella.

Poi verso piazza Carità vi potete rinfrescare mettendo uno sopra all’altro 3 o 4 gelati, però non dite che è un’idea vostra perché l’ha inventata il conte nella Bottega del Caffè di Vito Pinto. Scendendo ancora vi potete fermare all’angolo di via Toledo di fronte a via San Giacomo, qua ci stava il Caffè Trinacria dove Leopardi sembra che chiedesse quasi più zucchero che caffè dentro una tazzina.

Insomma ve ne andate a spasso pensando ad un poeta che amava andare in giro per queste stesse strade.

Poi potreste andare dentro la Biblioteca Nazionale, dentro Palazzo Reale: dice che mo è diventato un posto di moda, però voi magari andateci soltanto per vedere le sale bellissime, in silenzio, e farvi prestare un libro del conte Giacomo. La maggior parte delle opere originali, scritte di persona da lui, e moltissime sue lettere, sono conservate dentro queste sale. Poi potreste passare per Santa Lucia, salire al Pallonetto, perché Leopardi amava mischiarsi con la gente. Dopo potreste scendere a vedere il mare lungo via Caracciolo e andare a cercare la tomba sopra piazza Sannazaro. Visto che vi trovate andate a trovare pure Virgilio, dalla sua tomba si vede il mare e il castello sull’isolotto di Megaride. Il finale migliore, quello che secondo noi avrebbe fatto il poeta stesso, che amava mangiare, è una delle pizzerie della zona, brindando alla vita eterna della poesia bella.

Mo però aspettate un momento, vi devo raccontare un fatto curioso, nun ce pozzo fa niente:

Una delle volte che ero andato al bar Puoti, vicino all’ultima casa di Leopardi, non c’era il signore solito dietro al bancone, c’era invece una ragazza giovane: aveva un’espressione molto dolce e portava un cappello di lana che dava l’impressione di una forma antica. Per un attimo resto molto sorpreso: gli occhi azzurri con lo stesso taglio, il naso, pure la forma della bocca; non lo so, in qualche modo, ma sarò io di sicuro che mi so’ fissato, mi pare, di viso, identica al conte.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

Riferimenti:

1 Francesco De Sanctis: “La giovinezza”, Guida Editori

2 Antonio Ranieri: “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”, Arturo Berisio editore 1965

3 Palazzi di Napoli www.palazzidinapoli.it