INCONTRI – A Felitto da Rosi Di Stasi, una signora dalle mille iniziative per recuperare il territorio

22 dicembre 2018

Sono quasi a Felitto, in Cilento. Sono un po’ in ritardo e sto facendo tre cose che in genere cerco di non fare: andare veloce, in macchina, senza guardare. Poi un cartello prima di un passaggio stretto: ponte medievale. Ha i muretti arrotondati e ci passo sopra, almeno così credo. Non ho tempo di fermarmi e vado oltre. Pochi minuti e sono a destinazione. Ci siamo dati appuntamento, con Rosi Di Stasi, a via Roma, la via centrale di quasi ogni paese, una vecchia cosa da cambiare. Ci ha messo in contatto Simona Ridolfi,  l’ideatrice della “Via Silente”, un bellissimo percorso cicloturistico che fa il giro del Cilento interno, con qualche puntata sul mare. È la rete vera, quella delle persone.

Parcheggio e le telefono per gli ultimi metri. Le dico che sto davanti ad un ferramenta, le dico il nome che leggo sull’insegna ma non lo conosce. Poi, quando ci incontriamo, scopre che è quello di suo nipote: il nome, per quelli del paese, non c’è bisogno di essere letto.

Ha occhi azzurri e un viso aperto. I capelli cortissimi, appena grigi, forti. Ci presentiamo e saliamo in macchina perché mi vuole portare subito a vedere una cosa del paese.

Pochi minuti e siamo in uno spiazzo verde, alla gole del fiume Calore. C’è un piccolo lago artificiale: era della centrale idroelettrica comunale. L’hanno aperta a inizio ‘900, dava energia elettrica a più di quaranta comuni. La centrale è stata chiusa negli anni ’70 ma resta uno specchio d’acqua di un colore verde, e una diga bassa bassa di un cemento antico e un edifico che magari se ne potrebbe fare un museo mi dice Rosi. Poi mi porta su per un sentiero agevole, e nel frattempo mi inizia a raccontare.

In Germania

Ha vissuto in Germania per quarantatre anni, col marito. Mi sono sposata e sono partita, avevo diciannove anni.

Quando sono arrivata lì credevo di trovare ricchezza e invece ho trovato povertà. Quelli che dall’estero tornavano nelle feste al paese scendevano con macchine grandi e nel frattempo avevano magari messo su meglio la casa qui a Felitto. Poi andavi lì e vedevi che vivevano in baracche. Il lavoro c’era, però la realtà era dura, molto diversa da quella che raccontavano. Sembra di sentire certi racconti letti sui libri di Alessandro Leogrande: dei polacchi, ucraini, che vengono d’estate in Italia a raccogliere pomodori, trovano a volte caporali che li sfruttano in modo disumano ma loro non raccontano molto queste cose e non tornano a casa fino a quando non hanno racimolato un po’ di soldi: tornare senza sarebbe troppo un disonore.

Mio marito lavorava in una fabbrica di tessuti. Anche io avrei voluto lavorare lì ma lui all’inizio mi convinse a stare a casa e dare una mano a sua sorella con i suoi bambini. Ma a me mancava mia sorella piccola, l’ultima di otto fratelli, se dovevo accudire qualcuno volevo accudire lei, in Germania non c’ero venuta per questo. In Germania ogni giorno piangevo. Poi una mattina sono andata a cercarmi un lavoro, così, da sola. Mi hanno detto: “da domani se vuoi puoi iniziare”.

Rosi ha fatto mille lavori: ogni volta, nei suoi racconti, inizia a svolgere una mansione in un luogo di lavoro, poi si rendono conto del suo valore, ma forse non è neanche solo quello, il termine giusto credo che sia entusiasmo e apertura e voglia di fare, rispetto per se stessa e per gli altri, avere sempre una buona parola. Ecco è la disposizione buona verso il mondo, mi pare d’intuire, che le ha aperto mille porte.

Lavoravo alla fabbrica di elastici. Inizialmente facevo lavori semplici, pulivo le macchine, poi piano piano sono arrivata fino al livello in cui potevo svolgere qualunque mansione. E mi dice la parola in quella lingua con il suono forte.

Poi la fabbrica di mio marito chiuse.

Ma lei non si perde d’animo, cambia lavoro. Inizia a fare le pulizie in una casa per anziani comunale. Dopo un poco i medici, e quelli del personale, le chiedono di fare un corso per diventare infermiera professionale. Lei fa il primo anno, ma poi con due figli, un marito e tante ore di lavoro al giorno, non se la sente più di studiare. Ma quelli insistono. C‘era un medico che mi disse: lo devi fare, hai le capacità, se avrai difficoltà a curare gli anziani mi puoi chiamare a qualunque orario e ti darò tutto il mio aiuto.

Allora piano piano mi convinsi e continuai. Io quando stavo in Germania mi dicevo: “dobbiamo prendere il più possibile”, ma non nel senso di portare via, nel senso di cogliere tutte le opportunità che quel luogo ci offriva. Mio marito anche pensava sempre di voler tornare. Lui però era un po’ diverso da me, lui non si è immerso completamente nell’ambiente, si è mantenuto sempre un po’ distante. Poi dice una cosa pesante: lui lì ha vegetato, non ha vissuto.

Il coinvolgimento nelle istituzioni

Lei ha avuto incarichi anche nel consiglio comunale e nel consolato italiano era rappresentante dei genitori. Ogni anno si organizzavano viaggi di formazione per noi del consiglio comunale. Viaggi in cui si andava a visitare qualche cosa di interessante, non so, una centrale dove producevano elettricità dal biogas o cose del genere, perché così potevamo prendere ispirazione e magari riprodurle da noi. Ecco, mio marito non è mai voluto venire anche se il coniuge era sempre previsto e gli altri mariti venivano spesso. Lui pensava molto a tornare in Italia.

Poi si è ammalato e allora mi ha chiesto di tornare al paese. E così siamo tornati.

Mi indica delle piante sulla roccia: li vedi questi, sono gerani, normalmente crescono a quote molto più elevate ma in questo posto c’è un microclima particolare che gli consente di durare.

Poi saliamo su un ponticello di ferro stretto stretto, fa quasi impressione, siamo in alto esattamente sopra il fiume Calore. L’acqua pulita si capisce da lontano. Le lontre qui ci sono ancora, anche qualche giorno fa le hanno riviste.

Poi continua.

Adesso che sono qui, di nuovo a Felitto, e mio marito non c’è più, ho pensato di mettere su un’associazione, sai perché? Se riuscissimo a fare in modo che uno solo, almeno uno, dei nostri giovani, non debba andare via da qui, non dico che non debba viaggiare o andare a vivere fuori per un periodo, ma che non debba andare all’estero per forza, allora sarei soddisfatta. È questo il nucleo, l’idea di fondo, quella che anima molti dei gesti di Rosanna oggi.

Si chiama come il marito l’associazione di Rosi: “Pasquale Oristanio”.

Poi mi invita a casa, a pranzo, e conosco Donato, un artista, pittore, il suo compagno adesso. Al piano di sotto è pieno dei suoi quadri. Me li mostra Rosi mentre Donato cucina oggi. Credo sia uno dei pochi casi al mondo, ora che ci penso, di un artista che riesce a stare, mentre qualcuno mostra i suoi lavori, in un altro posto.

I fusilli fatti a mano, la pasta tipica di queste parti, una bella tavola, e un altro milione di idee che quasi non riusciamo a mangiare perché con la bocca piena non si dovrebbe parlare.

Nell’insalata i pomodori sono di due colori: quelli rossi piccoli, comuni, sono pochi, la maggioranza sono quasi arancioni: sono i vernili questi Francè, mi dice Donato. E io gli chiedo che vuol dire. Sono pomodori che si mangiano d’inverno qui dalle nostra parti. Si raccolgono insieme agli altri alla fine dell’estate ma non diventano mai rossi. Li mettiamo appesi a grappoli e poi d’inverno sono come freschi.

Pure questo origano dentro l’insalata ha un sapore speciale.

Poi usciamo di nuovo ché mi vogliono far vedere un altro posto a cui tengono, è il loro progetto attuale. Avete presente quando al centro dei paesi antichi vedete, nella piazza principale, a fianco alla chiesa, il palazzo nobiliare? Ecco, a Felitto quel palazzo è stato per anni abbandonato, in cerca di un compratore. Cercavano qualcuno, mi dice Rosi, che lo volesse acquistare. Ma io ho pensato che non sarebbe stato bello se lo avesse comprato qualche forestiero. Che quel palazzo doveva rimanere di qualcuno del paese e così volevano anche i proprietari. Lo dissi pure al sindaco. Allora ad un certo punto, ho pensato di comprarlo io.

Ha una energia solare Rosanna. Si muove veloce, ha la sua idea nella testa però quando parli ti ascolta. Poi pensa un secondo. Poi ricollega il pensiero suo alla frase che gli hai detto e continua dritto.

Nel bar del paese

Ma non perdiamo tempo che abbiamo fretta. Rosi ha appuntamento alla casa al centro con un amico che viene a tagliare una pianta che crescendo sta rompendo il tetto. E, ma il caffè dopo tutto sto pranzo ci serve e allora io e Donato andiamo al bar a prenderlo per tutti.

Ci sono cinque o sei persone dentro o subito fuori, e Donato fa almeno dieci saluti. Tutti per nome, tutti non distratti. Con ognuno si ferma a parlare.

Dietro al bancone c’è una ragazza giovane: ha addosso la giacca di piumino perché oggi fa freddo, pure qui dentro. Ci pigliamo il caffè. Poi quando usciamo c’è un signore anziano, piccolo, con una faccia simpatica sotto il cappello rosso. Donato gli chiede delle capre.

Qualche giorno fa lo aveva incontrato tutto preoccupato perché non riusciva più a trovare quattro delle sue capre. Sì, le ho trovate. Due erano morte, se le sono mangiate i lupi. Due ancora non riuscivo a trovarle, poi le ho viste giù a un dirupo (la parola che lui dice è diversa, anzi tutte le parole di questa frase erano in dialetto, facevano una bella musica che purtroppo io non so suonare) e mi so’ calato con la corda che tenevo per andarle a prendere. Questo signore ha più di ottant’anni. I cilentani sono longevi e le capre non fanno perdere l’allenamento muscolare.

La casa delle cento stanze

Arriviamo alla casa nobiliare. L’ingresso è già molto bello. Un arco in tre pezzi, due pietre arcuate e al centro la pietra angolare. Sopra c’è lo stemma, più bello che se fosse nuovo: il tempo ha una mano da artista, spesso quello che accarezza a lungo diventa più bello.

A fianco alla casa c’è la chiesa principale. Ha un cortile con archi ornati con motivi che hanno qualcosa di orientale.

Entriamo e c’è un mondo antico in frantumi. Nelle foto trovate qualcosa di quello che c’è dentro. I parati nascondono muri dove il disegno era dipinto a mano. Le travi di legno dei solai. Un pavimento ha un enorme buco al centro. In altre stanze ci sono fogli, forse documenti. In una stanza c’è il resto dei medicinali di questa che era la casa del farmacista del paese. Questo lo chiamavano il Palazzo delle cento stanze, Francè.

Poi un cortile, e vani enormi, bui, al piano delle cantine. Poi, oltre il cortile, uno spazio separato con due forni. Ma non è tanto importante la casa, ma l’idea che Rosi mi aveva detto all’inizio, fare qualcosa per far rinascere questo borgo: se solo riusciamo ad evitare ad un giovane di dover per forza cercare intorno. E questa casa potrebbe essere il luogo dove di queste iniziative se ne potrebbero ospitare tante.

Rosi è membro del consiglio di Slow Food, anche del Touring Club Italiano. È stata a Torino a Terra Madre lo scorso settembre, la mostra sul cibo e le buone pratiche che si tiene ogni due anni: abbiamo fatto un corso per trenta persone su come si fanno i fusilli felittesi. C’erano cinesi, giapponesi, thailandesi, americani. E ognuno aveva la spianatoia ed il ferro per fare la pasta con le sue mani. E si impegnavano molto.

Rosi con la sua associazione dal 2012 ogni anno assegna il premio “Pasquale Oristanio” a belle realtà locali. Da quando è tornata definitivamente in Italia poi ha organizzato eventi che coinvolgono il territorio: come le passeggiate botaniche con un’altra cilentana d’eccezione (Dionisia De Santis), presentazioni di libri in collaborazione col Touring, attività con il Mercato della Terra del Cilento e tante altre.

Oggi 22 dicembre riapre finalmente il Palazzo delle cento stanze con una mostra nell’atrio dei quadri di Donato: fino al 6 gennaio potete vedere anche i quadri in cui ha ripreso i disegni che ha trovato in una grotta di un eremita del 1200 lungo il fiume Calore.

Rosi ha l’energia di un vulcano calmo, secondo me può averla solo chi ha radici forti in un terreno sano. Poi credo che abbia la visione che le cose lavorando sodo, senza troppe parole, si possono cambiare in meglio, di chi per molto tempo è stato fuori.

Tornando verso casa sono ripassato sul ponte medievale, però dopo che Rosi e Donato mi avevano detto che il vero ponte antico non è quello in alto, dove si passa, ma che fermandosi e scendendo dall’auto lo si vede in basso non molto lontano, ho seguito il loro consiglio e l’ho fotografato.

Muoversi in fretta, in macchina, senza chiedere alle persone del posto, mi hanno confermato che non è viaggiare.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

INCONTRI – Il profeta della Decrescita Felice, Serge Latouche a Napoli: “Decolonizziamo l’immaginario per ripensare a una vita con valori umani”

27 maggio 2017

Serge Latouche era mercoledì scorso all’Università di Napoli Federico II. L’Università compie, il prossimo 5 giugno, 723 anni ed il convegno è su pensieri nuovi, segno che non è morta, né si è ingessata troppo.

Alle 8.45 siamo all’Università, siamo venuti a piedi. Ci sembrava brutto, totalmente stonato, venire ad ascoltare parole su un nuovo modo, sulla “Decrescita felice”, così la chiamano, bruciando petrolio. In effetti lungo il cammino era passato un pullman, lo avevamo preso, poi dopo pochi metri ci eravamo resi conto che era molto lento per il traffico intenso, dentro ci faceva pure caldo, fuori si camminava bene, si stava al fresco, e siamo riscesi. Fermate… l’autobus voglio scendere, vado meglio a piedi.

Arrivati a Monte S. Angelo chiediamo ai custodi dove sia l’Aula G5, quella del convegno.

Entriamo e ci sono già alcuni studenti. Sembra il pubblico di una qualunque lezione. Poi spunta piano piano qualche viso più avanti negli anni. Mentre gli addetti discutono sul proiettore: non si cambiano i filtri della sua ventilazione (metti che hanno 723 anni?) e quindi tende a surriscaldarsi, va in protezione e si spegne. “Spegniamolo adesso, poi lo accendiamo quando serve, così magari facciamo in tempo”.

L’aula piano piano si riempie, ma non completamente (“Aula G5 188 posti” dice il cartello fuori, allora adesso ci saranno circa cento persone).

Poco prima delle 9.10 entra un signore col bastone, la barba e il cappello. Si chiama Serge Latouche, è un professore francese, un economista. E’ tra i fondatori di una nuova teoria ormai dall’inizio degli anni 2000. E’ nuova forse solo perché se ne sente poco parlare e sono ancora in pochi i coraggiosi che provano ad applicarla.

La professoressa che introduce esordisce: “oggi ci siamo subito adattati all’argomento della conferenza e l’aria condizionata non funziona, è perfetto per oggi che si parla di non inquinare” (pur’ ‘o condizionatore è del 1224?).

Poi il professore inizia:

All’inizio della mia carriera ero un economista puro e duro, sono andato come un “missionario” a predicare l’economia in Africa negli anni ’60; poi sono diventato un “pagano”, ho smesso di credere nel progresso, nell’economia, nella crescita e sono diventato un profeta della Decrescita”.

Ma insomma cosa dice questa sua teoria, e di molti altri pensatori che lo hanno preceduto e seguito? Dice: signori la favola dell’economia che il prodotto interno lordo deve e può sempre crescere purtroppo non è vera, è come credere a Babbo Natale. Come potrebbe crescere all’infinito un’economia su un pianeta che invece è finito, limitato? Per crescere all’infinito occorrerebbero risorse infinite: energia, lavoro, materie prime; occorrerebbe anche una domanda infinita di beni, e per completare il quadro pure un posto infinito dove buttare i rifiuti di questo gigante che non vuole diventare mai adulto.

Bene: ogni sera al telegiornale ci raccontano quanto è aumentato il prodotto interno lordo. Il cronista è quasi sempre preoccupato perché la cifra è bassa, e scopriamo stamattina invece che dovrebbe essere contento. Il suo problema è che non vuole smettere di credere a Babbo Natale.

Però il professore ce lo spiega perché il cronista è triste: “siamo una società della crescita dove però non c’è crescita; ridotta all’austerità”, ecco tutto, ecco perché ci conviene cambiare.

La gente nell’aula continua ad arrivare. Ma si, meglio… in ritardo che mai.

Arrivano anche due signore e si siedono qui a fianco. Una inizia subito con un foglio di carta a soffiarsi, venendo da fuori fa caldo.

La crescita è uscita dai pozzi di petrolio e finirà con loro”, nel frattempo cita il professore. “Anzi forse è già finita probabilmente negli anni ’70, ma poi grazie alla magia, qualcuno che si chiama Alan Greenspan (ex presidente della Federal Reserve, la banca centrale americana) ha fatto sopravvivere il mito della crescita, con il consenso di tutti, e si è inventato il modo di tenerla in vita per trent’anni: con la speculazione finanziaria ed immobiliare”, una specie di flebo su un malato terminale.

Oggi non c’è più neanche quella, siamo ad una crescita che è di circa lo 0,4-0,5 per cento. Peccato che il margine di errore delle statistiche sia dello stesso ordine: è come dire che si, state tranquilli, l’organismo sta crescendo di 4-5 centimetri all’anno, bene, bene, solo che la crescita la misuriamo con un metro che può sbagliare di circa 4-5 centimetri all’anno. Non si può misurare Babbo Natale.

Lo slogan in questi anni” dice il professore era: “vincente, vincente, vincente”, quello del modello in atto. Cioè secondo alcuni vincevano gli operai, lo Stato e anche gli industriali. Sfortunatamente ci eravamo scordati che ci sono un quarto e un quinto soggetto, si chiamano Terzo mondo e Natura e loro stavano e stanno perdendo.

Sembra che nella storia ci siano state finora cinque scomparse delle specie, la prima fu quella nella quale scomparvero i brontosauri; oggi siamo alla sesta dice il professore: “la differenza rispetto alle altre è che ha alta velocità, che è causata dall’uomo e che l’uomo stesso potrebbe essere a sparire”.

Sono le 9.42 e l’aula è finalmente piena. La signora a fianco si sta ancora soffiando, non era il caldo di fuori, è che sta proprio agitata: un poco guarda i social sul suo cellulare, un poco chiacchiera con l’amica. Ma non è colpa sua: ci ricorda questa società, presa sempre da mille pensieri, un poco ascolta ma poi si distrae, in un mondo che si sta riscaldando.

Ma da dove viene la parola Decrescita?: “è una parola che non ho mai usato fino al 2002, anche se avevo già scritto un sacco di libri su questi argomenti. Poi è venuto questo nuovo termine come uno slogan per contrastare un altro slogan, fantastico e mistificatore, che è quello di “sviluppo sostenibile” che aveva inventato negli anni ’80 una gang di tre criminali in colletto bianco”, cito testuale, “il principale è Stefan Schmidheiny (ndr: erede proprietario delle aziende Eternit, condannato nel 2012 a 18 anni per disastro ambientale dovuto all’amianto nelle sue aziende italiane, tra le quali quella di Bagnoli, dalla Corte d’Appello di Torino, poi prosciolto nel 2014 dalla Corte di Cassazione per intervenuta prescrizione del reato), Maurice Strong (ndr: petroliere canadese) ed Henry Kissinger”.

A Stoccolma nel ’72, alla prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, era stato creato il neologismo “ecosviluppo”, ma non gli piaceva, non tirava abbastanza: quelle tre lettere iniziali spaventavano troppo la lobby degli industriali americani, soprattutto da quando avevano visto che invece piaceva ai Paesi del sud del mondo perché richiamava l’idea di un nuovo ordine mondiale.

Un’altra cosa “bella” ci racconta questo signore, è quella che diceva la signora Tatcher, la lady di ferro del governo britannico, che citava sempre una certa TINA: “There Is No Alternative”, che tradotto è: “nun ce sta n’ata via”. Cioè, spiegateci, non c’è alternativa a credere all’omone con la barba bianca ed il vestito rosso?

Da società con un’economia di mercato siamo diventati una società di mercato (in pratica dice il professore si rischia che tra poco ve putit’ accattà e venner’ qualunque cosa, pure ‘e figli, ‘a mamma, ‘a suocera).

E invece, allora, cosa dovremmo fare? Se vogliamo credere che non esiste Babbo Natale?

L’abbondanza frugale, il circolo virtuoso delle 8 R: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare…” hanno sviluppato in questi ultimi anni: ripensare il mondo, la vita, recuperare i valori che ci rendono umani, la condivisione, mettere al centro i valori importanti, non i beni materiali. Recuperare, riparare le cose, non buttarle e pace. Ridurre l’orario di lavoro: la società della decrescita non è fondata, come dice la costituzione italiana, sul lavoro.

Il professore:“un lavoro di merda porta ad una vita di merda” e scatta l’ovazione. E ci sono due forze che ci spingono oggi nella direzione giusta: il desiderio di un mondo migliore (solo che non abbiamo tanta forza per uscire dalla tossicodipendenza, quella che ci fa fare le file alle quattro di mattina davanti al negozio per essere sicuri di avere l’ultimo smartphone) e quello che lui chiama “il calcio in culo”: la minaccia della sesta scomparsa delle specie.

Poi finisce il suo intervento e c’è qualche domanda che gli consente di specificare che lo Stato sta diventando uno strumento di oppressione: dà sempre più spazio alla privatizzazione mentre dovrebbe mantenere ampi spazi di bene comune. Aria, acqua, anche il denaro, vanno trattati da bene comune. Che la società va descolarizzata come dice Ivan Illich, perché la tecnoscienza ha assunto un ruolo che va oltre la ragione.

Riesce a citare pure Gandhi, che sembra avesse detto: “c’è voluto un pianeta intero per lo sviluppo industriale dell’Inghilterra, adesso dove troveremo i dieci pianeti che servono per lo sviluppo dell’India?”. Quel vecchietto coi sandali e senza denti vedeva chiarissimo e lo diceva pure.

Poi il professore dice la cosa più saggia: ”adesso ho raggiunto i miei limiti, sono un poco stanco”. Il concetto di limite, quello centrale in questa nuova teoria, quello che avevamo citato all’inizio di queste righe. Dopo che ci hanno spinto a competere sempre, ad andare oltre ogni possibile confine, il professore dice: per oggi ho raggiunto il mio limite, se volete possiamo parlarne in un altro momento.

E’ un bellissimo esempio, perché la società della decrescita si fa passo per passo, e soprattutto come dice lui “decolonizzando l’immaginario”. E i giornali in questo hanno una grande importanza: bisogna costruire una bella controinformazione.

Vi abbiamo dato degli spunti ma l’argomento è vasto, se volete approfondire il professore ha scritto mille libri e ne continua a scrivere. Noi vi consigliamo di leggerlo, parla di tutti noi dentro un futuro bello e soprattutto vero.

Un buon libro per approfondire: “Breve trattato sulla Decrescita serena”, S. Latouche

Poi c’è il giornale a cui lui collabora, ne aveva una copia sulla cattedra in aula, a fianco all’orologio da tasca. Eccovi il link, si chiama La Decroissance, il giornale della gioia di vivere.

Testo e foto Francesco Paolo Busco

INCONTRI – Le foto di Letizia Battaglia al PAN: “Per me vivere e fotografare sono la stessa cosa”

20 settembre 2016

“Quando ho iniziato la mia carriera di fotografa il gesto che più ricordo era che mi spingevano. Polizia e Carabinieri quando a Palermo arrivavo sul luogo in cui era avvenuto qualche fatto di cronaca nera; forse perché donna e giovane, evidentemente non ero credibile, avranno pensato: ma questa che viene a fare qua, a giocare? E mi spingevano via”.

Poi evidentemente hanno smesso di spingerla, perché le sue sono tra le foto più “forti” e significative della Palermo degli anni ’70-’80.

È l’incontro con Letizia Battaglia, cui ha preso parte anche l’Assessore alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, Nino Daniele, che si è svolto ieri presso il Palazzo delle Arti di Napoli – PAN.

Letizia Battaglia è a Napoli nell’ambito della seconda edizione di “Imbavagliati”, Festival di giornalismo civile (PAN, dal 18 al 24 settembre), che ospita una sua personale  fotografica curata dal fotoreporter Stefano Renna con la collaborazione di Giulia Mariani.

“Ho cominciato a fotografare perché quando mi presentavo nelle sedi dei giornali, avevo iniziato a scrivere articoli e li andavo a proporre, mi chiedevano: E le foto le hai?. Così ho cominciato con una macchinetta che mi ero procurata. La Leica “che non avrei altrimenti potuto permettermi, l’ho ricevuta in premio in Germania quando mi hanno attribuito l’ “Erich Salomon Preis” (nel 2007, premio vinto prima di lei, tra gli altri, da Sebastiao Salgado, Donald McCullin, Renè Burri ndr). Una Leica digitale; è così che ho iniziato a fotografare in digitale”.

Quella che si vede qui è una donna semplice, schietta. Porta al collo anche incontrando Napoli una reflex digitale piccola con un obiettivo molto compatto: “Per me vivere è fotografare sono la stessa cosa, io vivo come fotografo e fotografo come vivo, in maniera magari un po’ disordinata”.

Ad un certo punto dal fondo della sala gremita si vede affacciarsi una figura dai capelli e barba bianchi, occhiali. Resta lì qualche minuto perché non c’è più posto. Poi dal tavolo dei relatori lo riconoscono, è Mimmo Jodice, e lo invitano a sedersi in prima fila: un altro pezzo fondamentale di fotografia “civile” del sud Italia è in sala.

Un incontro tra visioni acute.

“Occorre spogliarsi di ogni supponenza, occorre essere semplici per fotografare” racconta ancora la Battaglia, che agli aspiranti fotografi presenti in sala rivolge un avvertimento: “Sappiate che di fotografia di reportage non si diventa ricchi; poi in Italia occorrerebbe una modifica delle leggi: rendere più semplice fotografare, per esempio poter fotografare i bambini, oggi se lo fai ti chiedono un risarcimento economico pesante”.

Letizia Battaglia è nata a Palermo il 5 marzo 1935, ha vissuto anche a Milano, Parigi, Berlino, ma è tornata a Palermo. “Quando stavo a Palermo volevo partire, poi quando stavo fuori mi mancava Palermo”.

Va ancora in giro a fotografare la sua città meravigliandosi dei contrasti enormi: “Una volta passeggiavo verso piazza Marina e sentivo uscire dalla villa Garibaldi un bellissimo odore di piante, di non so che fiori, poi dall’altro lato mi arrivava contemporaneamente la puzza dei cumuli di immondizia. Ecco, Palermo forse è questi contrasti forti”.

Ha deciso di tornare e di restare a Palermo ma ogni tanto ha bisogno di partire: “Per prendermi quelle carezze che la mia città non mi dà. non so perché ma Palermo per me è così”.

Poi conclude: ”Non so se avete notato ma stasera una parola non l’ho mai pronunciata: mafia”.

Le sue foto sono lì, alle pareti del PAN. Foto in bianco e nero, di palermitani, da vedere: lasciano poco scampo.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

NAPOLI DAL MARE – Da Pozzuoli a Largo Sermoneta lungo la linea di costa

8 giugno 2017

Napoli dal mare? E allora andiamo a vedere, stamattina, in un piccolo gommone, la costa da Pozzuoli fino alla capitale.

Ci porta un amico che è nato a Posillipo, il padre faceva il pescatore, aveva una barca di dodici metri e un chiosco a Mergellina: una vita inzuppata nell’acqua salata.

Da ragazzo gli dava una mano, nel pomeriggio, a calare la rete, di notte poi il padre andava col socio pescatore a tirarla su: sua madre invece a lui a fare quello a quell’ora non lo ha mai autorizzato. Adesso lavora nelle telecomunicazioni, dentro lo stabilimento panoramico per operai creato da quel genio di umanità che era Adriano Olivetti.

Stamattina abbiamo appuntamento alle dieci, vicino all’arco della porta di Pozzuoli sotto il ponte che va al Rione Terra. Parto presto come tutte le volte che mi sta a cuore e che qualcun altro è coinvolto. Pure la Cumana ha dato una mano, l’ho dovuta rincorrere dentro la stazione che stava addirittura per partire. Dentro c’è un sacco di gente direzione sole. Si vede dalle scarpe, dai vestiti corti con un sacco di spacchi e dalle borse delle donne un poco troppo gonfie per passeggiare. Scendo a Gerolomini e vedo le terme di Pozzuoli dall’ingresso laterale.

Passeggio con calma verso la porta antica. Mi faccio un giro a visitare la chiesa di Gesù e Maria; fuori c’è un signore anziano. Mentre gironzolo mi comincia a parlare e mi spiega un sacco di cose. Quando stiamo per uscire faccio per dargli qualche moneta ma lui resta sorpreso, non gli devo nulla: uno che fa le cose per gli altri solo perché gli piace.

Ma iniziamo la navigazione.

Il gommone sta dentro un piccolissimo porto, vicino al rudere mai finito di cemento che sorge dove alla fine del ‘600 era sorto un convento dei frati Cappuccini, poi uno dei ristoranti più famosi di Pozzuoli: “Vicienzo a mare”. Col bradisismo fu abbandonato e ne fu autorizzata dal Comune la ricostruzione come centro polifunzionale, ma il Demanio Marittimo lo dichiarò illegale. Oggi sta lì in posizione privilegiata ad impreziosire il paesaggio.

Il motore è perfetto, parte al secondo colpo.

Uscendo da questo piccolo anfratto già si vede la gente sugli scogli. Identica ai gabbiani, sta lì a prendersi il sole e l’aria, non tanto per fare il bagno, almeno per ora.

Prua verso est, direzione Napoli. La costa per adesso è quasi tutta di accumuli artificiali: pietre grosse che si ammassano vicine facendo finta di essere uno scoglio. Sopra ogni tanto c’è un puntino umano, anzi due o tre puntini messi uno a fianco all’altro. Dalla strada non si vedono, io non li ho mai visti, eppure ci sono, lungo tutto questo litorale, puntati verso il cielo, tra la terra e l’acqua per raccogliere un poco di energia solare.

Poi c’è il pontile lungo un chilometro, quello di Bagnoli. Ci passiamo sotto. A vederlo da vicino sembra di avvicinarsi sotto la murata di una nave dei pirati, un uncino pende appeso a una catena, come la mano del capitano cattivo. Un altro pontile subito dopo. Alla punta c’è un uomo. Allargando lo sguardo la linea prospettica è una: parte dall’interno, ci sta la fabbrica con le ciminiere, una, due, tutte su una linea, spuntano dal verde e da muri screpolati, scavalca barriere diventando linea di binari sopra una fila obliqua di mille pilastri verticali e arriva fino a qua, fino a questo ragazzo, in piedi, sull’ultimo pezzo di balcone che regge in mano un’altra linea sottile da cui parte un filo trasparente che finisce in acqua. Tutto ‘sto casino, tutte ‘ste costruzioni complicate grigie costose inquinanti, per poi ritornare umili sottili trasparenti a mare.

Poco dopo c’è un terzo pontile, più basso, qui non si può passare sotto a meno che stamattina non c’avete un sommergibile. Ai lati si vedono ancora appesi i parabordi per far attraccare le navi, stanno messi in croce, sembrano enormi morbidi ideogrammi giapponesi. E anche qua c’è un puntino, con la maglietta rossa, con la canna antenna per captare qualcosa da sotto la superficie.

Poi spuntano sull’acqua i giovani dell’ILVA. Vogano su tre barche da canottaggio, si allenano. La fabbrica l’hanno chiusa e smantellata negli anni ’90 eccetto poche cose di archeologia industriale, il circolo invece è ancora vivo, e continua a remare. La prima barca a vela, oggi ne vedremo poche.

Ed ecco Nisida. Un pezzo deve essersi staccato un giorno, uno spicchio sottile e altissimo, lo chiamano lo Scoglio di Ponente ma potevano chiamarlo Faraglione.

Nisida è un vulcano con al centro l’acqua, un vulcano di mare. Dentro c’è la barca della Polizia Penitenziaria, oggi è il 2 giugno, non si entra neppure con le canoe, due li vediamo uscire quando passiamo.

Allora andiamo verso terra, per passare sotto il ponte che collega quest’isola a Bagnoli. Avvicinandoci ci vengono incontro quelli che in barca cominciano ad uscire. I pontili galleggianti che allestiscono qui d’estate sono già pieni, ed a quest’ora i motoscafisti girano la chiave, rotta su Procida, tutti sincronizzati. Se avete visto la tangenziale alle otto della mattina allora è come se ci foste stati.

Il mare per noi col gommoncino sembra quasi agitato, ogni tanto dobbiamo stare attenti a prendere bene le onde: oggi non c’è vento, le fanno i motoscafi.

A metà ponte si trova un arco basso. Per farlo non hanno usato blocchi sagomati a cuneo ma mattoni sottilissimi, magri e tantissimi in modo che nessuno di loro si accorgesse che stava curvando. Ci passiamo comodi e siamo oltre Nisida, prima di Trentaremi.

Un pescatore sta fermo nella barca più piccola del mondo. Sembra una di quelle che usano nei ristoranti come ornamento, per fare scena con dentro le reti e i gusci di conchiglie. Lui l’ha prelevata e l’ha messa in acqua, pure il motore è piccolo e sembra occupare metà dell’imbarcazione.

In alto si vedono i pini del parco Virgiliano, sotto una spiaggia con sopra le persone. Una galleria dal mare verso l’interno, scavata dentro la montagna gialla e col rivestimento in cemento, con l’impianto elettrico e una balaustra di ferro a chiudere. Chi sa al Virgiliano cosa ci sta sotto.

Siamo a Trentaremi, quasi alla Gaiola. Compare un gruppo folto di canoe. Sono pure in tanti ma non danno fastidio. Sono piccoli e si guadagnano onestamente, a braccia, ogni metro di panorama.

Navigano davanti a tante aperture nella roccia di tufo, alte, squadrate. Appartenevano alle strutture della villa Pausilypon. Quella costruita da un ricco romano e che era così bella che dopo la sua morte passò addirittura all’Imperatore.

Alla Gaiola un arco congiunge i due isolotti. È così sottile che sembra disegnato. Sotto ci entra esattamente la chiesa di Santa Maria del Faro.

Dopo un po’ dall’acqua sorge una casa vecchia, sembra una costruzione abusiva. No, un momento però, ha i muri romani. Altro che casa abusiva, è ancora un pezzo della villa dell’Imperatore. Lo chiamano Palazzo degli Spiriti.

In basso c’è una finestra murata. Dentro c’è un buco e mentre passiamo vediamo entrare dei ragazzi. Su questo palazzo ci sono varie leggende: alcune la legano alle arti stregonesche di Virgilio mago, altre a una zecca clandestina di falsari turchi che per tenere lontani i curiosi appendevano teli bianchi alle aperture come lenzuola di fantasmi.

Sullo Scoglione c’è la gente sulle sedie sdraio. E c’è pure una barca gialla, attraccata allo scoglio, che fa da ristorazione: “Chiosca Carolina” (il nome è una licenza poetica, tutto al femminile).

I lettini di alcuni stabilimenti famosi, sulla costa di tufo, sono così in pendenza che per dormirci bisogna aggrapparsi. Parecchi sono vuoti: qualcuno si sarà addormentato sul serio.

Ecco villa Rosebery, una delle tre residenze del Presidente della Repubblica Italiana. Ha l’attracco riservato dietro la scogliera e un uomo sta di guardia lungo il muro grigio. Sembra di risentire la storia antica dopo pochi metri: come quella di Pausilypon, anche questa villa, costruita da qualcun altro, finisce in mano al comandante in capo. Evidentemente lungo questa costa c’è così tanta bellezza che chiunque può ci viene ad abitare.

Passando oltre incrociamo una barca di quelle che si affittano a Santa Lucia, la riconosciamo dai colori e dal numero 1, si chiama “Miez’ juorno”. A bordo ci sono solo due persone, sembrano marito e moglie forestieri avventurosi in barchetta a percorrere tutto il golfo.

Per passare davanti a questa scogliera in sicurezza, dice la nostra guida, poiché se si sta all’interno dello scoglio di Pietra Salata il fondo è basso , bisogna rispettare una regola segreta: navigare tenendo allineati nella visuale quella cupola enorme laggiù e il grattacielo che spunta dietro: il Jolly Hotel e S. Francesco di Paola.

Si vedono ancora persone su ogni scogliera, piccola o lunga, sotto ogni palazzo. Sono frequentissimi e pochi, solo due o tre per volta, quelli che sotto casa hanno la discesa a mare personale: padre e mamma col neonato in braccio appena fuori da un cancello altissimo, una coppia di signore prende il sole alla fine di un pontile chiuso, un signore bello rotondo sta indeciso sopra una scaletta che finisce in acqua.

Siamo a Riva Fiorita. Qui girano la famosa soap opera napoletana, e stamattina abbiamo un perfetto posto all’aria ma da pochi minuti si è velato il sole.

Un cantiere navale sta dentro una grotta con la stessa forma dell’antro della Sibilla cumana. Ha due ingressi, lontani, collegati da un vano lungo, tutto dentro la collina. Fuori ad ognuno c’è lo scivolo per far salire e scendere le barche.

Poi arriviamo nel posto di oggi, quello che aveva dato l’idea a tutta questa escursione. Volevamo vedere la fontanella, anzi la sorgente che con un tubo porta l’acqua minerale a chi naviga, direttamente sulle barche, senza che scendete. Dentro il porto privato di villa Lauro ci sono già quattro o cinque barche, ed ecco la sorgente. Prendo l’acqua dentro la borraccia e sento che diventa fredda man mano che si riempie. È fresca, ha il sapore leggermente frizzante, pochissimo, solo un accenno, sembra la nonna della Ferrarelle, che ha perso lo smalto giovanile ma è molto più sottile.

Ci allontaniamo tre metri dalla banchina e buttiamo l’ancora dentro l’acqua bassa. Arriva una gozzo di legno che porta due turiste a bordo. Uno dei marinai scende a prendere l’acqua anche lui. Se non lo sai questa fontanina neppure la vedi: è solo un tubo, nuovo di acciaio inox. La lastra di marmo c’è ma la scritta è volata. I gabbiani la conoscono, uno atterra per bere. Ogni volta fa una sorsata col becco e poi alza il collo per farla scendere.

E finalmente, fermi all’ancora, dentro questo porto piccolissimo e tranquillo, addentiamo il panino con le polpette al sugo. Il signore del chiosco Carolina quando l’abbiamo comprato non ci poteva pensare che non ci volevamo pure il contorno: “Peperoni, funghi, neppure melanzane?”

Dentro villa Lauro il signore della barca a fianco, mentre i figli e la moglie stanno a prendersi il sole, sta immerso in acqua fino all’addome e raccoglie la cima dell’ancora con infinita calma, saggio, si vede proprio che lui qui c’è venuto solo per fare questo.

Un pontile corto, squadrato, familiare e dietro una scalinata nota, S. Pietro ai due frati, quella che abbiamo fatto a piedi poche settimane fa scendendo da via Manzoni lungo Salita Villanova oggi la guardiamo dall’altro lato.

Un altro cantiere navale, sembra in funzione, o forse sono solo barche che stanno a deposito invernale, sta scavato nel tufo. Dovrebbe essere il “Cantiere Navale Marina di Posillipo” di cui avevamo visto l’insegna lungo la strada omonima, scendendo a piedi dopo Villanova e sembrava del tutto chiuso, morto, finito.

Il nostro amico a un certo punto fa segno verso la costa verso un palazzo giallo, poco più in alto del livello del mare, sulla linea obliqua di via Posillipo. “Li abitavo io. Scendevo da casa passando dentro il palazzo di un mio amico e arrivavo sulla spiaggia; scendere per il palazzo delle monache era pericoloso, se ti acchiappavano ti facevano nuovo.

Da lì a nuoto fino a villa Lauro, giocavamo a “scannapopolo” per tutta una giornata, un misto di calcio e pallanuoto: a calcio quando eri sulla spiaggia, poi pallanuoto nell’acqua in mezzo, e di nuovo calcio quando eri sull’altra sabbia da quell’altro lato. Chi era stanco cedeva il posto a un compagno. “Scannapopolo” perché c’era una sola regola: era che qualunque cosa si poteva fare”.

Poi un po’ più avanti, davanti a villa Martinelli: “Qua, lo vedi? mettevano le porte galleggianti. Potevi giocare a pallanuoto con chi c’era. Una volta stavo tirando a porta, aspettavo il momento che il portiere scendesse dopo ch’era salito per parare il colpo. Io aspettavo e lui non scendeva mai, aspettavo ancora, ma lui era più forte”. Era Mario Scotti Galletta, il portiere della Nazionale.

Palazzo Donn’Anna, il palazzo che da terra non siamo mai riusciti ad entrare. Dal balcone all’angolo Raffaele La Capria, lo scrittore, diceva che si tuffava direttamente in acqua, era il balcone di casa. La nostra guida di oggi dentro il palazzo ci teneva la barca. “Sul lato destro guardando verso terra c’è quell’apertura. Lì si entrava o si entra e dentro c’era uno spazio enorme, la sabbia e decine di barche”.

Poi: “Lo vedi quel palazzo rosso? Mio fratello aveva la fidanzata che abitava lì, la veniva a prendere con la barca da quella scaletta”. Uah bellissimo, Venezia col Vesuvio, ci viene da pensare.

Sono storie che mischiano acqua e terra, poveri e ricchi, lungo una linea poco definita, mista, un bagnasciuga di coabitazione.

Più avanti c’è il Circolo Posillipo, stamattina ci sono i soci anche loro a prendere il sole sopra la scogliera e i figli alla nostra destra, poco lontano, che si allenano con l’istruttore ad andare a vela su barche piccole e veloci girando attorno alle boe.

Altri pochi metri e c’è largo Sermoneta, e il porto piccolissimo. Posillipo è disseminata di questi piccoli ridossi. Dentro ci sono le famiglie sulla spiaggia con gli ombrelloni e i ragazzi che saltano tuffi. Saluto la nostra guida di oggi, lancio le scarpe a terra e metto il piede sulla banchina di pietra.

I ragazzi giocano a prendersi in giro e una ragazzina risponde a un altro, sveglia, tranquilla, aguzza: “Sono dei Quartieri”.

La sensazione, tornando a casa, è di avere navigato lungo una linea porosa, lungo una spugna di tufo, metà acqua metà solida; come la salsedine, che non è liquida ma neppure sale.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

IL MATEMATICO NAPOLETANO (5/5) – L’ultima parte del nostro reportage sui luoghi di Caccioppoli

7 maggio 2019

Lungo questo viaggio sui luoghi del geniale matematico raccontati in questi mesi volevamo parlare con qualcuno che Renato Caccioppoli lo avesse conosciuto davvero, lo avesse incontrato di persona, ci avesse parlato, probabilmente soprattutto ascoltato. Allora stamattina abbiamo appuntamento al Dipartimento di Matematica ed Applicazioni “Renato Caccioppoli “, a Monte Sant’Angelo, Università Federico II, con Salvatore Rionero, professore emerito di Fisica Matematica.

Monte Sant’Angelo

Entro in questo edificio moderno grigio e giallo, con i pavimenti lucidissimi verde di linoleum. Arrivo con molto anticipo e aspetto. Alle 10.59, non riesco ad aspettare quell’altro minuto, sono alla porta e busso.

Buongiorno professore.

Buongiorno, prego. Prima di cominciare le devo far leggere questo.

E mi porge un libricino dentro il quale, tra altri interventi in un convegno di alcuni anni fa sul professor Caccioppoli, c’è il suo. Racconta alcune cose, e del suo esame di Analisi Algebrica (oggi si chiama Analisi I) alla facoltà di Matematica di questa stessa università che si trovava all’epoca a via Mezzocannone.

Si capitava, ad anni alterni, con lui o con il professor Miranda: quell’anno agli studenti di Analisi Algebrica toccava lui, il professore mito, severissimo agli esami.

Il professore Rionero

Durante gli esami di Caccioppoli non volava una mosca, c’era un’atmosfera tesissima. Lui si accendeva una sigaretta, magari andava avanti e indietro lungo la lavagna, ogni tanto si sollevava i capelli sulla fronte con la mano. Oppure stava seduto a fianco alla cattedra, ci poggiava la testa pensando, poi dopo un po’ la alzava per vedere a che punto fosse dell’esercizio il candidato di turno.

Lo studente Rionero che, è la prima precisazione che ha tenuto a farmi, non ha seguito il suo corso ma che stamattina mi dice ancora: “il suo libro lo conoscevo quasi meglio di lui”, viene chiamato dopo alcuni candidati che erano stati bocciati al primo esercizio: il calcolo della derivata di una funzione.

La domanda non cambiava, stava lì alla lavagna fino a che qualcuno quella derivata non riusciva, senza errori, a farla.

(Per chiarirvi la cosa: mi hanno raccontato – se chiedete agli studenti di quell’epoca, anzi ormai quasi ai loro figli soltanto, molti a Napoli hanno aneddoti su quel momento – di uno studente che mentre era seduto aspettando il suo turno sapeva perfettamente svolgere l’esercizio che vedeva scritto lì davanti, poi una volta alla lavagna, per l’emozione che dava quel professore, si era scordato tutto).

Eseguo il calcolo passo per passo, per non sbagliare, mentre sento che il professor Caccioppoli inizia a dare qualche segno di impazienza. Completo l’esercizio senza errori, però quando mi giro vedo che la sua espressione non è delle migliori.

Seconda domanda: dimostrazione di un teorema (il teorema di Weierstrass, il ricordo è talmente vivo che secondo me se gli chiediamo le parole esatte, una per una, che avevano detto lui e il professore, ci scrive un testo perfetto).

Questa volta lo studente Rionero parla spedito, con sicurezza, veloce. E l’espressione di Caccioppoli inizia a cambiare.

Poi gli consente addirittura di parlare di argomenti al di fuori del programma.

Alla fine della sua esposizione il nostro candidato si gira per la terza volta e trova Caccioppoli sorridente, con gli occhi illuminati, che gli porge il libretto con sopra scritto “30 e lode”.

Copio esattamente da quel libricino la sua frase che mi ha appena ripetuto quasi uguale: “Quella stretta di mano e l’applauso scoppiato nell’aula mi hanno indicato la strada che potevo percorrere e costituiscono uno dei più bei ricordi della mia vita”.

Questo era uno degli esami di Caccioppoli.

Poi mi racconta il suo secondo esame sostenuto con quello stesso professore, Analisi Infinitesimale (oggi sarebbe Analisi II), con la stessa precisione nel ricordo.

Insomma credo che lei abbia capito da quello che le sto raccontando che Caccioppoli agli esami bisognava sfidarlo.

E mi viene in mente che quel professore, nipote di Bakunin, una delle cose che più amava nella vita, e cercava di coltivare in sé e negli altri, era la libertà e l’onestà intellettuale. Ecco perché forse a sfidarlo, se uno non barava, non si veniva mai giudicati male.

Magari trattava i candidati con freddezza ma solo sulle cose formali, poi quando intravedeva che qualcuno aveva davvero qualcosa da dire non saliva in cattedra e usava la sua posizione ma anzi era felice di parlare quasi da pari a pari.

Forse è questo anche il motivo per il quale, quando quel primo esercizio non si riusciva a svolgere con la dovuta sicurezza, in un tempo opportuno, senza errori, e ci si trovava, girandosi, il professore di fronte con in mano già il proprio libretto, in silenzio, lo si prendeva e si andava via senza replicare.

Continua a raccontare il professore.

Il peggio era quando, durante la seduta, arrivava qualche assistente o libero docente ad ascoltare. Deve sapere infatti che agli esami e alle lezioni venivano ad assistere non solo gli allievi ma anche professori. In quelle occasioni il professor Caccioppoli iniziava un poco più a scherzare.

Una volta, questo l’ho ascoltato proprio io di persona, un po’ demoralizzato dall’esito dei primi esami, disse al suo assistente don Savino Coronato: “Don Savì, e questi sono quelli che dovrebbero insegnare ai nostri figli? Meno male che noi figli non ne teniamo; vero don Savì?”

Se vi ricordate che don Savino era un prete non vi sfugge la battuta un poco imbarazzante.

Ma il motivo per cui le aule in cui il professore Caccioppoli teneva esami o lezione erano sempre gremite non era certamente per le battute, le faccio un esempio: mettiamo che io sia un professore molto accurato e che tenga una lezione in cui spiego perfettamente, passaggio per passaggio, senza saltare nulla, un certo argomento; molto probabilmente dopo un paio d’ore la mia platea si sarà annoiata. Invece il professor Caccioppoli aveva un dono: lui sapeva andare al nocciolo dell’argomento, sapeva far vedere oltre i passaggi e le formule, ecco perché riusciva a tenere la platea sospesa, interessata, attenta, e perché lo andavano ad ascoltare anche persone che non erano studenti.

Va bene, per non farvi rimanere troppo col fiato sospeso, vi dico che a quel secondo esame Rionero pure prese trenta.

Poi continua coi ricordi. Sta cercando di farci capire ancora, di disegnare più chiaramente che può quella figura sottile, di spiegarci qualcosa di non semplice da afferrare.

Vede, se lei mi incontra per strada, cosa pensa? Che sono una persona normale, come gli altri. Bene, io sono Accademico dei Lincei come era lui, ho più pubblicazioni di quante non ne avesse fatte lui -con questo, attenzione, non voglio assolutamente dire che le mie pubblicazioni sono migliori delle sue, intendiamoci- però se lei incontrava Caccioppoli si rendeva istantaneamente conto di avere davanti una persona al di sopra del normale, un genio.

Dopo un poco il professor Rionero sente che mi ha raccontato abbastanza di suo, senza che gli facessi domande; credo che Caccioppoli faccia questo effetto in molti: ha mosso molto in profondo le persone e allora tutti ne parlano con grande piacere, con urgenza a tratti. E mi chiede di iniziare a fargli le domande che avevo in mente.

Guardo sul mio quaderno e leggo una domanda che non si dovrebbe fare, non come prima almeno. Però se l’ho scritta per prima pure questo avrà un motivo, allora gliela faccio.

Professore adesso comincio da questo, lo so che è al contrario, dalla fine, ma è la prima cosa che mi è affiorata nel pensiero. Lei che cosa si ricorda dei funerali del professore?

Vedo il viso del professore che si ferma.

Si ferma il respiro per qualche momento.

Ho sbagliato domanda.

Mi dispiace.

Mi ha già risposto. Sono passati sessant’anni da quel giorno di maggio e questo signore stamattina si commuove.

Poi si attacca a qualche parola per tirare fuori la voce.

Non so se lei si ricorda, dentro palazzo Cellamare, dove abitava Caccioppoli, dopo il cancello, c’è un viale. Quel giorno era tutto pieno di persone, c’erano professori da tutta Italia.

Lungo quel viale, in un angolo, quella mattina ho visto, tra i tanti altri, due dei più importanti matematici italiani asciugarsi le lacrime.

È stata una cosa terribile, che ha rivoluzionato tutto il mondo matematico di allora.

Un altro ricordo è di qualche giorno prima: stavo all’angolo di via Chiaia con piazza Trieste e Trento, davanti a quel bar famosissimo, come si chiama… il Gambrinus, sì, ecco.

Stavo lì ad aspettare la mia fidanzata e vedo arrivare, scendendo da via Chiaia, il professore.

Camminava a fatica, non era uno spettacolo bellissimo. Qualche tempo prima, cadendo, si era rotto un braccio, non stava più tanto bene in salute. Allora mi avvicinai con molta deferenza e gli chiesi: “Professore come sta?”

Mi diede la mano e mi disse: “Rionero, come vuole che io stia?”.

Dopo due o tre giorni avemmo la tristissima notizia. È l’ultimo ricordo che ho di lui.

Siamo andati a cercare sulle pagine del giornale che frequentava di persona, quasi tutte le sere, nella redazione di Napoli. Ecco, se volete, il racconto di quel giorno: “L’Unità” 10 maggio 1959.

Sei studenti vollero portarlo da palazzo Cellamare, per via Chiaia, fino a piazza Vittoria. Togliatti inviò un telegramma.

I libri personali di Caccioppoli

Ha aggiunto parecchi tasselli il professor Rionero alla nostra ricostruzione, lo ringraziamo molto e andiamo a vedere un luogo dove un altro pezzetto di Caccioppoli pure rimane.

I libri personali di Caccioppoli

Si trova proprio qui sotto, al piano terra, dove c’è la Biblioteca “Carlo Miranda”. In un armadio di ferro con la porta a vetri. Dentro ci sono i libri che usava personalmente Renato Caccioppoli.

Molti hanno copertine rivestite in tela, con il titolo a lettere dorate. Apriamo uno dei libri di Analisi scritti da lui per i corsi. Una prima edizione ha i caratteri in corsivo, tutti.

Ci sono libri di autori stranieri, in francese e in tedesco. Ce lo aveva raccontato poco fa il professor Rionero, i rapporti con il mondo anglofono erano limitatissimi: si ricordi che ai tempi del fascismo l’Inghilterra era “la perfida Albione”.

C’è un libro del suo maestro, Mauro Picone, che si intitola: “Calcolo”.

Tocchiamo tutto il meno possibile. Qualcun altro li ha aperti; meglio non invadere troppo quei suoi gesti.

Professor Carlo Sbordone

Il professore Sbordone

Dopo tanti luoghi cercati in questo viaggio a puntate, oggi continuiamo alla ricerca più dei racconti delle persone e andiamo a parlare con un altro matematico napoletano che non ha conosciuto direttamente Caccioppoli, perché troppo giovane, però ne è un cultore, il professor Carlo Sbordone.

Lo andiamo a trovare nella sede dell’Accademia Pontaniana, a via Mezzocannone; c’eravamo stati, in questa nostra ricerca, il primo giorno. È stato per sei anni presidente di quest’Accademia che fu diretta, prima donna, dalla zia del professor Caccioppoli, Maria Bakunin.

Ci inizia a raccontare delle origini del dipartimento. Si ricorda a memoria l’anno di nascita e pure di iscrizione all’università di parecchi professori suoi docenti. Sembra uno storico dei matematici.

Il professor Picone riuscì a costituire una scuola di bravissimi matematici e molto precoci: Caccioppoli del 1904, il più anziano, Gianfranco Cimmino del 1908, Giuseppe Scorza Dragoni del 1908 pure lui, mentre parla scrive questi numeri su un foglio di carta, e poi Carlo Miranda che era del 1912, tutti precocissimi: il professore Miranda si iscrisse all’università a soli 15 anni, il professor Cimmino pure si laureò prestissimo.

Il professore Picone oltre a essere un matematico molto produttivo era anche molto concreto. Riuscì a farsi dare nel 1927 dal Banco di Napoli la somma di cinquantamila lire (all’epoca era una cifra considerevole) per impiantare a Napoli, credo proprio in questo palazzo, il centro di calcolo elettronico, si chiamava “Istituto per le applicazioni del calcolo”. Poi nel ’27-’28 se lo portò a Roma, con gran parte dei suoi assistenti, questa fu una sfortuna per noi.

Uno dei pochi che rimasero a Napoli fu proprio Caccioppoli.

Siamo seduti dentro una saletta dell’Accademia, si chiama sala Benedetto Croce. al posto dove adesso vedete fotografato il professore probabilmente sedeva proprio Croce, forse dove sto seduto io in questo momento s’è seduto Caccioppoli qualche volta convocato da lui.

Forse gli aveva detto quello che adesso ci racconta il professore.

Il professore Caccioppoli nel dopoguerra entrò a far parte di un gruppo ristretto, dieci persone, dei più assidui sostenitori della rinascita di quest’Accademia.

Deve sapere che Benedetto Croce aveva deciso di nominare sua zia Maria Bakunin presidente dell’Accademia. Allora il nipote, che per sua natura non era uno che si occupasse di cose troppo pratiche, lo sappiamo tutti, era un grande teorico, per ricambiare aveva accettato di entrare in quel piccolo gruppo.

Il professor Sbordone insegna Analisi Matematica, la stessa materia che insegnava Caccioppoli, e allora gli chiediamo se ha in qualche modo ricevuto influenza dagli studi nei campi aperti da lui.

Vede, Caccioppoli ha avuto la fortuna di nascere in un tempo in cui ci si poteva occupare di diversi campi della Matematica ad un livello avanzato. Oggi siamo ad un livello talmente specializzato che sarebbe impossibile affrontarne più di due. Lui ne ha affrontati, con questo intendo dire che ha dato risultati di valore, in almeno 7 o 8 ed è stato comunque ai suoi tempi una grande eccezione.

Lui dava dei risultati molto importanti, però talvolta erano difficili da capire anche per i giovani assistenti. Allora c’era il professor Miranda che traduceva. Caccioppoli esponeva la teoria, Miranda capiva, oppure a volte tornava da Caccioppoli e diceva: “Renà ch’è scritt ccà?”, per farsi spiegare meglio.

Due degli argomenti di cui si è occupato portano ancora il suo nome: le “Disuguaglianze di Caccioppoli” e gli “Insiemi di Caccioppoli”.

Gli “Insiemi di Caccioppoli” sono insiemi il cui bordo è così irregolare, che le funzioni che lo descrivono sono difficilmente gestibili da un punto di vista matematico, però sono molto importanti. Hanno avuto un ruolo notevole nella ricostruzione per esempio delle immagini. Per fare i film a colori si è dovuti intervenire su queste strutture che sono gli “Insiemi di Caccioppoli”.

Io invece ho lavorato sulle “Disuguaglianze di Caccioppoli” che riguardano il problema della continuità delle soluzioni di problemi con dati discontinui.

Il professor Sbordone è stato referente scientifico del film “Morte di un matematico napoletano“, di Mario Martone, anzi mi dice oggi che sta personalmente anche in una piccola scena.

Ad un certo punto nel film ci dovevano essere due Caccioppoli, erano due Carlo, Carlo Cecchi e Carlo io. Uno alla lavagna, di spalle, scrive delle formule, e quello sono io, mentre l’altro fa un gesto di rifiuto con la mano come per dire: “Basta, queste cose non mi interessano più”.

L’ultima domanda che gli pongo è su come trovare il luogo dove riposa Renato Caccioppoli. Sapevo che era uno di quelli che lo sanno.

Mi ha fatto proprio un disegno su un foglio di carta.

Entra, segue la strada, una prima curva, una seconda e qui, ecco, in questo punto trova una piccola cappella di famiglia.

In alto c’è scritto “Caccioppoli”.

Poi uscendo mi dice: Sa, oggi abbiamo una delle lezioni per i ragazzi dei licei per allenarli alle “Olimpiadi di Matematica” delle scuole superiori. Sono curioso e andiamo insieme a vedere quell’aula magna dove, vi ricordate? eravamo già stati insieme nella primissima puntata di questo viaggio. Quel giorno avevo fotografato una sala vuota, l’unica presenza umana era il ritratto di Maria Bakunin. Adesso dentro quei banchi ci sono almeno cinquanta studenti liceali. Alla lavagna c’è un professore giovane, forse un assistente, che sta spiegando con una bella calma, a una platea che ascolta tranquillamente. Oltre tutti questi bei discorsi che facciamo, la tradizione scientifica, questo anche è un bel segno, anche dentro queste sale, sta continuando.

L’ultimo luogo

Andiamo a cercare il luogo ultimo, su questo pianeta, del professore.

Ritrovo il foglio con quel disegno, me lo riguardo e parto.

Quando arrivo lassù mi accorgo che non mi ero fatto spiegare abbastanza in dettaglio quale fosse l’ingresso preciso, perché come saprete qui sopra di cimiteri ce ne stanno almeno quattro.

Poi, dopo un po’ di ricerche, trovo l’ufficio giusto. Al computer trovano rapidamente il posto esatto.

Cimitero di Santa Maria del Pianto, curva zona quattro.

Cimitero di Santa Maria del Pianto

È un bel cancello, all’ombra di alberi, dentro un piccolissimo slargo.

La strada scende, come gli altri. Dopo pochissimi metri un cartello di ferro: Totò, Enrico Caruso.

A un bivio c’è una piccola bottega dei marmi, l’indicazione si ripete, per Totò girare a destra. Siamo qui, a questo punto andiamo a vedere.

Una cappella come le altre intorno. Solo ci sono un po’ più fiori della media. Guardo dentro dalla porta chiusa. Ci sono le foto che conosciamo tutti. È proprio lui. A destra della porta c’è scritta nel marmo tutta “la Livella”.

Siamo scesi troppo lungo la collina, è meglio se risalgo.

Eccola finalmente: Caccioppoli scritto in alto. Guardo dentro cercando di dare il minimo disturbo. Cerco due volte tra i nomi che leggo ma non sono quelli che ricordo. C’è la bottega di prima, vedo se lo sanno.

Sta lì vedete, e indica una seconda cappella con Caccioppoli scritto che sta a sei metri.

Mentre mi avvicino vedo che la porta è aperta. Esce un ragazzo che stava pulendo, chiedo di entrare un momento.

Leggo “Renato Caccioppoli” in alto a sinistra, e poi solo due date.

Resto soltanto a guardare.

Di fronte c’è la madre, il padre.

Tomba del professore Caccioppoli

La prima fotografia mi viene mossa.

Il signore dei marmi si avvicina, la cosa diventa più delicata visto che era aperto. Mi chiede chi siamo. Poi è talmente gentile che telefona agli eredi e ci danno anche il permesso di pubblicare le foto che vi stiamo mostrando.

Forse il professore ha un poco in simpatia questo nostro viaggio. Prima ci ha preso un po’ in giro, come suo solito. Ci ha fatto andare avanti e indietro, ncoppo e sotto, alla fine però si è fatto trovare, e ha lasciato, proprio in quel momento, quella porta aperta.

Forse voleva che vedessimo prima il Principe della risata, e solo alla fine il matematico comunista “anarchico”.

Una cosa dell’intervista al professor Rionero e al professor Sbordone però non ve l’ho ancora detta.

Alla fine avevo chiesto a entrambi, in giorni diversi, in due posti tra di loro lontani, un’ultima cosa.

Professore secondo lei che cosa aveva Caccioppoli di diverso dagli altri?

Mi hanno risposto con le quasi identiche parole: Sa, lui vedeva cose che noi non vedevamo, che non saremmo riusciti a vedere senza di lui, questa è la verità.

Poi, forse, quel venerdì 8 maggio 1959, quello che riusciva così bene a vedere era stato troppo grande da sopportare anche per lui.

Questo articolo lo pubblichiamo il giorno prima di quell’anniversario. Vi vogliamo dare il tempo di pensarci.

Poi magari c’è un matematico bravissimo che in ventiquattr’ore mette insieme tutta la teoria, costruisce una macchina del tempo, e riesce a cambiare la sorte.

(Fine ultima parte, se volete ricominciare dalla prima parte il link è questo).

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)