INCONTRI – Storie dell’altro Mondo (2/2): i racconti della nostra napoletana a Cuba negli anni di Fidel Castro

13 aprile 2019

Stamattina ritorniamo dalla nostra “corrispondente da Cuba”, Alessandra Riccio (il cui primo racconto trovate in questo articolo), per sentire da lei un altro pezzetto della vita di ogni giorno nella rivoluzione permanente di Cuba.

Quando arrivo la macchinetta del caffè sta sul fornello pronta. Dopo due minuti che parliamo accende sotto. Ormai c’è un piccolo patto non scritto, lei fa il caffè e io porto dei piccoli dolci.

La volta scorsa, forse ve lo ricordate, le avevo posto una sola domanda. Poi ero rimasto quasi sempre in silenzio perché il flusso delle parole aveva un respiro perfetto.

Oggi inizia con una precisazione. Poi da lì tutta una sequenza, in fila, di ricordi.

Una precisazione

La scorsa volta hai scritto che io a Cuba sono stata sei anni, ma ti riferivi solo agli anni come corrispondente dell’Unità.

Se però consideri che da quel primo giorno che ti ho raccontato, nel ’76, all’ ’87, quando sono andata come corrispondente, io a Cuba c’ero tornata sempre, vedi che gli anni sono sedici, molti più di sei.

Dovete capire che lei è una ex professoressa, quindi il piglio di precisione e di “stai attento, controlla sempre ciò che dici, altrimenti ti boccio” non si può mai perdere completamente, secondo me se ce ne facciamo una ragione subito è meglio per tutti.

Quel primo soggiorno come borsista per me è stato fondamentale perché la maggior parte dei contatti, delle amicizie, li ho stretti allora.

Poi, tornando come corrispondente del giornale mi toccava invece andare di più a chiedere per vie ufficiali, per esempio ai Ministeri. Cosa che in realtà, a pensarci, ho fatto poco: non mi è mai piaciuto né ci ho contato molto.

Nel frattempo invece magari alcuni intellettuali che avevo conosciuto nel ’76 avevano ottenuto cariche ufficiali e quindi avevo un contatto già stretto. Ma non per tutti è stato così: alcuni per esempio nell’87, quando sono tornata, erano un po’ maltrattati o stavano riabilitandosi pian piano.

Perché la storia degli intellettuali cubani è sempre stata piuttosto complessa. Sia per i rapporti tra loro e le istituzioni, sia perché alcuni di loro molto presto hanno cominciato a turbarsi dopo che si erano illusi di diventare molto famosi. Perché dobbiamo ricordarci che nei primi anni soprattutto, quella rivoluzione è stata il fenomeno mediatico più brillante del mondo.

La cosa era già affascinante di per sé, poi fai conto che c’era tutta una schiera di uomini bellissimi, virili, a fare da protagonisti: Che Guevara, Fidel ma anche tanti altri.

Hanno addirittura influenzato la moda nel mondo: quello stile militaresco, che prima di loro era detestato, all’improvviso diventa la moda.

Se uno pensa che Cuba, come gli Stati Uniti, praticamente la seconda guerra mondiale non l’ha sofferta; cioè mentre noi stavamo con le pezze, a Cuba c’era la televisione, le macchinone americane, i frigoriferi a due porte. e che quindi la moda maschile a Cuba prima della rivoluzione prevedeva i capelli impomatati ed il baffetto, insomma l’eleganza classica anni ’40, si può capire come quella rivoluzione cambia tutto da un giorno all’altro anche a livello estetico, e lo esportano in buona parte del globo.

Lo sai, una volta, in Italia l’ho vista una di quelle macchinone, una Buick. Mastodontica, blu elettrico, enorme. Solo a giudicare dal peso, dalle dimensioni del motore e dal rombo, penso che non facesse più di tre chilometri con un litro di petrolio.

Eh si, pure io quando stavo lì avevo una macchina strana: un ex ambasciatore se la toglieva e io la comprai, era una Ford Mercury, lo “squalo bianco”.

L’ho tenuta poco, poi ho comprato una Lada perché là il problema è che i pezzi di ricambio se sono Lada li trovi, altrimenti devi andare fino in Messico a comprarli.

E ma allora tutte quelle automobili americane anni ’50 che ancora si vedono a Cuba come fanno? Mah, nella maggior parte dei casi quello che vedi da fuori è americano, ma dentro sono qualunque cosa.

L’automobile di lusso con l’autista

A proposito di automobili mi fai venire in mente una cosa.

Un giorno andai con Cortázar allo studio di questo pittore molto famoso, René Portocarrero. E al ritorno lui poi ci fece accompagnare, guarda, sembra assurdo, con la sua Cadillac nera, tutta foderata di pelle, dal suo autista nero.

Ti sto parlando degli anni ’76, ’77… questo Portocarrero viveva da una vita con il suo compagno, ed era pittore ufficiale della rivoluzione, quindi non è che fosse uno che viveva nascosto. Però aveva mantenuto la sua Cadillac e pure l’autista. E qui una grande risata buona. …sembrava pazzesco.

E comm’ a fatt? Mi scappa a me di getto pensando alla rivoluzione di tutti compagni, di niente privilegi e di una certa avversione per le coppie omosessuali.

La differenza era che questi erano due signori anziani, che non si potevano muovere… Su questo la rivoluzione si dimostrò estremamente comprensiva.

Uno pensa che la rivoluzione cubana sia una cosa univoca, stringata, semplice, e invece c’era spazio pure per cose come questa apparentemente completamente all’opposto.

E non pensare che fosse un privilegio accordatogli perché era il pittore ufficiale perché per esempio ho conosciuto bene Dulce Maria Loynaz che era una poetessa, di una grandissima famiglia proprietaria di piantagioni di zucchero, che invece non era favorevole alla rivoluzione e che lo stesso viveva, da sola, in un villone nel Vedado che ti avrei voluto fare un film, una cosa tipo “Viale del tramonto”. Ma nessuno l’ha mai cacciata.

Ma allora mi stai dicendo che questa rivoluzione era flessibile… umana.

Soprattutto umana mi ripete lei.

E ma scusa, nessuno diceva niente? Non dicevano: “Perché a lei tutta quella villa?

Sì, come no.

In questi casi c’erano tutta una serie di strutture, per esempio i Comitati della rivoluzione, una sorta delle nostre Circoscrizioni fai conto.

Quando qualcuno metteva in risalto per esempio qualche privilegio ne discutevano fra loro.

Allora poteva essere che il presidente del Comitato fosse già una persona sensata e diceva: “compagni questa signora ha vissuto tutta una vita in quella casa, non se n’è andata, per quanto avversa alla rivoluzione è una cubana… perché non la dobbiamo lasciare dove sta?” E tutto finiva lì.

Oppure si andava, di grado in grado, sempre più in alto fino ad arrivare ad una soluzione.

Si potevano creare comunque situazioni spiacevoli.

Per esempio con gli scrittori c’è stato molto questo: altri scrittori che dicevano: “ah, ma quel libro lì è controrivoluzionario”.

Anche perché ci sono stati molti momenti in cui Cuba ha dovuto difendersi, capisci? Allora tutto quello che, vuoi o non vuoi, per tua volontà o no, finiva per costituire un attacco alla rivoluzione, bisognava tenerlo a distanza.

Il piano “Peter Pan”

Io cito sempre una frase di un mio carissimo amico che diceva: “è un peccato quando una rivoluzione perde un suo intellettuale, ma è ancora più un peccato quando un intellettuale perde la sua rivoluzione”.

La sua storia personale è interessante. Era cubano ma io non l’ho conosciuto a Cuba perché era uno di quelli che erano andati via all’inizio della rivoluzione a causa di un piano degli Stati Uniti che è uno degli esempi di quelle che oggi chiameremmo “fake news”. Il piano “Peter Pan”.

Gli Stati Uniti diffusero la notizia, fake news appunto, che con la rivoluzione Cuba avrebbe tolto la patria potestà ai genitori e avrebbe mandato tutti i ragazzini a indottrinarsi in Unione Sovietica. E la Chiesa Cattolica anche fu in prima fila a sostenere questa tesi.

Allora molti genitori, prima che succedesse, diedero il consenso a far partire i bambini per gli Stati Uniti, per salvarli da questo.

Lui, si chiamava Julio Miranda, fu uno dei ragazzini che partirono. Andò in un collegio di Gesuiti, poi fece il seminario, ed è diventato Gesuita.

Era un ragazzo intelligentissimo, un eccellente critico letterario, amante del cinema, poeta.

Poi, arrivato in Spagna, ha capito che non era cosa, e ha cominciato a spretarsi, a ragionare con la sua testa. Io l’ho conosciuto quando è arrivato in Venezuela. È stato anche in Italia, mio lettore all’università di Salerno. Insomma, aveva scritto un libro di critica molto bello, in cui, parlando di un intellettuale, aveva scritto quella frase che ti ho detto.

E quella frase la cito spesso perché l’ho visto accadere molte volte.

Sono stati molti quelli che hanno perso la loro rivoluzione perché lusingatissimi dall’esterno.

Io gli dicevo sempre: “sentite ma voi lo sapete che siete gli unici, scrittorucoli, scrittorelli, scrittorini, che ve ne andate via da Cuba e vi offrono ponti d’oro: contratti, case editrici, la pubblicità, tutto? A nessun altro intellettuale al mondo gli succede questo”.

Li chiamavano da tutto il mondo, perché dovunque nel mondo gli intellettuali ad un certo punto hanno iniziato a dire: “nessuno ci deve condizionare, in niente, viva la libertà”, contro la rivoluzione di Cuba.

Zoe Valdés

Un esempio di questo l’ho visto accadere molto bene, personalmente.

Una mia amica giovanissima, Zoe Valdés, che fino ad allora non aveva pubblicato quasi niente, andò a Parigi con un contratto con le edizioni Actes Sud, una campagna pubblicitaria strepitosa. È diventata ricca in un baleno, ed ha iniziato a scrivere un libro dietro l’altro.

Perdendo però tutto.

È come se perdessero l’anima, ecco, perché “hanno perso la loro rivoluzione”, che è una visione del mondo che va oltre.

E poi perché la natura a Cuba è fortissima, è dominante, e quindi lontano da Cuba si è spezzato quel rapporto… Da aggiungere che spesso anche una grande nostalgia ci mette il suo.

Naturalmente oltre che pubblicando libri, pubblicavano anche continuamente notizie negative su Cuba: “il lager, il dittatore Castro, l’orrore di Cuba…”

È quasi una clausola del contratto: “tu vieni, noi ti accogliamo, però devi raccontare questo”.

In questo caso io la conoscevo benissimo, è avvenuto tutto sotto i miei occhi, posso riconoscere tutte le bugie che ha detto. So che quando diceva che era maltrattata, che poverina doveva trovare il cibo nell’immondizia, erano tutte bugie. E come lei hanno fatto in molti.

Quelli che sono andati all’estero e non hanno fatto questo, sono andati per una qualche ragione precisa, per esempio si sono innamorati di una straniera, poi si sono sposati ecc. però, guarda caso, quelli lì non sono quasi mai diventati famosi.

Norberto Fuentes

Un altro esempio.

Un giorno stavo ad una conferenza e un uomo seduto a fianco a me ad un certo punto mi fa: “ehi Alessandra non mi riconosci?”.

Era Norberto Fuentes, uno scrittore cubano che in gioventù aveva scritto un libro molto bello, una serie di racconti eroici su episodi della guerra rivoluzionaria.

Poi era stato coinvolto in una vicenda giudiziaria molto pesante riguardante alcuni alti ufficiali dell’esercito.

Venne fuori che questi, non per arricchirsi personalmente ma per finanziare le truppe al loro comando, avevano organizzato il narcotraffico. Erano ufficiali che in precedenza erano stati insigniti di onorificenze dal Partito Comunista Cubano anche perché erano andati a sostenere la guerriglia in Angola. Questo processo sfociò in tre condanne a morte.

Fuentes era stato coinvolto però non andò in prigione.

Bene, quel giorno probabilmente si avvicinò a me perché se io avessi scritto un articolo su di lui, raccontando in Europa i pettegolezzi della vicenda, sarebbe diventato intoccabile. Ma io non lo feci, proprio perché sapevo che in quel caso i pettegolezzi sarebbero andati ad influenzare un piano ben più importante, riguardante Cuba in generale.

Poi lui pensò bene di rivolgersi a García Márquez.

Márquez diceva sempre al governo cubano: “non fate prigionieri politici, non fate condanne a morte”. Secondo me però non capiva che gli attacchi alla rivoluzione erano fortissimi.

Ad esempio per quella vicenda di narcotraffico gli Stati Uniti processarono Raúl Castro, in contumacia, in Florida, perché essendo il capo dell’esercito secondo loro non poteva non sapere. Quando Raúl Castro invece non c’entrava niente. E allora tu che fai, non ti difendi?

Quel processo ai generali a Cuba, trasmesso tutto in televisione, non me lo scorderò mai. Fu un altro bello scoppolone dato a quei poveri cubani.

Perché gli Stati Uniti avevano lanciato la guerra al narcotraffico per cui quello non era, come spesso fanno, un argomento di giustizia o umanitario, ma un argomento per invadere il Paese.

Per questo quegli ufficiali furono giudicati a Cuba “Traditori della patria”, perché il rischio che fecero correre al Paese fu altissimo.

Bene, per ritornare a quella frase, cosa ha scritto Fuentes da che, con l’aiuto di Garcia Márquez, se n’è andato negli USA? “La vita intima di Fidel Castro”, un libro di pettegolezzi. Ce l’ho qui ma non sono neppure riuscita a leggerlo, è una cosa insostenibile.

Garcia Márquez

Ma tu Garcia Márquez lo hai mai incontrato?

Sì, l’ho anche intervistato.

Ovviamente per l’Unità?

No, veramente lo intervistai per un giornale napoletano che si chiamava “L’Araba Fenice”.

Quando finì la borsa di studio a Cuba andai in Messico col corrispondente dell’Unità e la sua famiglia perché il partito comunista messicano era stato dichiarato finalmente legale, ti sto parlando credo del 1978.

Andammo e c’era tutta una delegazione cubana. Tornavo da quegli otto mesi a Cuba con le idee anche un po’ confuse, e visto che si sapeva che Garcia Márquez era a favore della rivoluzione cubana, gli dissi che mi sarebbe piaciuto intervistare questo Márquez, che non era ancora premio Nobel.

Mi ricevette in un albergo a città del Messico e mi raccontò un sacco di cose che io pubblicai su quest’ “Araba Fenice”, il che ti dimostra che non ho mai saputo vendere la merce. E stavolta è proprio di se stessa che sorride.

Pure a Maradona, appena arrivato a Napoli, per lo stesso giornale, feci un’intervista.

Poi, sempre a proposito di artisti e rivoluzione, c’avevo tanti altri amici che magari sono dovuti stare zitti e buoni per un po’ di tempo, però poi hanno avuto tutti, poco a poco, il loro riscatto: un premio nazionale di letteratura o cose del genere. Scrittori che non hanno perso la loro rivoluzione.

Ma mi spieghi un poco questa cosa del veto sull’omosessualità a Cuba?

Riguardo alla questione dell’omosessualità ad un certo momento venne promulgata una disposizione contro alcune categorie: quelli che non volevano lavorare, chi aveva comportamenti antisociali, chi non voleva fare il servizio militare che era obbligatorio ecc. e tra questi c’erano pure gli omosessuali. Questa cosa, cioè metterli in campi di lavoro, è durata meno di due anni però lo stigma c’è stato sempre, come d’altronde c’è stato da noi, esattamente tale e quale, come negli Stati Uniti, ovunque.

Però un sistema statale rigido, che diventa sempre più rigido per difendersi, poi commette errori.

Fidel Castro

Poi la domanda che prima o poi doveva uscire: ma tu Fidel Castro lo hai conosciuto?

Personalmente no.

L’ho visto cento volte, qualche volta anche nel suo studio, seduti come stiamo adesso, anzi più vicino ancora perché facevo da interprete, una volta, ad esempio, per Cossutta.

Che tipo era?

La risposta è istantanea, secca, tranquilla: meraviglioso.

Una persona gentilissima, cortesissima. Anche se per esempio, come nel mio caso, facevi l’interprete, non è che non ti guardava, che non ti considerasse proprio. Anzi ti chiedeva, si interessava alla tua persona, ti parlava al di là della funzione che svolgevi in quel determinato momento. Era curioso di tutto, che fosse una persona fuori dall’ordinario te ne rendevi conto subito.

Quando ero corrispondente io andavo sempre a sentirlo quando teneva un discorso perché ti faceva capire un sacco di cose. Se per esempio parlava all’inaugurazione di una fabbrica di cemento, lui spiegava le motivazioni, perché, per come…

Aveva una straordinaria visione globale, del mondo. E poi una conoscenza perfetta anche della vita quotidiana del popolo di Cuba.

Una volta, mi ricordo, c’era scarsità di acqua. I cubani fanno due docce al giorno e non una cosa veloce, zac, fatto, ma una cosa con calma, cantando sotto lo scroscio. E allora per forza l’acqua non può mai bastare. Allora lui un giorno, mi ricordo, in un intervento disse: “ma non potete misurarvi un poco con quest’acqua, che se no da dove la pigliamo?”

Un’altra volta fece un’altra richiesta al suo popolo: “io lo so che ci sono persone che magari per lavoro viaggiano, vanno all’estero, ma è proprio necessario che poi al ritorno portate ai vostri figli dei regali grandi? Quelli poi vanno a scuola, i compagni li vedono e dicono: perché io quella cosa non ce l’ho e tu ce l’hai?“.

I dettagli che fanno il mondo.

Quando cadde l’Unione Sovietica la preoccupazione di Fidel era: e ora quelle armi nucleari in mano a chi saranno?

Odiò Gorbaciov. E quando venne a Cuba, in maniera elegante ma glie ne disse quattro.

E sai quale fu il primo viaggio che fece Mandela dopo la sua scarcerazione? Venne a Cuba come prima cosa.

Poi guarda per un attimo un punto nell’aria che io non vedo:

Un giorno il terzo mondo farà capire al mondo chi è stato Fidel Castro, e che speranza è stato per tutta questa gente.

Poi c’è silenzio, nessuno di noi due dice più niente.

Certo mica poteva fare tutto. Mi ricordo sempre, e sorride un attimo, che dicevano sempre: lascia che lo sappia Fidel Castro”.

Nel senso che lui avrebbe subito risolto. Però questo certo non andava bene, non è che si poteva aspettare che risolvesse tutto una persona sola.

Ora cambia argomento: lo sai che quest’anno si festeggiano, a novembre, i cinquecento anni della città dell’Avana?

Anche se adesso è cambiata molto, illuminata, pulita, in giro circolano auto nuove, c’è gente che si arricchisce.

La psicosi dell’informatore

Ma la proprietà privata come ha funzionato?

Guarda la proprietà privata c’è in un piccolo settore, nel turismo, anche nella coltivazione della terra. Ad un certo punto hanno detto: vediamo se questa terra riuscite a gestirvela da soli.

E comunque in realtà, un poco c’è sempre stata. Per esempio ti si spezzava un’unghia e allora l’amica ti diceva: vai da quella vicina che lei fa le unghie. Oppure c’era quella che faceva le torte. In maniera non ufficiale però, senza nessuna ricevuta fiscale.

La sensazione è che loro sapessero tutto però non intervenivano fino a quando la cosa non superava una certa proporzione.

Loro le cose le sanno. Perché lo Stato lì è presente. Poi c’è chi lo sente come una presenza soffocante, e a chi invece piace.

Però capisco che questo argomento sia stato sempre un punto delicato del quadro. La psicosi dell’informatore è esistita e probabilmente in certi momenti e in certi posti è stata fondata.

In proposito mi ricordo che prima di partire per la borsa di studio andai a parlare con Rossana Rossanda che è stata il mio mito del giornalismo, di tutto, e lei mi disse:

Senti cara, tu non parlare mai al chiuso nelle case ma vai per esempio in un parco, in uno spazio aperto. Non parlare al chiuso perché è spiato”, cioè mi voleva dire: ci sono le cimici.

E allora quando sono andata lì ero sicura che c’erano spie da tutte le parti.

Per un attimo mi pare di stare davanti al corrispondente femminile di Robert Redford dentro “I tre giorni del Condor”.

Questo lo diceva lei ma non era vero.

Ah ok, allora davanti ho ancora la signora napoletana che conosco.

Tieni conto che all’epoca c’era il caso Padilla in corso, un caso complicatissimo, che magari ti spiego la prossima volta, ma in sintesi questo scrittore fu accusato di essere un controrivoluzionario.

Bene, io abitavo proprio a fianco a Padilla. Quella foto che hai pubblicato la volta scorsa di me e di quella mia amica sovietica, è scattata a pochi metri dalla sua casa.

Allora una volta Padilla mi diede delle lettere da portare alle figlie che stavano a Madrid e se ci fosse stato tutto questo spionaggio mi avrebbero almeno fermato. Perché avrebbe potuto scrivere in una lettera in cui lanciava qualche accusa: “mi tengono prigioniero, mi hanno torturato”, che ne so, invece non mi hanno detto assolutamente niente.

Quello fu un caso emblematico, complicatissimo. Non hai idea di cosa successe: una grande parte degli intellettuali soprattutto europei si bisticciarono con la rivoluzione cubana, tranne Cortázar e Garcia Márquez.

Allora questo argomento vasto ricordatevelo che glielo chiediamo la prossima volta.

Sono stato ad ascoltare per circa due ore, e non sono riuscito neppure a dirvi tutto: la moka, pure se era solo da due tazze, di caffè ne contiene molto.

Intervista ad Alessandra Riccio, a cura di Francesco Paolo Busco

TRATTORIE STORICHE – Da Cibi Cotti (Nonn’Anna): un pranzo a Mergellina, un pranzo napoletano

26 novembre 2018

Sabato mattina sono sceso a piedi verso il mare.

È l’una passata, c’è vento di scirocco che alza le onde e la temperatura dell’aria. Sono un poco stanco e tengo fame. Inizio a tornare verso casa ma non sono del tutto convinto.

A via Caracciolo un signore aspetta il verde sulle strisce pedonali in pantaloncini e a torso nudo: lo scirocco non porta solo caldo, ma, avevo sentito, pure una certa dose di “spirito creativo”. Una signora con la nipotina in braccio lo guarda seduta sulla panchina di fronte. Le passo vicino, ci guardiamo e le dico: fa caldo. Lei sorride, e tutto ritorna normale.

Poi mi ricordo che qua vicino c’era un posto bello dove si poteva mangiare, stava dentro il mercato coperto, tra la Torretta e il mare, ci manco da molto tempo e sono curioso di rivederlo.

L’antica trattoria alla Torretta

Arrivo, entro nel mercato, è tutto uguale. In fondo, nell’angolo a sinistra c’è la porta del locale.

C’è gente che staziona fuori. Chiedo se è la fila o bisogna lasciare il nome. Sì è la fila, si aspetta, mi dice un signore.

Mi fermo dietro di lui e aspetto.

Qualcuno dopo un poco esce: ch’ casin’, mammà, a famme è famme. Dentro evidentemente c’è un poco di ressa, di confusione, non si capisce l’ordine, l’appetito fa confondere il rigore: è, detto male, quello che capisco che voleva dire.

Però il signore di fondo sembrava contento, un poco stressato ma contento.

Aspetto.

Poi arriva un altro avventore. Si mette in fila ma non troppo. Mi faccio subito l’idea che sia il classico esperto di file napoletane: arrivano dopo, ma un millimetro alla volta, con moltissimo garbo, dopo dieci minuti stanno annanz’ a vuje. La fame è fame, so’ d’accordo, e allora glielo dico: guardate che la fila però inizia lì. E indico il punto più lontano nell’universo dietro le mie spalle.

Allora lui si sposta indietro di qualche centimetro. Né più né meno di quelli che servono per rassicurarvi, che avete ragione, che lui sta dietro, nun ce sta problema.

Passa qualche minuto e la fila non si muove. Stamme tutt’ quant’ alla stessa distanza dalla porta dell’inizio di questa rappresentazione. È qua che arriva il colpo di genio, il tocco dell’esperto, del napoletano superiore: ma quello, sapete, il posto per uno sempre si trova, è se siete in parecchi che c’è problema.

Io sto da solo, mi sono messo dietro perché sono arrivato dopo, avete ragione, però qua, da soli, l’uso è che uno, se è cliente, se è della zona, se sa come funziona, non la città, assolutamente, ma proprio questo posto, si infila, ma non saltando gli altri, salta solo quelli che sono in tanti, capite, nun sta prevaricando, ha proprio tutto il diritto di entrare. Lui aveva detto le poche parole di prima, questa qui è la mia “traduzione”.

Io non gli dico se appartengo a un gruppo o sto da solo. Non gli dico proprio niente, penso.

Poi me lo chiede lui: ma voi in quanti siete? Pure io sto da solo.

E lui capisce che il gioco è fatto. Entra, ma non solo per lui, entra davanti per farmi da esempio, mi chiama con una mimica sottile, neppure con i gesti, ma neanche del tutto con le parole, forse lasciando un millimetro di spazio dietro di sé, per farmi posto, non lo so neppure io esattamente, forse con l’esempio.

Insomma mi ritrovo pure io che so trasut’ saltando gli altri, ancora nunn o saccio si agge fatt bbuon, però non mi sento molto in colpa, forse è molta più la fame.

È talmente abile, sicuro, c’ha il giusto tatto e totale visione che da adesso in poi lo chiamerò Virgilio, come la guida di Dante, e che a Napoli tiene la tomba a pochi metri da questo ristorante.

Un napoletano particolare, una specie di Virgilio

Bene, il mio Virgilio si avvicina al cameriere, gli dice che sta da solo, se ci sta un posto, anzi che pure sto signore sta da solo, se ci trova un posticino per due.

All’angolo più vicino alla cucina e al bancone c’è un tavolino libero; ci possiamo sedere. Ci porta le posate, i tovaglioli e tutto. Io nel frattempo seguo a Virgilio che sta al bancone dove si chiedono le pietanze per portarsele al posto.

Conosce i nomi di tutti i lavoranti, pure del cuoco, e gli chiede se c’è qualche piatto che mo sta uscendo. La pasta e fagioli ‘ o verite, è uscita in questo momento. E lui pare contento.

Un altro po’ di esperienza serve pure al bancone. Stiamo io e lui in seconda fila. Annnanz’ ce sta nu sacc e gente, in prima linea. Noi stiamo ad aspettare, soprattutto io.

Le persone che fanno i piatti dietro al banco si muovono veloci, velocissime, ma a dirvi il vero a me me pare che nun succere niente. Annanz a me ci sta sempre lo stesso signore. Non ho capito se sta pensando bene cosa vuole mangiare oppure nun riesce a intercettare l’attenzione della cuoca aret o bancone.

Virgilio invece, ma già lo avete capito, dalla seconda fila già ha ordinato il primo piatto, la pasta e fagioli fumante. Io so principiante e mi so fatto solo un’idea che vorrei la pasta e patate al forno, ma dalla seconda fila non ho le arti di Virgilio mago e ripenso alla frase di quel signore che uscendo, vi ricordate, aveva detto: che casino, ‘a famme è famme. Ora capisco. Il quadro piano piano si sta delineando. Virgilio, in piedi a fianco a me, ordina pure il secondo, ma mo che sto capendo sfrutto quel millesimo di secondo di attenzione rivolta più o meno nella nostra direzione per ordinare la pasta e patate. Olè, il gioco è fatto. Ci sediamo, e buon appetito.

Questo posto mi piace.

Questo è un posto dove uno entra da solo e poi mangia insieme ad un tavolo a volte con quattro persone che non conosce, mi inizia a raccontare il mago. E a me viene in mente Michele a Forcella, dove questo è uno dei motivi più belli, oltre l’ottima pizza, per andare.

Nonna Anna

Poi gli inizio a chiedere la storia di questo luogo. Mi ricordavo di una signora anziana che abitava in questo posto. Sì, nonna Anna. È morta l’anno scorso, mi dice. Io lo avevo letto proprio su questo giornale. È quella nel quadro qua sopra, poi aggiunge.

Da fuori, aspettando, avevo fotografato un quadro particolare. Era troppo distante per capire il soggetto ma sembrava interessante. Da lontano m’ero fatto l’idea che fosse il quadro di qualche regnante. In effetti non avevo torto. Nel quadro ha proprio la corona: era la regina di questo posto.

Negli ultimi tempi si sedeva proprio dove state voi, aiutava a preparare qualcosa, asciugava le posate, o comunque stava qui a guardarsi intorno. Aveva cucinato fino a tarda età. Solo negli ultimi tempi stava seduta e basta.

Gli chiedo quando ha aperto questo locale e chi. L’anno non se lo ricorda ma ad aprirlo fu proprio la signora. Lo chiediamo ad uno dei camerieri che si muovono nei centimetri liberi in mezzo alla folla. Negli anni ’50 hanno aperto. Nonna Anna all’inizio cucinava un unico pentolone enorme di pasta e fagioli. E fa con la mano un segno che da terra sarà più di un metro.

Il mio commensale poi continua: Io ho lavorato qui in zona per molti anni e venivo sempre a mangiare qua, mo ci vengo pure di sabato. Ogni tanto si vede pure qualche personaggio famoso, attori, mi fa il nome di un avvocato che non mi ricordo, pure Ferlaino con la moglie.

Vengo qui a mangiare le paste mischiate, i piatti semplici, perché pure nei ristoranti ormai è difficile trovarli.

La pasta e patate al forno è buona, solo non è più caldissima, aveva ragione Virgilio, pure questa volta, che bisognava prendere quello che era uscito al momento.

In giro non mi sembra di vedere turisti stranieri però italiani di fuori ce ne stanno.

Finisco il mio pranzo, mi trattengo un altro poco, poi lo saluto e gli auguro un ottimo proseguimento con il suo secondo.

Mi avvicino alla cassa, dico cosa ho preso e la signora fa il conto. Primo, acqua e coperto tre euro e cinquanta; sì, tre euro e cinquanta. E pagati sulla fiducia, senza nessuna nota, diciamo in autodichiarazione. Mentre prendo le monete le chiedo di nonna Anna. Ha una faccia molto bella la signora, se siamo quello che mangiamo qua state a posto. Sì, era mia mamma, la signora nel quadro e nelle foto. Dietro al bancone, laggiù vedete, adesso ci sta mio figlio, Ciro, il nipote.

A che ora aprite poi le chiedo, più che altro per il gusto di sentirla parlare, pure un poco forse per tornare un’altra volta in un momento con un po’ meno di folla. Apriamo verso mezzogiorno e chiudiamo quando è finito quello che abbiamo cucinato. Se venite tardi però vi dovete accontentare di quello che trovate.

Un posto così non può esistere ovunque, in altri mondi o c’è la fila o è assente, si ordina e poi si paga quello che dice il conto. In questa città le sfumature sono assai di più e amplificano la realtà di molto.

Esco, Napoli mi ha colpito ancora.

Poi qua stavo scrivendo: l’amo. Ma le dichiarazioni d’amore, se uno tiene abbastanza coraggio, non si fanno a parole. Perché creano un ostacolo a chi le riceve, che poi si sente in obbligo in qualche modo di rispondere. Allora l’ho cancellato e mi fido di voi, faciteme o favore: nunn ‘o iate a dicere a’ gente.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

INCONTRI – A Procida c’è la famiglia Di Candia: così si tramanda la tradizione dei maestri d’ascia

27 ottobre 2017

Ci raccontano quotidianamente del lavoro automatizzato, fatto dai robot, e dei posti di lavoro che scompaiono. Che resistono, per i costi bassissimi, solo in Cina, a spese però del tenore di vita dei lavoratori cinesi e dell’inquinamento delle loro città: “la fabbrica del mondo” ormai la chiamano. Allora noi andiamo a cercare i nostri artigiani, quelli che lavorano con le mani, ma pure con la testa e il cuore. La più bella specie di lavoratori.

Ci hanno detto che a Procida, alla Corricella, c’è una famiglia di maestri d’ascia: quelli che fanno le barche, di legno, per i pescatori.

Ci imbarchiamo da Pozzuoli, la giornata è bella, già il viaggio in traghetto merita l’uscita. Appena sbarcati una piacevole sorpresa: andiamo verso le biglietterie per informarci sugli orari di ritorno e … pare l’Olanda, ci sono decine di biciclette parcheggiate (molte a pedalata assistita), come nei parcheggi del nord Europa.

Bello: l’isola si muove più rapidamente del capoluogo in direzione della mobilità pulita.

Il borgo con le case colorate sta vicino e ci andiamo a piedi. Scendiamo la scalinata e, appena in basso, un gruppo di giovani che aggiusta le reti. Poi ci sono i ristoranti. Pesca e ristorazione, le due cose sembrano la stessa: stanno attaccati e sembra quasi che ci lavorino le stesse persone.

Camminiamo lungo la banchina, con il mare a sinistra, e leggiamo “piazzetta Massimo Troisi”. Dove abitava la Cucinotta nel film “Il postino”. In fondo dovrebbe esserci il cantiere.

Ecco la prima barca, a vela, con un piccolo albero, un Dinghy. Poi altre due stanno in fila indiana. Sapevamo che la famiglia Di Candia ama in particolare questo tipo di barche. Barchette di 12 piedi, meno di 4 metri, forse la prima barca a vela di piccole dimensioni ad essere usata per diletto. Negli anni ’20 ci facevano addirittura le Olimpiadi, e ancora viene usata: in Italia e all’estero le regate ce le fanno ancora. Le più nuove sono in vetroresina ma sono molti quelli che amano, e ci navigano, quelle di legno.

Davanti la porta c’è un giovane con gli occhiali: buongiorno, Rosario; eccoci siamo arrivati. Ci guardiamo un attimo in giro, e cominciamo a parlare.

Noi ripariamo le barche per i pescatori, barche fino ad una certa lunghezza, almeno in questo posto. Se si tratta di lavori su barche grandi li facciamo ma appoggiandoci in qualche altro cantiere. Questo angolo dell’isola è una specie di merletto, non si può invadere con grandi strutture. Vicino al banco da lavoro c’è il padre di Rosario, Salvatore, che, ormai in pensione, sta costruendo un modellino di galeone. Quella dei Di Candia è una tradizione familiare. Il nonno Vincenzo era comandante sulle barche a vela da ricchi, i classe “J”, quelli che negli anni ’30 si disputavano la famosa Coppa America; barche bellissime, slanciate, di più di 20 metri.Nel frattempo lo vengono a chiamare:

Don Salvato’ ci sta la barca per la festa di stasera che si dovrebbe armare, sulo tu ce può da’ na mano.

Stasera c’è la festa di San Michele, la prima edizione, e qui nel porto c’è ormeggiato un grande gozzo a vela. Solo che le vele le avevano tolte, per semplificare andavano solo a motore; oggi per la festa la vogliono rimettere in pieno splendore.

Don Salvatore: Ma nun se po’ ffà accussì veloce.

E si, don Salvatò, sta tutt a bbuord, nun’ ce manca niente: la randa , i fiocchi, nun ce vo assai tiempo.

Vabbuò, iamm’, mo vengo a verè

E il modellino resta fermo, per ora rimane a navigarci sopra soltanto una matita.

E noi ci facciamo raccontare da Rosario questa tradizione dei Dinghy:

Mio padre Salvatore, da ragazzo, quando cominciò ad apprendere i rudimenti della vela, a Posillipo, si appassionò a questa barca. Era il suo sogno averne uno; dopo anni finalmente riuscì a comprarlo, ma da rimettere in sesto.

Negli anni successivi abbiamo fatto ricerche e siamo riusciti a scoprire che è stato costruito a Napoli, a Santa Lucia, nel 1934, dal maestro d’ascia Domenico Fiorentino. Era un costruttore molto apprezzato all’epoca: lo chiamavano “matrtelluccio d’oro”. Ce l’abbiamo ancora, è tutto in legno, pochi anni fa lo abbiamo di nuovo rimesso perfettamente a posto.

Ah, e lo dobbiamo vedere.

Sta la vedete, sopra il soppalco.

In effetti sopra il soffitto dell’officina, spunta la poppa di una piccola barca. Si legge pure il nome: c’è scritto “Hombre”.

Chiediamo a Rosario se si può salire. Rosario inizialmente è un poco restio, ma vede che la cosa ci piace troppo e allora cala la scala a pioli, l’appoggia al muro e ci fa salire. Legno, luce di una stanza col soffitto a volta, polvere pure (ma ‘sta polvere sembra diversa, a Procida, mo penserete che stiamo esagerando, ma pur’ a povere pare pulita).

E’ una bellezza, in perfetto stato. Si vedono le parti nuove, ma senza contrasto; il boma, l’albero. E’ bella già a vederla qua sopra, in acqua, con le vele issate, adda essere nu spettacolo.

A fianco, parallela, vediamo un’altra barca; simile, ma non proprio. Rosario, e questa?

Questa l’abbiamo costruita noi da zero. E’ un po’ un incrocio tra un Dinghy e una barca da pesca. Le misure, la lunghezza, lo specchio di poppa sono gli stessi del Dinghy, però per esempio la prua vedete, sale inclinata invece che verticale.

Pure questa barca ha belle proporzioni. Pure questa sarebbe bello rivedere a mare.

Riscendiamo dentro l’officina.

Rosario come il padre Salvatore, si è diplomato all’Istituto Tecnico Nautico “Francesco Caracciolo” di Procida. Dopo una settimana che ero imbarcato, mi ricordo, piangevano tutti, allora capii che la mia strada era quella di mio padre, del costruttore, non del marinaio; che non valeva la pena rinunciare ad una eredità di conoscenze che mi era stata tramandata da mio padre su come costruire barche, per vivere sulle navi.

Attaccate al muro ci sono delle sagome di legno: degli scafi in miniatura. Rosario ci spiega che quelli sono dei modelli. Per progettare una barca loro partono da lì, da quel modello, perché così si vedono le linee d’acqua: si capisce davvero se la barca cammina.

Poi mi fa vedere un modello che è stato tagliato a fette (poi lo ha rincollato) e da quelle fette, poggiate sulla carta, ha ricavato il disegno delle varie ordinate.

Oggi per progettare le barche si usano i computer: si creano disegni di un modello tridimensionale, ma solo il modello reale può davvero rendere la tridimensionalità; quelli al computer sono solo disegni, in prospettiva, ma in realtà sempre a due dimensioni.

E quella dei modelli è un’attività che Rosario sta sviluppando ultimamente. Le manutenzioni alle barche vere gli lasciano tempo libero per quest’altra attività. Anzi insieme con la fidanzata, Morena, ha pensato ancora più in grande. Si chiama “Stella Marina”: su un piccolo palco, fatto a forma della tolda di una nave, saliti su una scaletta, si può vedere lui mentre costruisce i modellini delle nostre barche tradizionali, e se vi piacciono li potete comprare. Morena poi, con i piccoli pezzi di legno che rimangono dalle lavorazioni di modelli e barche, invece sapete cosa fa? Crea, per le donne, piccoli gioielli.

Nuove idee per continuare ad essere artigiani.

Salutiamo Rosario e ritorniamo verso il porto. Ecco la barca a vela che era andato ad armare don Salvatore, pronta per la festa di stasera.

Le vele sono issate. Con lo sfondo del borgo dietro sembra una foto d’epoca a colori. Un gruppo di turisti tedeschi, con la guida, si riposa e sta lì a guardare.

Ah, oppure potete provare a spedire il vostro gozzo da riparare in Cina; ma non sono esattamente sicuro che ve lo sanno aggiustare.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

BENI COMUNI – A Napoli “L’Asilo”, modello e riferimento sul tema usi civici

19 marzo 2019

Tutti sanno che la zona di via San Gregorio Armeno, a Napoli, è unica nel mondo, che ci si può trovare un’altissima concentrazione di artigiani del presepe.

Bene, benissimo, c’è un’altra cosa però proprio dentro l’edificio a fianco al convento che porta il nome di quel santo, che è particolarissima, addirittura fa scuola in Italia e in buona parte del mondo, si chiama Ex Asilo Filangieri.

Qualcuno lo conoscerà, qualcuno molto bene, altri penseranno che invece è un centro sociale occupato.

Bene, l’Asilo è una grande palestra di vita civile, di comunità e pure di diritto.

Si trova in un edificio di proprietà del Comune di Napoli, che viene però gestito, con esplicita approvazione comunale, dai cittadini, direttamente e, bisogna sottolineare, non da una qualche particolare associazione, o gruppo, o fondazione, ma semplicemente dagli abitanti, tutti, pure se solo di passaggio, che vogliono partecipare.

Mettiamo il caso che voleste presentare un libro, oppure produrre uno spettacolo teatrale e vi serve un posto adatto, grande, disponibile senza pagare. Sembra ‘na cosa un po’ fuori dal mondo, almeno da questo nostro occidentale, e invece se ci andate un lunedì verso le sette di sera potete proporre all’Assemblea (cioè alle persone che sono lì, come voi, in quel momento) la vostra idea.

L’Assemblea

Noi ci siamo andati per vedere se era vero.

C’è l’ordine del giorno proiettato sullo schermo; se non siete in quell’elenco di proposte però magari vi fanno aggiungere anche al momento.

Si va in ordine di prenotazione. C’è l’interessato che parla brevemente della cosa, e gli altri che controllano sui loro cellulari o via computer se c’è posto e quando, per la vostra proposta. Dipende soprattutto da quanto tempo vi serve, e quale spazio, a che ora.

Si vede subito che hanno pochissime barriere: cercano semplicemente di fare in modo che succeda. Ecco, l’unico controllo che fanno, o che magari vi invitano a fare voi stessi tornando di mercoledì, quando si riuniscono i tavoli più specifici dei vari spazi (il laboratorio che costruisce – loro lo chiamano Armeria ma di armi non ce ne sono -, il Teatro, il Cinema, l’Orto, la Biblioteca, il Refettorio), è se ci sono le possibilità concrete di realizzarlo, e se magari c’è qualcuno a cui la vostra idea piace quanto a voi e vuole aiutarvi.

Mi hanno raccontato che a volte da quei tavoli l’idea trova molti altri spunti, si integra, cambia un poco, si ingrandisce e si trasforma. È così per esempio che dalla proposta di un collettivo brasiliano di artiste di fare una piccola fiera di editori indipendenti, piano piano, parlandone, con l’aumentare delle connessioni, sono venuti fuori dieci giorni di eventi.

Loro la chiamano interdipendenza, perché il loro obiettivo, o uno di quelli principali, è svincolarsi sì, dalle dipendenze dal meccanismo economico, competitivo, egoistico, però anche tendere a creare in collaborazione, interdipendentemente.

Anche le decisioni, tutte, non vengono prese né da uno, né da dieci e neppure a votazione. Questo c’ho messo un poco di tempo a capire come; poi all’assemblea forse l’ho visto avvenire.

L’idea è che si discute fino a che non sono tutti d’accordo. Ma non è che si discute tutto in una volta fino allo sfinimento. Se non c’è nessun problema particolare la risposta è , usuale. Se invece c’è qualche difficoltà, o qualcuno è in disaccordo, si parla finché si riesce, poi magari si rimanda ad un altro giorno.

Certo per fare questo ci vuole più tempo, ma la qualità che viene fuori è quello che qui stanno cercando. È una palestra civile, in cui non conta il quanto, non conta neanche moltissimo esattamente il cosa, conta moltissimo per chi sta qui dentro il come si arriva al risultato finale.

Sono venuti, negli anni, dagli Stati Uniti, dall’Olanda, dal Belgio, da tutta Italia a vedere questo posto, a studiarlo, li hanno invitati altrove ad esporre questo nuovo modo di gestire spazi di tutti oppure sono venuti loro qui a prendere ispirazione.

L’Assemblea Nazionale dei Beni Comuni

Mo pensate che stiamo esagerando, amplificando soltanto. E invece proprio poche settimane fa si è tenuta qui l’Assemblea Nazionale sui Beni Comuni.

Siamo andati a vederla per cercare di annusare che aria davvero si respira, oltre le dichiarazioni.

Arrivo la domenica mattina e l’appuntamento è dentro al Teatro, al secondo piano del palazzo.

È un ambiente accogliente, grande, ben costruito: ci sono gli spalti sopraelevati, tutta la strumentazione audio e per le luci, il palcoscenico in fondo con tutte le funi.

Arrivo e mi chiedono semplicemente il nome e a quale dei tre tavoli vorrei discutere: quello sul Fare Comunità, quello Legislativo o quello sulla Piattaforma digitale.

Il motivo per il quale hanno pensato quest’assemblea è anche legato ad un fatto giuridico. Qualcuno sta proponendo a livello nazionale un regolamento, una legge ad iniziativa popolare, che sembra solo nel titolo occuparsi dei posti come questo, cioè dei beni comuni. In realtà se passasse, dicono loro, poiché dà delega al Governo (legge delega) di occuparsi del tema senza fornire chiare indicazioni (né condivise con quelli che negli ultimi anni hanno lavorato sul tema), su limiti e direzione da seguire, potrebbe avere effetti addirittura deleteri.

E allora l’idea, secondo il loro metodo, che è la cosa più bella e più nuova, è discutere, insieme, un’altra proposta. Ecco perché l’Assemblea. Però insieme a tutti e allora Assemblea Nazionale.

Poi qualche giorno dopo, per cercare di capire di più, chiedo ad uno di quelli che questo spazio lo “attraversano” (come dicono loro, perché abitarlo dà già idea di possesso, che è quello che qui non si vuole), perché quest’Assemblea proprio a Napoli?

Mi risponde semplicemente: perché l’Asilo, questo, a Napoli, è stato il primo che è riuscito davvero a realizzare queste cose. È da qui che è nato questo nuovo modo di pensare, cioè quest’idea di provare, di tendere, ad avere delle dinamiche di gestione di beni pubblici diversa, mai vista prima su questo genere di cose.

Una palestra di gestione

Poi Cesare mi racconta molto altro. A noi non interessa, o almeno questa è la mia visione, avere uno spazio pacificato, un posto dove tutto sembra scorrere liscio ma in realtà solo in superficie.

A noi serve che se il conflitto, la divergenza di opinioni, c’è, che venga fuori. Così ne possiamo parlare, possiamo portarla, per risolverla, dentro l’Assemblea.

Addirittura sai cosa è successo una volta? Era venuto fuori un classico caso che noi chiamiamo ormai di “spirito proprietario”. Cioè ogni tanto può capitare che magari qualcuno rovina qualche strumento di produzione, e allora qualcun altro se la prende un sacco. Certo è comprensibile, perché magari aveva contribuito quello strumento a crearlo, però non è così che dobbiamo fare. L’idea, quello che vorremmo, se non proprio ci riusciamo esattamente però almeno la tensione vorremmo che sia quella, che nessuno si senta padrone dentro queste mura. Infatti non c’è neanche nessun affidatario.

E allora quella volta, appena l’argomento è venuto fuori, se n’è cominciato a discutere, ma non ancora in assemblea, semplicemente nei corridoi.

E piano piano così si è risolto, in maniera ancora più informale, parlandone a piccoli gruppi tra di noi.

Dentro l’Asilo, mi dice, non c’è neanche una divisione dei ruoli. Neppure un’attribuzione passeggera. Certo, quando si deve realizzare qualcosa, ognuno partecipa secondo le sue competenze, ma non creiamo gerarchie, cerchiamo solo buone collaborazioni.

Non so se sono riuscito a spiegarvelo bene, forse è una cosa troppo nuova, sottile e bella oppure è una cosa così semplice che per crederci davvero bisogna vederla.

Quello che vi posso dire è che all’assemblea nazionale c’erano oltre trecento persone dall’Italia e dal mondo (Bogotà, Tolosa, Londra, Marsiglia, Bolzano, Parma, Terni, Pozzuoli, Viterbo, Torino, Altamura, Spoleto, Pescara, Palermo, Pisa, Roma, Venezia, Mondeggi, Benevento, Caserta, Lanciano, S. Vito Chietino, Sambuca Pistoiese, Firenze…) e 43 spazi autogestiti o gruppi.

Sette anni dalla occupazione simbolica

Dal 2 marzo del 2012, quando si decise di fare un’occupazione simbolica di questo posto che doveva durare tre giorni, sono trascorsi sette anni e quest’Asilo a noi sembra tra le più belle invenzioni.

Qui dentro ci sono la sperimentazione artistica, quella del modo di decidere, di interagire, e quella legale: perché per poter gestire questo posto in questo modo si sono inventati un nuovo istituto giuridico, quello di bene comune ad uso civico collettivo urbano.

Ci raccontano spessissimo di progressi materiali, tecnici. Le fanno passare come grandi invenzioni, ma forse a noi servono progressi evolutivi interni alle persone, più che nuovi beni ipertecnologici materiali. Questo, come sta scritto sul cancello, è il posto della comunità dei lavoratori dello spettacolo e dei beni immateriali (che dovremmo essere tutti), l’Asilo, e a noi sembra una delle più belle scuole. Ci sembra un posto avanzatissimo, anni luce più avanti della Silicon Valley.

Questo è il loro sito, qui trovate il regolamento sviluppato insieme alle istituzioni del Comune. Ci hanno detto che nell’ultimo giorno in cui l’hanno scritto, a Napoli, non si riusciva più a riconoscere, seduti ai tavoli, chi era dell’Asilo e chi della Giunta comunale.

Sembra che all’inizio di quell’occupazione di tre giorni, sul portone avessero scritto: Arrendetevi siamo pazzi. Quelli che li assediavano si sono arresi, loro, fortunatamente per noi, non sono ancora guariti del tutto.

A San Gregorio Armeno, lo sanno tutti, c’è una cosa bellissima, patrimonio del mondo, unica. Venite!

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

TRA LE TERRE MUTATE – A tre anni dal terremoto siamo stati a Norcia e Pescara del Tronto

24 agosto 2019

So’ tre anni che c’ho addosso come ‘no scoraggiamento”.

Mi è rimasta impressa questa frase.

Scendendo, quest’estate, un po’ in giro per l’Italia, dalla Toscana verso sud, avevamo l’ idea di andare a vedere di persona anche alcuni paesi dell’ultimo terremoto. Arquata del Tronto, Accumoli, Norcia della Basilica di San Benedetto che in televisione si vede cadere l’ultimo pezzo che aveva resistito alla prima scossa forte. Sono nomi che suonano nella testa familiari anche senza esserci mai stati.

Norcia

Arriviamo a Norcia e si parcheggia fuori dalle mura. La porta del paese è puntellata coi tubi. Si entra a piedi e la strada è dritta, arriva fino alla piazza della basilica che coincide con la piazza principale e sbuca dall’altro lato in un’altra porta. In mezzo un sacco di ristoranti e negozi, molti, dopo tre anni, ancora chiusi. Sulle loro porte c’è quasi sempre un cartello che dice in sostanza: ci siamo trasferiti fuori.

Hanno costruito, subito fuori dalle mura, in legno e vetro. A tante travi. Più tardi, a cena, in alcuni di questi locali, di gente ne vedremo parecchia.

Invece dentro il paese, dai quattro angoli delle finestre quasi sempre partono le lesioni che spaccano i bordi delle porte. Hanno messo dentro ogni vano una X di legno molto forte per aiutare il tutto a mantersi in piedi. Poi ci sono le travi d’acciaio fuori e i puntelli di funi.

Un carretto aperto di pasticciere sta davanti al negozio chiuso con lo stesso nome. Adesso vendono i loro dolci come se fossero ambulanti ma stanno sempre fermi in quello stesso metro di strada, davanti alla vecchia insegna del loro locale: ad Assisi subito hanno ricostruito, qui a Norcia sono passati tre anni e ci hanno lasciati praticamente soli.

Sui lenzuoli stesi lungo le vie c’è scritto in rosso la rabbia per l’abbandono che sentono gli abitanti; sul muro di ferro che corre lungo la basilica: “Vergogna”, e qualche giorno fa per questa scritta qualcuno ha sgridato l’autore: dice che è vandalismo. Forse bisognerebbe guardare meglio al peso relativo delle cose. Ogni tanti metri mentre si cammina uno legge questi lenzuoli, guarda intorno, e cerca di capire.

Norcia

Ma è il giorno dopo che sento quella frase.

Pescara del Tronto

Stiamo andando verso Arquata del Tronto, ma prima, lungo la strada, c’è Pescara, una frazione. Le prime case crollate quasi del tutto. A fianco un albero perfettamente in piedi.

Pescara del Tronto

C’è un giardinetto con i giochi per i bambini: dentro stese tante magliette con ognuna una foto. Poi capisco che sono quelle degli abitanti del paese che quella notte del 24 agosto 2016 non hanno più lasciato questo posto.

Andiamo un po’ più avanti con la macchina. Mi fermo a fianco ad una casa che ce n’è solo una parte.

Attraversiamo la strada per guardare verso il paese che sta subito sotto. Quando esco dalla macchina mi viene incontro un cane. Non abbaia, neppure quando mentre mi cammina attorno, non lo vedo e gli calpesto una zampa. Venti metri più avanti, sull’altro bordo della strada, c’è un signore. È troppo buono, è il cane suo.

Gli chiedo se è del posto. E sì, vedete, la mia casa stava proprio qui in basso. Venite, tra gli alberi, si vede un poco. Il trattore sta ancora lì sotto.

Non potete più farlo salire?

Non c’è più neanche la strada.

Guardo avanti a me per cercare qualche riferimento, qualche traccia di dove passasse quella strada ma non ci riesco.

Sbalzati fuori

Quella notte a casa eravamo in quattro: mi hanno tirato fuori dalle macerie mio fratello e mia cognata. Se passava un’altra mezz’ora o un’ora credo che restavo senz’aria.

Loro due sono stati sbalzati fuori dal terremoto. Dice proprio così: “sbalzati”, come se si fosse trattato di una cosa, potente, veloce, come un incidente d’auto, quanto si deve essere mossa la terra alle 3.36 di quella notte.

Parlando con lui alla fine capisco che Pescara del Tronto è quel cumulo sparso di macerie sul fianco della collina davanti a noi in basso, un poco a destra.

Pescara del Tronto

Sono passati tre anni ma se guardate intorno sembrano passate un paio d’ore. Le rovine stanno lì, sparse uniformemente. Il paese sgretolato a caso.

I lavori di sgombero delle macerie erano cominciati, poi li hanno interrotti perché pare che la ditta avesse problemi di camorra. Mo stanno ricominciando e stanno lavorando meglio. Quelli di prima portavano semplicemente via tutto, adesso prima cercano se ci sono oggetti da recuperare e restituire alle persone.

E adesso dove state?

Molti hanno accettato il sussidio e stanno in fitto nei paesi vicino al mare. Molti con i bambini che ormai vanno a scuola, figuratevi se tornano. Io e altri due abbiamo qui sopra, in quella tensostruttura, delle pecore. È un scusa per tornare qui. Per camminare ogni giorno vicino al paese, io penso.

Camminare nel paese è impossibile, non ci sono più le strade. Prima neppure dove siamo adesso si poteva stare. Adesso è più facile. All’inizio ogni volta bisognava mostrare i documenti di residente per passare.

Adesso abbiamo le casette di legno, giù nella valle, vedete, a qualche chilometro laggiù in basso, c’è tutto, però non abbiamo più il paese, e le persone soprattutto. Il trattore si può ricomprare, le cose non sono un problema grande, ma le persone chi te le restituisce?

Le casette sono provvisorie. Il paese lo vogliono ricostruire un po’ più avanti sempre laggiù: hanno fatto i sondaggi del terreno e dicono che è buono.

Faccio caso adesso che in mezzo alle case distrutte, sotto, sembra un poco come di sabbia, chi sa se ha a che fare col nome di questo posto: ”Pescara”. Forse c’era un fiume.

Abbiamo parlato una mezz’ora e lui guardava quasi sempre verso una direzione: dall’alto della strada davanti in basso, verso la sua casa.

Poi poco prima che ci salutiamo mi dice quella frase: “so’ tre anni che tengo addosso come uno scoraggiamento”.

Lo saluto, fingo di dimenticare che l’ho già fatto, e la mano gliela stringo una seconda volta.

A Pescara del Tronto, di circa centotrenta abitanti, quella notte ne sono rimasti per sempre fermi più di quaranta, la quarta persona in casa era sua mamma.

Diamogli un’idea, una prospettiva bella, a lui e a tutti i nostri paesi dell’Italia interna, ne hanno bisogno.

Il cammino nelle terre mutate

Il cammino nelle terre mutate

Alcuni ci stanno provando: quando scendiamo nel fondo valle a vedere le case provvisorie, nel bar, provvisorio anche quello, trovo sul bancone una guida escursionistica. Hanno creato un itinerario da percorrere a piedi, si chiama “Il cammino nelle terre mutate” va da Fabriano a L’Aquila in 14 tappe, ci sembra un ottimo modo per rimettere le energie in moto, per riconnettere le persone e i luoghi, per farsi coraggio a vicenda e ripartire in una bella direzione.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)