È la Pedamentina di San Martino che in circa 25 minuti dal Vomero (dal piazzale della Certosa di San Martino) vi porta:
1) se, arrivati a corso Vittorio Emanuele, girate a sinistra e poi prendete la scala di Montesanto: alla stazione della ferrovia Cumana e della Funicolare di Montesanto.
2) se, arrivati a corso Vittorio Emanuele, girate a destra per pochi metri e poi prendete vico Trinità delle Monache (ex Ospedale militare): vi ritrovate a via Pasquale Scura cioè al primo metro di Spaccanapoli, che vi conduce nel cuore del Centro storico
Flygskam è una parola che gli svedesi hanno coniato da alcuni anni, significa: vergogna di viaggiare in aereo, perché sembra che gli aeroplani inquinino moltissimo.
Quasi tutti i giorni il telegiornale ci dice pure che migliaia di persone nel mondo, migranti, in molti modi, non in aereo e non per turismo, da un continente all’altro, si muovono.
E se di queste due cose così grandi, problematiche, ne facessimo una soltanto? Forse ritornerebbe guardabile, possibile, di dimensioni e senso umani.
Allora ho pensato di fare il giro del mondo senza muovermi, da una città, per esempio la mia, Napoli.
Bene,
l’idea mi pare abbastanza strana, mi può interessare, da dove
iniziamo a viaggiare?
C’è un posto del mondo che molto tempo fa veniva chiamato Serendip, poi da quella parola è venuto fuori un vocabolo, quasi di moda, serendipità: trovare qualcosa, bella, sorprendente, mentre ne stai cercando un’altra completamente differente.
Un esempio? La penicillina.
Serendip è il nome antico dello Sri Lanka e allora mi sembra un ottimo posto da cui iniziare un giro del mondo, se è vero che i viaggi occorre farli essendo più aperti possibile a lasciarsi spiazzare.
Mi accompagnate?
Giorno 1, giovedì 5 dicembre 2019, mattina
Scendo da casa a piedi in direzione metro, ma il biglietto che ho usato mille volte, Unico corsa singola, costo poco più di un euro, stamattina mi sembra quello del volo aereo più intercontinentale del mondo. E pure questa camminata fino alla stazione della Linea 1, l’avrò fatta due milioni di volte, da casa allo stadio Collana, quello col discobolo fuori, mi sembra il tragitto per andare al check-in di un aeroporto internazionale enorme. La sento nel ritmo del respiro, anzi nella tensione dei muscoli del petto, l’emozione di questo viaggio orientale.
Scendo le prime scale, marco il biglietto, però il tornello mi pare il cancello di imbarco. Continuo a scendere e percepisco lo spostamento d’aria del treno che sta per arrivare, allora accelero; subito prima dell’ultima curva il fischio dei freni, sprint finale: imbarco avvenuto, al gate, al volo, all’ultimo istante.
Dentro il vagone, davanti a me, seduto, c’è un signore dal colorito tipico delle persone di quella nazione. Il fatto strano è che tutti gli altri in questo momento mi appaiono viaggiatori, turisti, forestieri come me, e lui quello che in questo posto ci abita davvero.
Lo penso da parecchio che il mondo diventa come ce lo immaginiamo, non dovrei dirvelo perché ho sentito che i cronisti di viaggio scrivono semplicemente il vero. A me però, stamattina, il vero, scusatemi, ma mi pare questo.
“Next stop piazza Dante, exit on the left”: ‘o verite? pure la voce automatica dentro al vagone oggi ha l’accento straniero.
Esco sulla piazza, la statua del Poeta fiorentino neppure la vedo. Sono le 12.40, è un po’ presto per quello che ho in mente, penso che è una cosa utile se vado a cercare una guida turistica del Paese, come uno fa di solito prima di partire o appena sceso dall’aereo.
Cerco tra le bancarelle dei libri di Port’Alba. Ma non trovo niente.
Vi devo dire che quella di cercare era un po’ una scusa per ritardare la prova: non so come andrà questo viaggio, se arriverò a destinazione, se riuscirò a capire, a vedere, a “entrare in contatto” è la parola giusta per questa emozione. Se uno piglia il suo corpo, fisicamente, e lo sposta sul territorio dello Sri Lanka, mal che vada può sempre dire che quel viaggio lo ha fatto, pure se ha visto poco, se è stato tutto il tempo dentro un resort sulla spiaggia. Ma se uno invece resta quasi a casa, resta abbascio ‘o palazzo, e cerca un contatto, lo spostamento forse diventa molto più sottile, delicato, vasto.
Mi ricordavo di essere stato alcuni anni fa a mangiare da queste parti in un posto due o tre volte. Una specie di tavola calda singalese dove, se volete, potete pranzare pure in pace, seduti al piano inferiore. Mi pare una buona idea per trovare un punto d’accesso, per iniziare dal corpo pure forse: sentendo il gusto della cucina di quel posto. Poi lì magari avrò l’occasione di parlare con qualcuno di loro. Il cibo, una chiave d’accesso, un luogo, un ponte?
Entro e ci sono poche persone, saluto e chiedo se è un locale dove si mangia singalese, mi sorridono, dicono che è giusto. Cerco di capire che pietanze sono: stanno esposte in una vetrina nel bancone una quindicina di ricette di un sacco di colori.
“Lenticchie brodose”, mi hanno detto, poi una specie di fagotto triangolare con dentro le patate, una ciambella con le alghe: inizio da qualche parte. Mi siedo a un tavolino fisso al muro.
Questo fagotto (poi vi dico il nome vero, appena lo capisco, quello che suona come lo hanno inventato loro) è molto buono. È soffice, speziato, sostanzioso, molto piccante. Poi assaggio la crema di lenticchie. Mentre mangio penso che ho sbagliato a sentire: chiedo se ci sono per caso dentro i ceci, allora una signora che è venuta nel frattempo, mi dice che sono davvero solo lenticchie, però gialle: ci metto un po’ a comprendere che loro le lenticchie per fare questo piatto prima le sbucciano. Vabbè detto così sembra complicato ma poi scopro che se volete si vendono già fatte: le famosissime lenticchie decorticate. E allora il colore è molto chiaro e pure il sapore è molto più leggero. Buonissime, ve lo posso dire.
Poi chiedo di provare una
di quelle ciambelle che pure sembrano invitanti.
Nel frattempo arrivano altre persone, il locale è abbastanza pieno. Vengono e prendono dei vassoi di alluminio con tante cose una vicina all’altra, anzi una sopra all’altra proprio che non c’è più spazio, come i vassoi di pasticceria mignon dei nostri pranzi domenicali più abbondanti.
Sto mangiando e sono un po’ distratto, però sott’occhio lo vedo che chi entra un poco si sorprende, e pure lui mi osserva: ecco, sono davvero, un po’, in un Paese straniero.
La signora che mi ha spiegato le lenticchie mi racconta che vive a Napoli da venticinque anni. Che qui in molti abitano in tanti. Che spediscono i soldi nel Paese di origine per far vivere bene madri, padri, fratelli, nipoti. E magari loro invece vivono stretti, con pochi soldi, un po’ stentati.
Però sorride, un sorriso dolce con uno sguardo vivo, forse appena triste. Ha un buon lavoro ma capisce gli altri. Le racconto che anche noi italiani abbiamo fatto questa cosa negli anni passati. Adesso ripensandoci mi accorgo che ho quasi mentito, perché dal sud la facciamo ancora, non proprio uguale ma, giovani, in molti.
L’ho fatto io stesso, adesso sono dieci anni, e questo posto, mo che ci penso, mi ricorda la pizzeria da asporto di Middelburg, in Olanda, dove andavo a mangiare i piatti italiani del mio amico Vincenzo, nato a Torre Annunziata, sposato, con figli, in Zelanda da molti anni. La bandiera singalese qui ce l’hanno appesa, di stoffa, fuori. Vincenzo la teneva distesa su tutte le pareti interne del locale nelle mattonelle di una lunga striscia tricolore.
Poi mi dà alcune dritte su dove andare a guardare, vedere, incontrare: c’è una comunità forte in questa zona, sì, siamo partiti bene, poi una alla Sanità, in zona piazza Cavour. Poi mi dice di una scuola un po’ più in alto di dove siamo, e che magari se incontro un monaco buddhista, singalese, pure può essermi utile per capire un po’ di cose.
Ogni tanto entra qualcuno
e saluto.
Sorridono queste persone e sembrano incuriosite. In tutto il tempo che sono stato lì, di persone pallide come me ne ho vista entrare una soltanto.
Poi un signore che pure lui sta mangiando in questo posto, chiede di avere un bicchiere di qualcosa che sta dentro un grosso thermos su un lato del bancone. Chiedo informazioni alla signora che sta davanti a me, aspettando il suo turno. Lei non sente quello che le dico, allora la figlia, piccola, avrà sette anni, lei mi ha sentito bene, tira la manica della mamma per dirle che le parlo. I bambini a volte sono meno imbarazzati dei grandi. Sì, quello è tè, dentro il thermos. E capisco che la piccola birra che ho preso dal frigo non era la scelta più tipica che avrebbero fatto nel Paese che sto visitando.
Pago, saluto, ringrazio ed esco. Ora che un po’ sono entrato nel viaggio vedo se trovo altri luoghi singalesi nei dintorni. Mi inoltro lungo questa stessa strada, via Correra, ‘o cavone e piazza Dante, salendo.
Ai muri ci sono i manifesti in questi caratteri rotondi. Sembra una specie di cinese o di greco ma con gli spigoli curvi. Sono mischiati con i cartelli in italiano. I loro colori sono molto più forti.
Il primo che avevo visto, proprio all’inizio del vicolo, entrando, sembrava una specie di manifesto comunista, rosso, col martello inclinato, senza falce.
Salgo e i negozi singalesi, i manifesti, i nomi, sono mischiati ai napoletani. Entro in un fondaco, ma solo qualche metro, per non venire risucchiato da questa specie di macchine del tempo, ancora vivissime, se è vero il fiocco azzurro che vola sull’ingresso.
Salendo salendo mi trovo a via Salvator Rosa. Mi pare di essere tornato a casa da un lungo viaggio quando vedo il traffico caotico di scooter, all’incrocio, in equilibrio magico in un qualche loro ordine perfetto.
Poi mi voglio reimmergere, almeno un altro poco, cercare questa scuola di cui mi hanno detto.
Chiedo davanti ad un negozio dei loro: lì, vedi, a pochi metri, detto con le consonanti addolcite tra la lingua e i loro bianchissimi denti. Sopra un portone c’è un grande cartello: Saint Anthony’s International School.
Entro mentre escono i bambini coi genitori per mano. Una ragazza mi indica con l’ascensore il piano. Prendo appuntamento per domani, alle dieci. Vedremo cosa ci riserva la seconda parte del viaggio.
Nel frattempo mi è capitato di incontrare, un pomeriggio, in un teatro, questa frase scritta intorno all’anno mille: “L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero”. L’ha pensata Ugo di San Vittore, un teologo e beato della chiesa cattolica, tedesco.
Io c’ho messo mille anni a capirlo. Ve la lascio.
Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)
(fine prima parte, continua, qui trovate la seconda parte)
Una volta all’anno a mezzanotte il mare di Napoli viene illuminato dalle fotoelettriche, quello a sinistra di Castel dell’Ovo. In acqua si vedono tante barche a vela. Tutte nello stesso posto, prima in disordine, ognuna arriva e si aggiunge al gruppo, poi piano piano che scorre il tempo una specie di ordine si forma, si avvicinano tra loro e cominciano a formare delle linee, si mettono quasi in fila. A mezzanotte meno tre secondi formano quasi una linea sola: è quella di partenza di una delle regate più antiche del Mediterraneo (si corre dal 1953. La Giraglia, la più antica, solo da due anni prima), si chiama Regata dei Tre Golfi va da qui a Ponza, poi si girano Li Galli e finisce a Capri. L’abbiamo vista molte volte questa partenza dalla costa, quest’anno invece ci siamo imbarcati. Napoli dal mare.
La festa comincia a terra. Le barche stanno tutte ormeggiate nel porticciolo di Santa Lucia, riempiono un po’ tutti gli ormeggi dei circoli nautici di Santa Lucia. L’organizzatore ufficiale è il Circolo del Remo e della Vela Italia (con la collaborazione dello Yacht Club Capri e del Circolo Canottieri Aniene) ma tutti gli altri offrono i loro posti per ospitare i velisti che vengono da fuori. Non è una regata di soli napoletani, vengono da tutt’Italia e oltre, c’è una barca che si chiama Gaetana 2 e sotto il nome c’è scritto London.
Ha fatto già alcuni giri del mondo, ci avviciniamo per guardarla. Ha linee enormi, tonde, però sull’acqua galleggia leggera. Un po’ si vede che ha navigato tanto, sembra levigata, non tanto la vernice, quanto la sua anima di nave. Da vicino si sente parlare l’equipaggio, qualcuno in inglese, altri in italiano.
Il VOR60 Gaetana 2
Prima della partenza qui è tradizione cenare tutti insieme. Ma anche in questo caso si danno una mano e le terrazze del Circolo Italia stasera non hanno confini, arrivano fino al circolo a fianco, diventano un locale unico, neanche ci si accorge quando si passa da uno all’altro. La commistione riguarda pure altro: si vede gente in cerata, pronta a navigare e le donne in vestito da sera col tacco alto. C’è una barca enorme a due alberi che adesso fa da punto di ristoro a terra e servirà poi anche per vedere la partenza dal mare. Un’altra barca, piccolissima, la più piccola a vela del mondo, anche offre il proprio contributo: dentro c’hanno messo le stecche di ghiaccio e le bottiglie da tenere in fresco, è un optimist, si chiama Falco.
I circoli sono spalancati, completamente aperti a chi partecipa alla regata di stanotte. Ci sono bellissimi saloni, i camerieri con le giacche bianche e i guanti un poco larghi. Efficientissimi, vanno in giro per i mille tavoli sparpagliati ovunque a rimettere le cose in ordine. I tavoli del buffet stanno pure ovunque, lunghi quanto l’elenco delle pietanze esposte. Vetrine, luci, marmi, coppe di regate vinte, pure il parquet scuro di legno; nel bagno del circolo c’è anche il bidet, mai visto in un bagno pubblico, secondo noi ce l’hanno messo apposta per ricordare che in questa città è stato per prima davvero utilizzato.
Alcune barche stanno ormeggiate proprio qui davanti, dai tavoli più vicini al mare si possono toccare.
Sono le 11 e bisogna cominciare a uscire: tutto l’equipaggio di Tattoo,
di Gino Paoletti, la barca dove siamo anche noi, sta davanti al bar del
circolo Savoia per pigliarsi il caffè prima di prendere il mare.
Andiamo. Saliamo a bordo. É tutto calmo, solo i barchini per trasportare gli equipaggi sulle imbarcazioni fanno la spola veloci tra un pontile e l’altro e guidano le barche nelle manovre in porto. Uscire tutti quasi in una volta dallo stesso porto è già un’impresa, occorre attenzione. Oltre il fanale di Santa Lucia il mare è calmo. Il faro da terra illumina di bianco gli alberi e gli scafi. La linea di partenza è parallela alla costa, dal lungomare si vede bene. Cerchiamo di capire dov’è meglio partire, mancano dieci minuti, poi 5, attenti, attenti… via.
Partiti
Tutto
è più teso adesso, è un filo che si è teso sempre di più da quando
siamo saliti a bordo fino a questo momento dove tutto è a tempo, il
percorso è fissato, ci si sfida a vicenda, chiedendo permesso al mare e
al vento.
Eolo ci ha dato aria per partire, ci accompagna da dietro, piano. Qui c’è la prima scelta da fare: andare verso il largo o rimanere più vicino costa. Quel poco vento secondo noi rimarrà a terra, e allora le navighiamo accanto. Altri sono andati al largo, vediamo le loro luci di navigazione, ma non sembrano molto veloci. Mergellina, poi Posillipo, la via omonima è una diagonale di luci gialle. Poi Nisida ed il vento è quasi fermo. Gli strumenti ci dicono che facciamo un nodo, a volte meno. Un nodo è la misura antica di velocità delle barche: si scioglieva una cima da poppa filandola in acqua, sulla cima c’erano tanti nodi, dopo un certo tempo si fermava, si ritirava a bordo e si contavano i nodi, quelli che si erano bagnati dicevano la velocità dell’imbarcazione. Oggi la calcoliamo elettronicamente ma un nodo è sempre pari a poco meno di due chilometri all’ora.
E infatti Nisida, il profilo nero, nel cielo sta lì da ore, la so quasi a memoria, datemi un foglio e ve la disegno. Eppure è un esercizio, questo, per chi naviga di sentire il più piccolo vento: la barca lo sente, e le vele, e si muove comunque.
A
bordo abbiamo i turni. Siamo in sei: la regata è lunga 155 miglia
nautiche, poco meno di 300 km, si naviga senza soste di notte e di
giorno e bisogna darsi regole per riposare e per chi sta sveglio. Alle
5.30 vado a dormire, il vento è leggerissimo, Capo Miseno è poco
davanti. Tre ore dopo, quando torno in coperta, siamo poco oltre, nel
canale tra Procida e terra, ed il vento adesso cala completamente. Il
vento si vede sull’acqua: dà delle increspature, dove l’acqua è liscia
non c’è movimento, dove è increspata, anche appena appena, l’aria la
tocca e lei rabbrividisce. Il vento sta davanti a noi, anche dietro,
dove si trova Tattoo c’è calma assoluta. Pazienza, si aspetta, guardiamo
dove converrebbe andare, ma non possiamo farlo. Barche velocissime ci
superano molto lentamente. Junoplano, un prototipo leggero, stretto e lungo, forme giuste per bave di vento, ci supera da poppa, lei riesce a camminare.
C’è
il tempo di scattare foto: l’acqua, liscia di un bellissimo colore,
l’isolotto di san Martino (ci viene idea di andarlo a visitare).
Verso
le 11 l’acqua si increspa, si sente fresco in faccia, il vento sale,
issiamo il gennaker, la vela grande per il vento quando viene da dietro.
Verso le 15 abbiamo passato Ischia, la direzione è per Ponza, c’è poco
vento. Poi piano piano rinforza. Da adesso ci teniamo fuori, non andiamo
più vicino costa, secondo noi l’aria adesso preferisce il mare, non sta
più vicino terra.
E credo che l’idea era giusta,
quando abbiamo passato Ventotene e già si intravede Ponza rivediamo non
lontane le barche che ci erano scappate quando eravamo rimasti nel buco
di vento di Procida. La costa di Ponza è uno spettacolo di luce calda,
navighiamo bene lungo questa costa coperta di verde, fatta di roccia
bianca e rossa. Poi si rompe una drizza: la cima che teneva su il
gennaker si è tagliata di netto. La vela cade in acqua lentamente,
dandoci il tempo di recuperarla prima che vada a fondo, senza
rallentarci molto. Alcune ore fa era saltato un pezzo, per il vento
forte. La cima ci passava dentro. Senza quel rinvio il percorso della
cima è più netto, ci aspettavamo che la drizza ne potesse soffrire, e
così è stato. Riprendiamo a navigare, con le vele bianche. Siamo vicini
al faro: ha un’aria diversa dagli altri, faro non di porto, ma di lontano da costa.
Le previsioni davano incremento di vento da ovest nel pomeriggio sera, bisognava essere qui prima che arrivasse per non averlo di fronte, e poter scendere di nuovo accompagnati bene. Per ora non è arrivato ancora. La luna fa capolino e siamo di nuovo fermi. Poi il vento sale, eccolo, la previsione era giusta. Si naviga. Poi sale. E sale ancora. Quando torno in coperta dopo il turno di riposo il mio compagno al timone sta lavorando duro. C’è vento e onda, occorre correggere la rotta con molta attenzione. La luna aiuta illuminando tutto. Siamo andati molto a largo, decidiamo di fare un bordo a terra. La barca dietro di noi, dopo un po’ fa lo stesso. Rotta verso Ischia. Dopo un poco si vede una luce, Punta Imperatore, è il faro vicino alla punta di Forio d’Ischia. Timoniamo su quella. E ci appare chiarissimo il significato di Faro.
Il vento tiene, intenso, intorno ai 20 nodi (che sono 40 km all’ora), piano piano alza l’onda. Toccando l’acqua a mano a mano, spingendola, forma le onde: sono diverse ore che spinge e il cielo adesso è scuro, la luna è dietro le nuvole, è buio, il mare è alto, timoniamo attenti. Le onde vengono da poppa, da dietro, e spingono. La barca ci sale sopra e surfa in avanti. Qualcuna invece ha scelto una direzione diversa e viene un poco di lato: inclina la barca e tende a girarla di direzione, il timone corregge puntando il lato opposto, poi l’onda ci supera, alta, un poco sopra la prua, e corre.
La notte passa. Inizia a fare giorno e la costa dell’isola che ora è di fianco, calma un poco le onde. Ci ricorda che tutto cambia, sempre, per tutti, di minuto in minuto. Sono stanco, vado a dormire, lascio il mio posto a un compagno. Quando mi sveglio siamo già oltre Capri, nel terzo golfo della regata, quello di Salerno. C’è il sole, il vento teso, i colori di blu vivo, luminoso, del Mediterraneo nei giorni tersi, ventosi, con le schiume bianche. La divina costiera, dal lato di Amalfi, poco davanti ci sono Li Galli. Le sirene non potevano che abitare qui, si sente si vede, ci abitano ancora. Veniteci, lo sentirete.
Li Galli: la Rotonda e la Castelluccia
Passiamo
vicino vicino a questi scogli. La torre antica, i terrazzamenti,
l’orto, l’ingresso del piccolissimo porto, i panni stesi, il gommone in
secco, la casa bianca coi merli. Il vento porta fino a noi il profumo
dei pini.
Ora la rotta è di nuovo verso nord, direzione Capri. Il vento rinforza, riduciamo le vele. Si naviga bene, di giorno, col sole. Poi i faraglioni, e il faro oltre. Doppiamo la punta e si inizia a scorgere il porto. La linea d’arrivo è lì, ora si vede la boa. Un ultimo duello con la barca a fianco che ha i segni della notte in un taglio nella vela di prua.
Onde leggere e piccole raffiche di vento ci spingono come una carezza verso la linea di arrivo. Siamo partiti venerdì a mezzanotte, adesso è domenica, tagliamo il traguardo alle ore 14, 3 minuti e 53 secondi.
Stamattina
mi sveglio: mi stupisce il verso degli uccelli, ieri c’era il fruscio
dell’acqua lungo la carena; allo specchio vedo una faccia con la pelle
più scura, le mani sono un poco ingrossate, iniziano a somigliare a
quelle dei pescatori.
Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)
Ogni tanto mi capita, andando in giro per questa città, una specie di colpo di fulmine.
M’è successo di nuovo qualche sera fa. Allo Spazio NEA, in via Costantinopoli, c’era un incontro intitolato: “Fotografi sulla fotografia”.
Arrivo
e la sala è piena. In piedi, sul fondo, dal lato dei relatori, c’è una
signora dai capelli bianchi, gli occhiali, vestita di grigio, con
intorno al collo un foulard azzurro.
Dopo poco
l’intervistatore inizia a porle le domande: si apre un mondo di ricordi,
e soprattutto di cose umane. Alla fine della serata penso che mi
piacerebbe incontrarla questa signora, non so nemmeno esattamente il
motivo, credo sia la sua energia forte, positiva.
E allora eccoci qui stamattina, a cercare, parlando con lei, di esplorare oltre.
L’appuntamento è in un bar vicino alla funicolare centrale. Poco prima mi telefona dicendomi che sta un po’ in ritardo, mi toccherà aspettare. Ma arriva dopo pochissimi minuti, scende al volo dalla macchina: mi sono fatta dare un passaggio da mio marito per fare prima. Poi si avvia avanti, apre la porta del bar e saluta, tutti quanti. Deve essere un posto per lei familiare.
Ci sediamo e iniziamo a chiacchierare. Non lo so neppure io ancora esattamente che direzione far prendere a questa conversazione, perché intuisco che le direzioni potrebbero essere molte: lei ha qualche ricordo diretto del professor Caccioppoli, il matematico napoletano famoso che mi affascina molto (ve ne avevamo parlato su questo sito in questa serie); è una fotografa, e pure lì in quell’ambiente conosce tutti, poi è proprio una persona che ha condotto delle “battaglie” in prima persona nel sociale. Allora invece di prendere una direzione, sto fermo all’incrocio, aspetto, mentre iniziamo a parlare.
Foto di Vera Maone, da: “Dell’amicizia”
La prima cosa che le dico è che mi era piaciuta molto la frase di Pablo Picasso che aveva citato l’altra sera, in quell’altro incontro: “ci vuole molto tempo per diventare giovani”, a proposito del fatto che lei a fotografare aveva iniziato dopo la pensione.
Ha l’occhio allenato della professoressa secondo me questa signora. Quando trascorri anni vedendoti passare davanti dietro i banchi intere generazioni, centinaia e centinaia di piccole persone, per ore e ore, secondo me sei più allenato di uno psicanalista a capire al volo che tipo di essere umano hai di fronte. È lei che mi chiede quanti anni ho, io non glielo chiedo direttamente ma me lo fa sapere a un certo punto della conversazione, lo trovate più avanti.
Poi mi inizia a parlare degli anni da insegnante.
Erano gli anni in cui si era fatta la riforma della scuola media. Avevano eliminato la distinzione tra “scuola di avviamento al lavoro” e quella con la quale poi invece si poteva accedere a tutti i tipi di studi superiori, avevano creato la scuola media unica. Però
molti insegnanti continuavano nella loro testa a ragionare con i vecchi
criteri, non consideravano che adesso la platea era diversa, erano
arrivati anche molti alunni da famiglie di condizioni economiche più
modeste e bisognava tenere conto delle loro esigenze specifiche e del
loro livello di istruzione. Insomma era un momento molto interessante
per stare nella scuola e io ci volevo essere.
Ecco,
lo vedete? Come fa uno mo, ditemelo voi, a sentire una frase come
questa, ripetuta ogni volta perché evidentemente è un concetto centrale,
a non farsi folgorare?
Ho lavorato bene in
quegli anni. Insegnavo a Mugnano e per alcuni anni non ho chiesto il
trasferimento, mi volevo radicare. Avevo delle classi con delle ragazze
molto agguerrite. Sollecitavo la loro capacità critica, ma stando anche
attenta a non metterle contro i loro genitori. Non potevano uscire… la
vita di quei tempi nei piccoli centri.
Foto di Vera Maone, da: “Coppie”
Una
volta successe una cosa bella: io cercavo, quando potevo, di portare i
miei studenti fuori, a conoscere il loro stesso paese. Per farlo usavo
il mio giorno libero, però il preside, che mi teneva qua, e si porta per un momento l’indice alla gola,
ogni volta in quel giorno mi metteva supplenza per cinque ore: io le
facevo e poi la settimana successiva chiedevo di nuovo; prima o poi il
permesso me lo doveva dare.
Con me non ce la faceva perché io invece di arrabbiarmi ero impeccabile. Tutti gli aspetti, anche formali, i registri, la programmazione, io ci credevo proprio che dovesse essere fatto tutto in maniera precisa, e che fosse utile che rimanesse traccia scritta di quello che si era fatto.
Be’, insomma, un giorno le ragazze (chi sa perché parla solo al femminile? Ho provato a chiederle se aveva classi solo femminili ma o non mi ha sentito o non voleva sentire) arrivano a scuola e non trovano i banchi. La prima cosa che pensano è di andare dal sindaco. Io gli consiglio di andare prima dal preside e magari da lui poi farsi accompagnare. Il preside le caccia, e loro dal sindaco ci vanno, e poi anche alle sede del Partito Comunista Italiano. Lì incontrano un giovane attivista che le appoggia. Anzi nelle successive elezioni imposta tutta la sua campagna elettorale, partendo da quel fatto, sulle magagne che c’erano sotto: l’edificio pubblico per la scuola era in costruzione, con i lavori fermi, e il Comune pagava il fitto per tenere scuola in un edificio proprietà di un assessore. Morale della favola: diventa il più giovane sindaco di Mugnano.
L’associazione culturale
Ma di battaglie e di costruzione di cose, Vera Maone ne ha fatte molte altre. A Bagnoli, ai tempi di Bassolino sindaco, fonda, insieme ad altri, un’associazione: “Laboratorio Città Nuova”.
L’idea era quella di integrare il lavoro delle istituzioni, mettere altri tasselli dove il Comune non riusciva ad arrivare.
Costruimmo
una biblioteca pubblica, esiste ancora, si chiama: “Giancarlo
Mazzacurati”. Facemmo le cose per bene, almeno spero. Rossana Rossanda
avrebbe voluto darci tutti i suoi libri, non avevamo spazio sufficiente
per l’intera biblioteca ma per una parte sì, e c’è ancora il fondo
intitolato a lei.
A lavorarci eravamo tutti
volontari. Avevamo anche dei giovani che ci aiutavano; a qualcuno
facemmo fare corsi per bibliotecari. Uno ci fece tutta la catalogazione
per bene, mise anche on line i riferimenti di tutti i volumi; tanto che
una volta ci scrisse uno studente da Firenze: aveva trovato nella nostra
biblioteca un libro che non trovava altrove. Gli spedimmo, gratis, le
fotocopie.
Poi quando la Provincia chiuse
il suo sito, tutte le pagine internet della nostra sezione, che erano
incorporate in quello, sono andate perdute: tanto lavoro buttato via.
L’idea
che ci guidava era di mettere in piedi e radicare progetti virtuosi e
poi di vedere se poteva aiutarci nella gestione lo stesso Comune, perché
da soli, col solo volontariato, non avremmo potuto garantirne per
sempre l’amministrazione. Ci mandarono alcuni Lavoratori Socialmente
Utili, ma non intendendosi loro di libri la cosa è un po’ caduta. Hanno
rifatto pure tutta la catalogazione, con altri criteri.
Devo dire, dopo un po’ di anni ho smesso di occuparmene: non puoi passare tutta la vita a combattere contro i mulini a vento.
Ci sarà un vento, dalle nostre parti, particolarmente intenso.
Comunque in quella biblioteca di cose belle ne sono successe.
Una volta venne una signora, riportava un libro che le era piaciuto, era: “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”. “Però”, mi disse, (c’ero io lì quel giorno): “sto cercando un altro libro, che mi ricordo, alle scuole medie, la professoressa ce ne aveva letto una parte: parlava di un uomo innamorato di una certa Laura che però poi muore”.
Sono
cose dell’altro mondo, capisci? Cercava il “Canzoniere” di Petrarca, le
era rimasta scolpita per tanti anni nella memoria quella lettura di
alcuni brani ascoltata a scuola.
Vera ricorda di molti anni fa che un’altra signora si era appassionata a un libro bello, ma lei stessa non ha dimenticato quella storia.
Nella
stessa biblioteca organizzavamo molti incontri. Renata Pepicelli fece
da noi interviste alle donne che lavoravano all’Italsider per un
programma di Radio Tre Rai.
Foto di Vera Maone, da: “Italsider”
Vera
Maone è figlia di Francesco Maone, nato a Savelli, in provincia di
Crotone, dirigente della Federazione napoletana del PCI di allora. Mio
padre era professore di italiano e latino al Liceo Cuoco, nel partito
aveva scelto come campo d’azione le lotte contadine nella provincia di
Matera. All’epoca i comunisti venivano discriminati già solo per
esserlo: mio padre, per esempio, non lo nominavano mai a fine anno per
gli esami di Stato.
Morì giovane, nel ’52,
durante un comizio ebbe una emorragia cerebrale. Rimanemmo in
difficoltà: cinque figli piccoli e mia madre.
Mi
ricordo che ci portava a casa di altre persone del Partito. Imparai a
casa di Maurizio Valenzi (l’ex sindaco di Napoli) a cantare in francese
l’inno dell’Internazionale.
Gli anni ’50
E allora le chiedo se si ricorda di alcuni dei personaggi di quel mondo.
Il
Professor Caccioppoli me lo ricordo bene fisicamente, come se fosse
ora. Non l’ho mai conosciuto direttamente ma lo vedevo spesso: per i
canoni borghesi dell’epoca si sarebbe definito “trasandato”. Un uomo
dinoccolato, magro, col ciuffo. Pure Francesca Spada ho conosciuto, e
Renzo Lapiccirella, suo marito, ancora meglio perché dopo la morte di
Francesca sposò un’amica di mio marito.
Francesca era una donna molto affascinante, fuori regola, erano tutti innamorati di lei, pure Ermanno Rea.
Valenzi, Caccioppoli, Lapiccirella, Francesca Spada: in pratica questa signora è come se avesse vissuto, in età da adolescente, dentro “Mistero napoletano”, il bellissimo libro di Ermanno Rea sulla Napoli degli anni ’50.
Ma Caccioppoli, visto che te lo ricordi così bene, ma assomigliava davvero a com’è nel film di Martone (“Morte di un matematico napoletano”, ndr) sui suoi ultimi giorni? È una curiosità che tengo da un sacco di tempo. No, lui era magro, proprio per niente.
Poi prende spunto da questi ricordi per una considerazione generale. Devi
sapere che succede una cosa rispetto a quei tempi: il tipo di gente che
animava quell’epoca, soprattutto a sinistra, la generazione che è
venuta dopo, secondo me l’ha deformata. L’atmosfera, il clima, i valori e
anche la figura morale delle persone che venivano fuori dalla guerra,
dalla Resistenza, che spesso erano entrate nel PCI, sono completamente
diversi da quelli che vengono rappresentati oggi, assolutamente. Persone
di integrità morale incredibile, dal totale disinteresse personale… non
esisteva l’idea di fare carriera politica: esisteva la scelta ideale di
lavorare per la giustizia sociale, per migliorare la società. Per
esempio Renzo Lapiccirella, che di formazione era uno psichiatra, si è
dedicato anima e corpo al partito comunista. Anche mio padre. Non si
sapeva ancora nulla di quello che faceva Stalin in Unione sovietica.
L’impegno era genuino ed encomiabile.
Gli inizi da fotografa
Le
domande sulla fotografia, davanti a tutti questi ricordi interessanti,
sono rimaste sullo sfondo. Però adesso magari provo a fargliele.
L’altra sera, a “Fotografi per la fotografia”,
quando hai proiettato le immagini del tuo primo lavoro fotografico,
sono rimasto colpito da tutte queste foto aeree. Sembravano fatte col
drone, se non fosse che allora neppure esisteva. Mi hanno incuriosito,
era una prospettiva raramente vista a Napoli, dall’alto.
Lo sai? La stessa cosa me la disse Mimmo Jodice quando le vide.
Ma
non lo avevo pensato di proposito quando le scattai. Ero più
inconsapevole. Vedevo soltanto che l’inquadratura che avevo in mente non
riuscivo ad ottenerla dal livello del suolo.
Allora
citofonavo alle persone, chiedevo se potevo entrare per scattare una
foto. Poi c’è da dire che una donna con la macchina fotografica non
desta sospetti e allora mi aprivano e mi facevano salire. Così sono
venute fuori ad esempio le foto di piazza del Gesù e di piazza Dante.
C’era anche un motivo pratico, avevo un’attrezzatura costosa: a fotografare per strada, a quei tempi, mi sentivo meno sicura.
Ma tu a fotografare a che età hai iniziato? Nell’ ’88 o ’89, sono del ’36, fatti il conto.
Questa
signora ha inaugurato una nuova stagione a cinquantadue o cinquantatré
anni suonati. Già per questo mi pare un bellissimo esempio di una che
dentro la testa non ha barriere inutili.
Avevo iniziato a studiare un po’ la tecnica, però avevo un linguaggio elementare.
Non ho capito, in che senso?
Sai,
la sensazione era che avevo un bagaglio di umanità, di esperienze. Sono
stata una che ha cercato sempre di investire molto nelle amicizie, nei
rapporti umani; non mi arrendevo, mi muovevo, curavo i rapporti, andavo e
vado a trovare le persone. Insomma era come se avessi molte cose da
raccontare con la fotografia, però possedevo un linguaggio da scuola
elementare.
Quello che mi ha aiutato molto
sono stati ad esempio la mia amica Cecilia Battimelli e poi Mimmo Jodice
che all’epoca insegnava fotografia all’Accademia di Belle Arti. Io
chiesi un anno di fare l’uditrice. Mi mettevo all’ultimo banco e non
portavo mai a far vedere le mie foto al professore perché non volevo
rubare tempo agli studenti ufficiali.
Jodice proiettava le foto di grandi maestri e le “leggeva”, le interpretava; è da quello, credo, che ho imparato molto.
All’inizio
nelle mie foto ci volevo mettere tutto, poi lì ho capito che invece
bisogna togliere tutto e lasciare solo l’essenziale.
Foto di Vera Maone, da: “Coppie”
L’altra
sera dicevi che tra i fotografi che hai guardato con più attenzione
c’era Cartier-Bresson. In una sua intervista lui cita “Lo zen e l’arte del tiro con l’arco”, il libro di un professore di filosofia tedesco che impara, dopo anni di pratica, la visione buddhista del Giappone.
Lo
zen è una cosa molto interessante. Una volta sono stata in Giappone:
seguivo mio marito quando andava alle conferenze per lavoro, così sono
riuscita a viaggiare molto. Ho visto lì un giardino zen e devo dire che è
un’esperienza. Poi un giorno mi invitarono ad assistere alla cerimonia
del tè.
C’erano alcune signore, e la maestra che insegnava loro.
Ognuna
condusse dall’inizio alla fine tutta la cerimonia. Io osservavo. Poi
per ultima la maestra la fa di nuovo e il tè lo offre a me.
Prima
di andare credevo che fosse una cerimonia con un senso profondo di
rituale, poi, osservando, mi parve che cercavano l’essenzialità in ogni
gesto. Non uno di più, non uno di meno. Entravano facendo scorrere con
la mano destra la porta di carta, la richiudevano dietro di loro con la
sinistra senza girarsi.
Sembrava un cammino
di perfezionamento interiore, una sorta di esercizio spirituale,
completamente diverso da una cosa formale. Perché la disciplina che
richiedeva la cerimonia era un modo per raggiungere un obiettivo prima
di tutto interno.
Alla fine ho espresso alla maestra questa mia idea. Mi disse: “Hai capito, sei la prima occidentale che me lo dice”. Non avevo strumenti, non avevo studiato, però c’avevo azzeccato.
Sembra la stessa storia del linguaggio elementare e della sensibilità umana sottile.
Se
vuoi, quel tipo di percorso dello zen, lo puoi fare in vari campi: il
tè, il tiro con l’arco, anche forse con la fotografia: raggiungere
l’essenziale.
Una volta venne a Napoli
quel famoso monaco, come si chiama? Thich Nhat Hanh, sì, lui. Incontrava
le scuole e io ci andai. Mi ricordo che prima c’erano delle monache che
facevano una specie di litania. Mi dissi: vabbè sono venuta fino a qui,
a questo punto partecipo, e pure io cantai. Mi accorsi che piano piano
la mia mente si svuotava dai pensieri. Fu un’esperienza interessante
devo dire.
Siamo stati quasi due ore dentro questo bar, ce ne siamo praticamente impossessati. Mentre parlavamo è entrata anche una coppia di persone: la salutano, “Ah, eccoti, da un po’ di tempo ci domandavamo dove fossi”. Saranno assidui frequentatori dello stesso bar tutti quanti. Poi lei dice: Loro due sono tra quelli che venivano ai “Lunedì della fotografia”.
Perché questa signora di cose ne ha fatte tante: è stata nel direttivo del “Circolo del Cinema“, quello che anni prima aveva fondato Renato Caccioppoli, e poi si inventò (a metà anni ’90) questi lunedì in cui invitava a parlare i fotografi napoletani. Ecco perché ancora adesso li conosco tutti: sono bravi, bravissimi, forse l’unico limite è che sono tutti mondi tra loro separati. Io avrei voluto fare a Napoli una piccola Magnum (l’agenzia fotografica più famosa del mondo, ndr) ma con loro non mi è stato possibile.
Adesso alle conferenze di fotografia a Napoli invece intervistano lei.
Ha pubblicato diversi libri fotografici, tre sono confluiti in uno che si intitola: ”Trilogia degli affetti”. Sono: “Madri Figlie”, “Dell’amicizia”, “Coppie”, edizioni Intra Moenia.
Ne aveva mostrato parecchie foto quella sera in cui l’ho incontrata per la prima volta, e mi avevano colpito molto. Sapete perché? Perché come le disse un suo amico fotografo, Antonio Biasiucci, quella volta che doveva consegnare le foto scattate all’Italsider: “Stai tranquilla, non hai fatto foto spettacolari, e c’è un filo conduttore e uno stile”. Capite? “Brava: non hai fatto foto spettacolari”.
Le sue foto le trovate sul suo sito, io ne ho scelte alcune da “Madri Figlie”. Lei aveva detto: “Credo ci siano diverse fasi: c’è la nascita della bambina, poi l’adolescenza, quando diventano piccole donne che somigliano molto alle madri, poi c’è il tempo in cui le figlie vanno a trovare le madri ma hanno sempre meno da dirsi, e alla fine sono le figlie che si occupano delle madri anziane”. L’ho trascritto ma guardatelo dentro le sue foto: lì si vede proprio.
Un’ultimissima cosa: quando ci alziamo dal tavolino del bar, con la coda dell’occhio vedo che lei prende le tazzine e le porge al barista dall’altra parte del bancone.
Intervista a Vera Maone, di Francesco Paolo Busco (foto di Vera Maone)
Di Cuba non si parla molto. Per la maggior parte di noi sta lì in un angolino della memoria a fianco alle immagini del Che che guarda verso il futuro con il basco in testa, a quella di lui morto che somiglia al Cristo di Mantegna, alle case colorate e alle automobili americane anni ’50.
C’è capitato invece di conoscere una signora, napoletana, che a Cuba ha vissuto per sei anni, dal 1987 al 1993 e stava lì, all’Avana, come corrispondente di un giornale: L’Unità. Cofondatrice insieme ad altri e poi condirettrice insieme a Gianni Minà della rivista Latinoamerica, professoressa associata di Lingua e Letterature Ispanoamericane all’università di Napoli l’Orientale, autrice nel 2011 di Racconti di Cuba, da sempre attenta alle vicende ed alla letteratura del continente americano su cui tiene un blog.
La rivista “Latinoamerica”
L’abbiamo
incontrata per caso alla proiezione di un film recentissimo sugli
avvenimenti di Santiago del Cile ai tempi del colpo di stato di Pinochet
contro il governo di Salvador Allende: Santiago, Italia.
Prima
della proiezione prende la parola questa signora col caschetto di
capelli bianchi. La cosa più bella è che non urla concetti astratti,
parla con calma ma profondamente. Dentro le sue parole l’intenzione
suona vera, e allora ci viene subito l’idea di andarla a cercare nei
prossimi giorni.
Mi
ricordo solo il cognome, poi la vedo sui social, in una foto di quella
serata, e allora riesco a rintracciarla. Le scrivo, poi le telefono.
Ho
appuntamento in una mattinata di sole pieno, dopo due giorni di vento
di grecale: l’aria è limpida e colorata d’inverno. Arrivo in bicicletta e
la metto nel cortile.
Mi
accoglie nel soggiorno. Intorno sento la presenza di quadri molto
belli, ma non ho il tempo di osservare: ha troppe cose da dire.
Ero
curioso di sapere da qualcuno circa i miei dubbi su quello stato
strapieno di petrolio, il Venezuela, sotto attacco in questi giorni. Mi
ha accolto a casa sua per rispondere ai miei dubbi.
Poi mi viene l’idea che il Sud America sia un mondo così carico di belle energie e così poco raccontato dalle nostre parti che le ho chiesto se, quando vuole, mi racconta di Cuba, io sto solo a sentire.
Alessandra Riccio
Eccovi il suo primo racconto.
Oggi ho una domanda sola, le dico: vorrei ascoltare del tuo primo giorno a Cuba.
Non mi risponde subito, ha un’altra cosa grande da dire.
La
lingua spagnola, devi sapere, anzi il castigliano, perché nella
penisola iberica di lingue ce ne sono molte (il catalano, il basco, il
gallego) è stata un modo di unire un continente.
Perché
con le caravelle di Cristoforo Colombo quelle lingue, in Sud America,
sbarcarono tutte. Però poiché le disposizioni ufficiali da Madrid erano
in castigliano, fu questa la lingua che prese il posto centrale, la
lingua ufficiale, quella per comunicare al di fuori dei singoli gruppi
linguistici particolari. Ecco perché sono contentissima che il prossimo
salone del libro di Torino abbia messo questa lingua al centro, ed un
libro bellissimo, di Julio Cortázar: “Rayuela” .
All’inizio
non avevo capito esattamente perché mi avesse detto tutto questo. Poi
piano piano mi è stato chiaro che conteneva due grandi ragioni: la prima
è che questa lingua sempre un poco bistrattata, considerata di serie B
rispetto per esempio all’inglese e al francese, per una volta sarà al
centro dell’attenzione; la seconda è che al centro ci sarà uno dei libri
e degli autori da lei preferiti. Insomma, finalmente il mondo parla un
poco, di nuovo, di loro.
Una borsa di studio
Va bene, ma tu volevi sapere del mio primo giorno a Cuba.
Allora…
io avevo vinto una borsa di studio del Ministero degli Esteri italiano,
perché all’epoca c’era un istituto Italo Latino Americano, voluto da
Fanfani (esiste ancora ma si è ridotto moltissimo) per gli scambi
commerciali e culturali tra i due paesi.
E allora, era la fine di settembre del ’77, o forse del ’78, parto per questi otto mesi nella capitale cubana.
Era
una mia passione perché in quegli anni del boom della letteratura
latinoamericana, avevo letto alcuni romanzi per me molto importanti. Uno
è proprio “Rayuela” (in Italia si chiama: “Il gioco del mondo”), un
grande libro sentimentale, bellissimo, e poi avevo letto “Paradiso”, di
Josè Lezama Lima, uno scrittore cubano.
Questo
secondo libro per me era stato proprio rivelatore, meraviglioso, tanto
che avevo scritto all’ autore e lui mi aveva risposto un paio di volte.
Allora volevo conoscerlo.
Quindi
andavo a Cuba soprattutto per questo scrittore e per un altro, di cui
avevo tradotto un libro, che è Alejo Carpentier. Un grandissimo, anche
questo, scrittore cubano. Perché, sai, all’epoca esisteva la “Editori
Riuniti” che era la casa editrice del partito comunista e che quindi
aveva questo sguardo su quelle cose del mondo. Era una delle cose che
facevano parte di quella che, come diceva Rossana Rossanda, “era una
grande costruzione”. Solo dopo molto tempo ho capito cosa volesse dire
lei con quelle parole: il partito comunista era un insieme di tante
cose, tra le quali tu potevi trovare quella che ti corrispondeva.
Insomma piglio e vado.
All’epoca
non esisteva nessun volo diretto, però ti devo dire che, contrariamente
ai racconti dei viaggi di molti, per esempio dei primi viaggi di Garcia
Marquez, che per arrivare a l’Avana dovevano fare percorsi da giro del
mondo, io fui molto fortunata.
Mi pagai un viaggio in sole due tratte: Roma-Madrid, Madrid-l’Avana, con uno scalo intermedio alle isole Azzorre.
All’atterraggio
su quelle isole mi svegliai e mi sembrava un sogno: vedevo le palme, in
mezzo a questo oceano Atlantico, sembrava l’avventura dei più famosi
scrittori. A quei tempi gli aerei non erano affollati come oggi: era
quasi tutto vuoto, per questo potevo dormire sdraiata su tutta la fila
di sedili. Poi, mi ricordo, un signore messicano, seduto in una fila
dietro la mia, mi offrì dello champagne. Insomma, mi pareva di vivere in
un romanzo.
Atterrati
a Cuba, quando si apre la porta dell’aereo ed esco dal portello
l’impatto è forte: appena lasci l’aria condizionata dell’aereo è come
entrare in una sauna, caldo umido, e poi il tropico lo senti anche
perché ha proprio un odore.
Scendo la scaletta, non c’è nessuno shuttle di collegamento, vado a piedi, in questo piccolo aeroporto scassatissimo, verso lo scalo e, in alto, leggo una scritta enorme:
“Aeroporto Josè Martì, Cuba, territorio libre en America”
In quel momento dici: allora è vero; capisci?… era emozionante.
Due coinquiline sovietiche
All’aeroporto
mi viene a prendere una signora del Ministero degli Esteri cubano, a me
e ad un signore di un paese dell’Est che non ricordo.
Accompagniamo prima lui all’Hotel Nacional. Devi sapere che quell’albergo è un posto mitico: l’albergo dei grandi scrittori di passaggio per Cuba.
Non me lo dice ma le devono essere passati nella testa almeno dieci libri che ne parlano. (Ma lei è sintetica. Si, questo è un mio problema: di una cosa voglio sempre estrarre il succo, non mi piace sbrodolare le cose).
Poi la signora mi accompagna in una strada carina, con tanti alberi, dove c’è una villetta un poco sgarrupata pure questa, come quasi tutto. Quando
c’è stata la rivoluzione a Cuba molti ricchi sono andati via, verso gli
Stati Uniti, lasciando le loro case. Allora il governo le ha
nazionalizzate. Era una di quelle case.
Alla
finestra, affacciate, c’erano delle ragazze giamaicane che avevano
appeso alle grate degli slip e delle magliette ad asciugare. Era una
casa di sole donne, ed era lì che sarei dovuta stare, in una stanza
insieme a due ragazze sovietiche.
Te
la immagini tu una donna di trentacinque anni, con due figli, che deve
fare la vita della studentessa fuori sede? Ecco, mi sentivo un poco
spaesata. All’epoca facevo la radical chic capisci, mi dava fastidio.
Appena
arrivo le due ragazze mi dicono: dai stasera vieni con noi, ci vengono a
prendere e ci portano al mare. Per me che il mare è un elemento
imprescindibile della vita, la risposta fu“sì”, o forse neppure risposi.
Ero appena arrivata, non ci stavo ancora capendo nulla, ero come un
pacco postale, non decidevo niente, non davo nessun contributo.
Mi
ricordo solo che arrivammo sulla spiaggia. Le due ragazze e i nostri
accompagnatori andarono a fare il bagno in slip e reggiseno. A me non
sembrava… Va bene, punto, la scena finisce qui.
Insomma:
il caldo, lo sgarrupamento, le cucarachas, questi insettoni enormi che
somigliano a scarafaggi che, mi dicevano: “stai attenta tu che hai i
capelli lunghi perché quelli volano e possono impigliarcisi dentro”.
Allora di notte dormivo come una specie di mummia: con la testa tutta
avvolta nelle lenzuola, con quel caldo.
Poi la mattina devi aggiungere che quelle due ragazze sovietiche, che si svegliavano molto presto per andare a fare del lavoro volontario prima di andare a studiare, (perché loro facevano parte del Komsomol, l’unione della gioventù comunista leninista) mi svegliavano portandomi, pensando di farmi una grande gentilezza, una bella tazza fumante di zuppa di verza, la loro colazione abituale.
Alessandra Riccio (a sinistra) con una delle due ragazze sovietiche (foto concessa da A. Riccio)
Altro che cappuccino, penso io. Penso che ti ho fatto un quadro della cosa almeno parziale. Che dire: annuisco senza fiatare.
Poi a pranzo andavamo in una casa di fronte: lì c’era la mensa.
Ti davano un piatto di alluminio con tutti gli scomparti. C’era soprattutto polenta (polenta? a 35 gradi? penso ma non voglio interrompere il filo del ricordo, o forse soprattutto questo suo parlare musicale) con
un uovo, poi frutta, un bicchiere di ottimo latte, e il “dulce” che in
realtà sono confetture di frutta. Insomma una cosa ben pensata,
bilanciatissima da un punto di vista alimentare. Però lo dice con un tono che non capisco se è convinta o meno.
Il romanzo della rivolucion lo scrivi tu
L’idea
dei miei professori, all’Orientale, io all’epoca ero assistente
ordinaria, era che mi dovessi occupare del “romanzo della rivolucion”.
Una
rivoluzione, dicevano, deve creare per forza la sua letteratura. Poi
andando lì mi accorsi che invece era una stupidaggine enorme; casomai
esiste il romanzo di quando finisce una rivoluzione, della decadenza di
una rivoluzione, vabbè. E allora parto con quella idea nella testa.
Si porta dietro quell’idea ma soprattutto mi portavo nella testa un sacco di libri che avevo letto sul Sud America e dei suoi scrittori.
Il
fatto che non esistesse un romanzo della rivolucion alla fine però fu
il mio vantaggio perché la mia tutor mi disse: “va bene e allora vai in
giro a parlare con gli scrittori cubani e quel romanzo lo scrivi tu”.
Fu
un’occasione unica: non avevo altri impegni da svolgere se non quello,
avevo il motivo e tutto il tempo per poter andare in giro e farmi
un’opinione.
L’unico
problema è che a L’Avana tutto era improbabile: gli autobus non
passavano o quando passavano magari si rompevano, faceva un caldo
tremendo e muoversi a piedi per quella città estesissima non era facile.
Sti
scarafaggioni in agguato e neppure mi potevo comprare il baygon perché
anche se avevi i soldi per comprarlo, il baygon a Cuba non c’era
proprio. Però passavano ogni quindici giorni a disinfettare la casa e ci
portavano sapone, dentifricio… anche la cromatina per le scarpe, quegli
scarponi che usavano all’epoca.
Erano
gli anni che chiamarono i “dieci anni grigi” poi i “cinque anni neri”
perché il Che era morto, la “grande zafra” (la grande raccolta della
canna da zucchero a cui Fidel aveva chiamato tutta la popolazione, con
l’obiettivo di raccogliere dieci milioni di tonnellate. Arrivarono solo a
nove) era fallita e allora l’Unione Sovietica li inizia ad aiutare
economicamente; però in cambio vuole, da quel popolo così “variopinto”,
almeno un po’ di disciplina.
Allora
hanno le divise: le donne con la minigonna ma di un tessuto sintetico
molto spartano, la camicetta, e scarpe e scarponi da pulire con la
cromatina.
Una poliziotta cubana
Una
mattina mi ricordo che stavo aspettando alla fermata del bus e c’era un
ragazzo che aspettava anche lui con in mano una fiocina per pescare,
manco a dirlo, tutta scassata pure quella. Ad un certo punto vedo
venirci incontro una poliziotta.
Gli si avvicina e gli dice: “Ah mi amor, esto no esta bien, devi stare attento, sull’autobus con quello puoi far male a qualcuno”. Io rimasi esterrefatta da quel bellissimo modo di approcciare la cosa; piano piano imparavo cos’era davvero quella rivoluzione.
Poi ogni tanto arrivavano dall’Italia i compagni del partito, con i viaggi dell’Unità.
La cosa più divertente era che dopo tre minuti che erano sbarcati avevano già le soluzioni a tutte le inefficienze che vedevano in giro.
Magari
arrivavano e gli si avvicinava il facchino dell’albergo che voleva
portare la loro valigia, e loro subito: “no, compagno! la porto io”,
senza capire che lo stato aveva dato un compito a tutti, anche cose
piccole magari, ma era un motivo per farli uscire di casa la mattina e
fargli sentire che davano anche loro un contributo.
Per
esempio all’Hotel Nacional, in ogni ascensore c’era una donna che non
faceva altro che premere il pulsante del piano. Molte erano ex
prostitute che in quell’albergo, prima della rivoluzione, avevano fatto
quell’altro lavoro.
Il
problema era che quando si incontravano ad un piano, erano due
ascensori uno di fronte all’altro, si fermavano a chiacchierare tra
loro: “hai visto che è successo nell’ultima puntata della telenovela?…”,
mentre la gente stava ai piani ad aspettare. Queste inefficienze erano
quelle che ai compagni che venivano dall’Italia davano molto fastidio.
Insomma
ti devo dire la verità che fra tutte le arrabbiature, tutte le
critiche, tutte le inefficienze, alla fine ho capito la cosa
fondamentale, e cioè che quella rivoluzione, sempre, quando ha
individuato l’errore, ha cercato di correggerlo. Che è la cosa
principale, perché, come si dice: “nessuno nasce imparato”.
Insomma
anche se era il periodo grigio, quello sotto la cappa sovietica, come
ti ho detto, era bello: ho imparato tante cose ma soprattutto si
incontravano persone molto interessanti, molto aperte, molto cordiali.
Anche se la vita, pure quella degli artisti, aveva i suoi problemi, come
quella cappa di autocensura che ognuno si sentiva, perché qualunque
cosa poteva essere interpretata come contro la rivoluzione.
Una sorpresa quando torno a Napoli
Poi c’è una cosa molto divertente che è successa a Cuba ma me ne sono resa conto solo quando sono tornata a Napoli.
Un
giorno stavo seduta sul marciapiede ad aspettare, come al solito,
l’autobus, quando vedo passare un gruppetto di scrittori; tra i quali
c’è anche Cortázar. All’epoca aveva circa 60 anni, ma lui, un uomo
bellissimo, aveva questa cosa particolare che ne dimostrava sempre
trenta. “Noi andiamo alla Bodeguita del Medio, vuoi venire?” mi
dicono. Era il bar famosissimo dove andava pure Hemingway. Tra di loro
c’era anche uno scrittore brasiliano, Ignacio de Loyola Brandão, molto amato da una mia collega dell’Orientale, e allora gli chiedo un’intervista da mandare a lei.
Bene,
dopo il mio ritorno a Napoli, incontro quell’amica e mi dice che
Brandão le ha inviato il suo libro, anzi due copie, una anche per me.
Quando
lo leggo ci trovo scritto di una giovane donna vestita di bianco. Ogni
tanto, lungo tutto il libro, compare, mentre l’autore si chiede chi sia
questa donna che capisce non essere di Cuba; Poi, nel finale, scrive:
“poi un giorno, mentre andavo con Cortázar ed altri amici alla Bodeguita
del Medio la incontro e scopro che è una docente universitaria di Napoli”. Scopro così di essere diventata il misterioso personaggio di un libro di Brandão.
Il mondo diventa, esattamente, come ce lo immaginiamo: lei tanto aveva sognato di libri che in uno, alla fine, c’era caduta dentro.
La “trinità” rivoluzionaria: Fidel Castro, Che Guevara, Camilo Cienfuegos
Poi, per alcuni giorni, mi vennero a trovare i miei figli.
Io
ero separata; all’epoca c’era ancora il divorzio, ma se ne discuteva e
si preparava un referendum abrogativo. Marito e figli arrivarono in un
viaggio organizzato. La cosa divertente era che io dicevo, per esempio:
“sappiate che qui gli autobus non passano mai”, poi andavamo alla
fermata e l’autobus passava dopo pochi secondi. Oppure: “gli autobus qui
sono affollatissimi”, e qualcuno appena saliti ci offriva di portare
per noi i nostri pacchi.
Quando
sono ripartiti mi sono rasserenata e riconciliata con Cuba, forse
perché non avevo più quella nostalgia inconfessata dei miei figli, tutto
era diverso perché erano venuti qui e si erano divertiti.
Va bene, il primo giorno te l’ho raccontato.
Avete
letto queste parole. Mentre parlava avevo mille domande, però non l’ho
interrotta quasi mai: non volevo interrompere il suono, che ricordava
quello delle storie raccontate con calma, nel silenzio, e che vengono da
molto lontano.
Intervista ad Alessandra Riccio, a cura di Francesco Paolo Busco
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