MAPPE – Scale mobili Metropolitana linea 1. Da via Salvator Rosa a piazza Leonardo

Un’altra possibilità per accorciare uno dei dislivelli della nostra città è utilizzare l’ascensore che parte dalla stazione Salvator Rosa della metropolitana linea 1 (la metro collinare). Vi portano a via Vincenzo Romaniello, praticamente a piazza Leonardo (e non occorre fare alcun biglietto).

Qui trovate la mappa interattiva

MAPPE – Gradini del Petraio. Da Castel Sant’Elmo alla zona di Chiaia

Un’altra scorciatoia per pedoni.
Sono i Gradini del Petraio e portano dal Vomero (dietro la stazione della funicolare di Montesanto, esattamente da via Annibale Caccavello) a:


1) Se alla diramazione che vedete nella foto girate a destra: Santa Maria Apparente, salita Betlemme e poi a via dei Mille.

Qui la mappa interattiva


2) Se girate a sinistra: via San Carlo alle Mortelle, vico Mondragone, gradoni di Chiaia, fino a via Chiaia.

Qui la mappa interattiva

La scalinata può essere “agganciata” anche lungo il percorso, da via Antonio Mancini e da via Luigia Sanfelice.

(Una descrizione completa del percorso e le foto le trovate nel nostro libro Napoli a piedi)

IL VIAGGIO (3) – Il pranzo della domenica in un ristorante singalese a piazza Cavour e poi a piedi fino a Capodimonte. La terza parte del nostro giro del mondo ecologico

Giorno 4, domenica 12 gennaio 2020

Come spesso si fa quando uno è in viaggio, in un posto nuovo, che chiede ai locali dove conviene andare, pure un buon ristorante, diversi singalesi a Napoli, a cui avevo chiesto, mi avevano indicato questo a piazza Cavour.

(Piccola nota per i non napoletani: se volete il suono vero della frase che avete appena letto, ricordatevi che a Napoli quel cognome francese tiene invece sulla prima sillaba il suo accento).

Stamattina, a pranzo, di domenica, decido di andare.

Metropolitana direzione Museo. Ercole a guardia dei tornelli dentro la stazione sembra, per la prima volta, dopo le dodici fatiche, annoiato più che stanco.

La copia dell’Ercole Farnese nella stazione Museo della metropolitana

Scendo tenendomi sul lato sinistro, lungo il marciapiede; lo trovo: sta al civico n. 148.

Resto sorpreso perché a giudicare dall’ingresso sembra un locale piccolissimo, solo da asporto, chi sa se davvero ho trovato quello giusto.

Entro un centimetro oltre la soglia e incontro la fila di tre persone che aspetta davanti al vetro alto del bancone.

Aspetto un minuto, poi guardo verso il fondo della scalinata che c’è qui di fianco: ah ecco, si intravedono i tavoli al piano di sotto. Faccio segno alla signora dietro il vetro per chiederle se è possibile mangiare dentro. Mi dice di sì e scendo.

In fondo a questa grande sala c’è un tavolo singolo, vicino a due altri per molte persone.

Mi seggo.

Arriva il cameriere e mi fa cenno che bisogna andare su, credo a servirsi? Mo vediamo se il quesito riesco a risolverlo.

Torno sopra, la signora capisce al volo, mi porge il menù e mi dice che posso scendere di nuovo. Verimme se ‘sta situazione converge e in quale punto. Mo, a parte il piacevole e interessante viaggio, un certo che di fame pure lo avverto.

Quando ritorno al tavolo c’è un signore che cerca di dirmi qualche cosa, un poco a parole e un poco a gesti: ecco, mi sta chiedendo se per caso potrei cambiare posto, così possono attaccare il loro tavolo lungo con quello corto. Gli dico di sì e mi sposto.

Mi riseggo, guardo il menù e aspetto. Un altro passetto.

Il cameriere nel frattempo va in giro a mettere ordine sui tavoli. Una volta porta un tovagliolo, una volta una piantina ornamentale, poi due forchette, la bottiglia dell’acqua richiede un suo speciale viaggio. Tutto a piccoli passi, ben distribuiti in modo sparso: pure m’interessa molto, a me che la parola “ottimizzare” provoca un certo prurito esistenziale.

Però il cameriere non mi pare molto attento, vedi che devo leggere il menù con gli ingredienti, capire cosa voglio, e ritornare un’altra volta al piano di sopra a ordinare? Ora glielo chiedo.

Sì sì, ordinare qui, bene.

Ok, dai che si mangia senza più salire e scendere altre scale.

Al tavolo di fronte, molto lungo, ci sono solo tre persone.

Due stanno mangiando, la signora in mezzo invece guarda il cellulare e pensa un poco. Il signore sulla sessantina e la ragazza giovane hanno ciascuno davanti un grande piatto che basterebbe per due, pure per tre forse, e mangiano con le loro dita sottili, belle, che muovono con enorme calma in una maniera elegante.

Io c’ho davanti le posate su un tovagliolo dentro il piatto che aspetta, e penso che forse è più bello come fanno loro.

Nel frattempo vado a lavarmi le mani.

Poi torno e guardo.

Prendono con la punta delle dita un po’ di riso, lo stringono appena come a renderlo più denso, poi prendono altre cose da quello stesso piatto, le mischiano nello stesso boccone, con una specie di massaggio. Toccano direttamente il cibo prima di mangiarlo, una specie di carezza di ringraziamento, una fine più morbida di quella che a volte gli facciamo fare noi, ingurgitando al volo brandendo utensili di ferro.

Il cameriere, dopo altri mille giri avanti, a destra, indietro e riparti dal via, mo mi dà attenzione, a me che pure oggi qui sono l’unico che non ha mai preso abbastanza sole. Tira fuori il taccuino dalla tasca: dai che veramente ci siamo. Gli mostro col dito sul menù le portate che ho scelto.

Lui le guarda, dice qualcosa, forse pensa che voglio spiegazioni, ma in realtà c’è scritto tutto anche in italiano, sotto. Mi racconta gli ingredienti.

Poi gli chiedo di dirmi il nome singalese di quegli stessi piatti.

Lui pensa di nuovo che voglio spiegazioni e mi rielenca una terza volta tutto quello che troverò nel piatto. Un poco in inglese un poco in italiano, e capisco che la sua lingua preferita, giustamente, è il singalese. Finalmente riesco a comunicargli che vorrei solo sentire il suono singalese che corrisponde a quei loro bei caratteri tondi che da ignorante mi sembrano un alfabeto dei fumetti.

Allora inizia a sorridere, lo racconta a quelli del tavolo a fianco e loro pure mostrano i loro bianchissimi denti. Poi mi dice un paio di volte, tre o quattro, un suono con molte più sfumature di quanto il mio orecchio non sia esercitato a distinguere.

Provo a ripeterlo, lui annuisce: a me, ascoltandomi, non pare per niente lo stesso suono, ma lui sembra contento. Non ve lo scrivo qui perché teneva così tante sfumature che neppure il mio cervello è riuscito a trattenerlo.

Bello però, sono contento; quando sono entrato mi sentivo un po’ osservato soltanto. Comprensibile: che ci fa questo qua dentro? Anche perché pure io sto guardando in giro più del solito. La domanda sulla lingua invece ha avuto un piccolo risultato. Se uno chiede come sono loro, non di tradurre nei suoni di quest’altra parte del mondo, spesso ha un bell’effetto.

Allora penso che è il momento di tirare fuori l’altra idea che mi sto portando appresso. Tengo dentro lo zainetto la guida del loro Paese. Una di quelle guide con la copertina bellissima, colorata, spettacolare, come ogni viaggiatore che si rispetti. Ma la cosa che più volevo fare è aprirla alla pagina dove c’è la cartina geografica e chiedere a ciascuno che incontro se per favore mi dice, mi fa segno col dito, sul quel disegno, per arrivare a Napoli da dove è partito.

Poggio la guida alla mia sinistra sul tavolo, vediamo se succede. La metto con la copertina verso il basso, oggi, in questo momento, sono timido.

Nel frattempo guardo in giro, senza, provando, dare troppo fastidio.

Alla mia destra, quei signori che mi avevano chiesto di allungare il tavolo stanno larghi. Hanno un tavolo da… dodici persone almeno e sono in sei. Non si seggono tutti vicinissimi come faremmo noi, ognuno attorno, soprattutto gli uomini, si conserva spazio. I bambini vicino alle donne invece stanno a contatto.

Forse aspettano altri amici che stanno arrivando. Oggi è domenica e dai vestiti vistosi di alcuni che entrano ogni tanto (credo che nell’altra sala ci sarà il banchetto di qualche ricorrenza più importante) l’atmosfera è quella dei giorni festivi.

Poi eccolo, finalmente, mi porta le prime due pietanze, gli antipasti. Le poggia non davanti a me ma a fianco. Allora sono in dubbio se posso cominciare a mangiare quelle o dovrei aspettare di accompagnarle con altro.

Vabbè dai, iniziamo, tengo famme.

L’involtino cilindrico è buonissimo. Dentro ci sono le verdure diventate un impasto fine. Come al solito il piccante va oltre. Mentre lo mangio con forchetta e coltello mi domando che cosa sto facendo. Se fosse un crocchè forse lo mangerei pure con le mani, dà più sfizio, ma vabbè dai facciamo la parte di incivili macchinosi occidentali fino in fondo.

Poi assaggio insieme un pezzetto di quella specie di fazzoletto di pasta sottile, quadrato, che sta sul fondo del piatto. Mah, non è che sappia proprio di molto. Anche questo non contiene nè pesce nè carne. Sono vegetariano e mentre ordinavo mi chiedevo se in questo momento faccio bene, ché forse per assaggiare tutto per una volta un’eccezione si potrebbe fare. Ma no, poi ci ripenso, la cosa migliore è che ognuno faccia, come crede, il suo viaggio.

Mentre sto per finire l’antipasto vedo tornare il cameriere: mi sta portando una montagna dentro un piatto.

Quando lo vedo penso che sono da solo, qui invece ci si può mangiare in parecchi. Allora gli dico se magari ne può togliere una parte prima che inizio, per evitare che sia solo uno spreco. Lui capisce, perché fa un segno universale con la mano e dice half, metà, nello stesso momento.

Bene, allora attendo che torni a riprendere il piatto e non lo tocco.

Aspetto, aspetto, ma non succede niente. Va in giro a servire altri piatti nel frattempo. Vabbè dai facciamo una cosa: ne prendo col cucchiaio pulito da quel piattone una parte e la metto, per mangiare, in quest’altro piatto.

Bene, ci siamo, assaggio.

Cavolo, quanto è buono questo riso. Buonissimo, buonissimo, e di nuovo lo guardo e lo mangio e lo guardo, comm’hanno fatto? A vederlo sembra normale: riso, carote, zucchine, ingredienti comunissimi, neppure troppi, ma quando lo mangiate sentite un sapore, forse tanti, probabilmente sarà proprio il riso stesso, lungo, sottile, un poco curvo, veramente buonissimo, forse già l’ho detto. Ma niente niente faccio che il piattone me lo mangio tutto?

Finisco quello che ho e ne riprendo altro. Poi basta dai, è davvero tanto. Torna il cameriere, vede che ho finito e mi chiede se voglio che mi metta dentro un vassoio di alluminio il resto per portarlo. Inizialmente dico di no.

Lui si ferma un momento, guarda un po’ sfocato, inizia ad agitare la testa sui due lati.

Io riprovo a dire, lui sorride, dice un mezzo sì, poi di nuovo dondola la testa, più forte, in aumento. Finalmente dice: “non avere capito”, con un sorriso un poco rosso.

Allora non lo so che penso, gli dico di sì, che lo voglio, forse è più facile da dire oppure in realtà è quello che penso veramente, e allora tutti i segnali che mando sono sulla stessa frequenza e lui non può fare a meno di capire.

Dopo qualche minuto mi porta un pacchetto ben confezionato. Salgo alla cassa, pago ed esco con dentro lo zaino, contentissimo, un pezzetto del mio giro del mondo.

Una camminata mo ci vorrebbe proprio.

Istintivamente mi avvio dentro la Sanità: la pasticceria italiana è famosa in tutto il mondo, Poppella sta qua vicino, è domenica, ci vorrebbe pure il dolce.

Il vicolo della cultura

Concluso il mio pranzo internazionale mi viene un’altra idea, anzi un ricordo: il cricket è lo sport nazionale dello Sri Lanka, nel 1996 hanno vinto pure la Coppa del Mondo, e non lontano da qui, a Capodimonte, dentro al bosco, c’era un’area dove spesso li avevo visti, di domenica, giocare.

Allora continuo a camminare, passo sotto la seconda casa di Totò, il vicolo della cultura, poi le scale che conosco e in pochi minuti sono a Capodimonte, passato in una spaccatura del tufo millenario, dentro al bosco.

La roccia di tufo su Salita Capodimonte

Sui cartelli affissi lungo i viali c’è ancora scritto: Area cricket, in azzurro nella macchia ovale. Ieri hanno aperto il parco di nuovo dopo il vento forte e allora lo cerco.

In azzurro l’area cricket sulla mappa nel bosco di Capodimonte

Quando ci arrivo a fianco c’è un nuovo campo, bello, per il calcio, e il posto dove c’era il cricket c’è una recinzione che lo taglia in due.

Il campo di calcio nuovo e la recinzione sul fondo dove si trovava l’area cricket

Esco, sul pullman mi trovo seduto di fianco un ragazzo singalese, nessuna sorpresa se uno sta viaggiando in quel Paese. Gli chiedo se per caso sa qualcosa di quel campo.

Mi dice che non c’è più già da prima della chiusura del bosco: forse perché erano molti i singalesi che ci andavano, e ingombravano per giocare davvero troppo spazio. Però sembra che adesso ci sia un posto dove, a pagamento, ancora giocano. È un ottimo indizio, un’altra volta, appena potremo uscire, magari lo cerco.

A presto per la continuazione del viaggio, andremo a visitare un piccolo tempio.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

(Fine terza parte, qui trovate la quarta).

VISIONI – Wolves coming: a piazza Municipio napoletani e turisti tra i lupi

22 novembre 2019

Dicono che da qualche giorno piazza Municipio sia “invasa dai lupi”: andiamo a vedere.

Cento lupi di ferro, grossi, marroni, stanno sparsi, avanzano tutti verso una direzione, dal mare verso la parte alta di questa piazza grande. C’è parecchia gente che guarda, ci cammina in mezzo, sorride, a questo branco che digrigna i denti: napoletani, turisti, tutti molto curiosi.

Qualcuno fotografa gli animali cattivi, qualcun’altro se stesso in mezzo a loro; c’è chi ci si siede sopra semplicemente per riposarsi i piedi. Una coppia isolata di turisti per un attimo sembra circondata: lui sta fermo, apparentemente calmo, però l’ombrello lo tiene a fianco come se fosse una spada.

È l’installazione di Liu Ruowang, un artista cinese che da pochi giorni (e fino al trentuno maggio) anima questo spazio largo tra il Maschio angioino e il Grand Hotel de Londres. L’opera s’intitola: “Wolves coming”, cioè “I lupi che arrivano”. Rappresentano la natura che viene a ricordarci, con lo sguardo feroce, che con il nostro pianeta non ci stiamo comportando bene. Che stiamo esagerando, stiamo prendendo troppo spazio alle altre specie, e lo vediamo in tanti modi, ovunque, pure senza lupi, pure dai pesci nell’acqua altissima a Venezia, dentro un’altra piazza.

Sto ancora a gironzolare tra questi grossi quadrupedi di ferro, a dimensioni sovrannaturali, pesanti ognuno quasi trecento chili. C’è un signore che porta a spasso il cagnolino. E lui sta tranquillo, non li teme, capisce che i denti non li digrignano per lui.

Un altro cane piccolo si fa grande salendo sul dorso dell’antenato enorme.

Qualcuno ci passa in mezzo solo per andare dall’altro lato della piazza, però si avverte che un poco questa presenza la sente.

Due ragazze discutono, cercano la posizione migliore, provano e riprovano per farsi una foto nel branco. Poi mentre vanno via una ha l’espressione seria, guarda negli occhi un lupo che pare che le stia tirando il lembo della giacca con i denti.

Vado verso l’alto della piazza, lì c’è il centro dell’opera, il punto verso cui tutto il branco famelico converge: un guerriero accerchiato, in posizione di difesa, sopra una collinetta, la spada sollevata sopra la testa, pronta. Sembra un misto tra un guerriero mongolo e un giocatore di baseball yankee.

A un certo punto due bambine compaiono in mezzo ai lupi. Piccole, in piedi sono esattamente all’altezza a cui uno a bocca spalancata mostra i denti.

Una delle due si avvicina, lo accarezza, sembra che gli parli. Poi lo abbraccia, passa il suo piccolo braccio proprio tra le fauci spalancate, con tutta la naturalezza del mondo: se guardate la foto sembra che il lupo allora con lei giochi.

Forse la bambina ha capito più del grosso guerriero. Lui si è messo in alto, sopra un piedistallo, ha calzato l’elmo e sfoderato la spada, lei cammina con le scarpe basse e la maglietta bianca in mezzo al branco e ottiene una reazione migliore. Lui è assediato, lei con quelle stesse zanne addirittura ci gioca.

Forse dobbiamo scendere dal piedistallo, forse dobbiamo farci piccoli, dimenticare un po’ la nostra adorata tecnologia con cui al mondo rubiamo troppa forza, superare le nostre paure che ci portano a logiche di puro guadagno, e andare più vicino a tutti gli altri abitanti.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

IL VIAGGIO (2) – Seconda parte del nostro giro del mondo ecologico, senza muoversi da Napoli. Scuole srilankesi

Nella prima tappa di questo viaggio (se ve la eravate persa qui la ritrovate) eravamo appena entrati in contatto con questo viaggio strano, andando in Sri Lanka, ma senza allontanarci troppo, diciamo verso via Toledo, altezza piazza Dante; oggi continuiamo.

Giorno 2, venerdì 6 dicembre 2019

Ho appuntamento alle dieci di mattina alla scuola singalese, forse la più grande di Napoli.

Sta a via Santa Monica, quella che dall’incrocio tra via Salvator Rosa e via Imbriani inizia a entrare dentro il quartiere Montecalvario.

St. Anthony’s International School, scritto grande sopra il portone, e a destra l’immagine del Santo, il nostro, italiano, da Padova, avrà fatto un giro lungo.

Arrivo puntualissimo, la porta della scuola è aperta ma nell’atrio la scrivania è vuota. I muri sono colorati: bianchi, gialli e verdi. (Ci metto tre mesi a capire che forse richiamano due dei colori della loro bandiera).

Aspetto un poco ma non succede niente. Allora salgo i pochi gradini ed entro dove sento voci di bambini e maestri. Intravedo, attraverso la porta della classe, ragazzi e ragazze seduti in ordine, tutti vestiti uguali: completo blu, camicia bianchissima con la cravatta a righe.

La maestra mi sorride e viene a vedere di cosa ho bisogno: le dico che avevo appuntamento con il direttore della scuola ma non trovo nessuno. Chiama un altro insegnante che al momento non deve stare in classe.

È un signore sulla sessantina con un portamento elegante: gli spiego e chiama per telefono uno di quelli che avrebbero dovuto essere qui adesso.

Sono bloccati nel traffico tra qui e la stazione centrale, stanno a momenti per tornare.

Il prof. Sundil mi racconta che nei giorni scorsi era venuto a Napoli un importante professore singalese in visita e stamattina lo hanno accompagnato al treno di ritorno, in auto.

A quest’ora non un’impresa facile, quasi mai.

Nel frattempo mi tiene compagnia e allora inizio a chiedergli, di lui e di questo posto.

Sono in Italia da diciassette anni, prima a Milano poi a Napoli, adesso sto per tornare. A breve, sì, vorrei tornare.

Si vede, e lo dice, che quello adesso è un suo pensiero forte. Questa scuola, mi racconta, serve soprattutto ai singalesi che vogliono ritornare dopo un po’ di anni a casa. E lo consiglio anche ai miei studenti. Io potrei tornare e insegnare in Sri Lanka, fare qualcosa per il mio Paese. C’è tanto da fare. Nelle campagne, per esempio, nelle scuole, mancano molti docenti.

E mi viene in mente quello che pensavo anch’io dopo tre anni vissuti in Olanda, dopo aver scritto sul questionario di quel Comune, alla domanda: “How long are you planning to stay in the Netherlands?” (cioè: “Quanto tempo pensa di rimanere in Olanda?”) la risposta secca: “Forever”, per sempre.

Ecco, anche io pensavo, dopo quei tre anni, che invece sarebbe stato bello tornare a casa, ché se non li risolviamo noi i problemi di casa nostra chi vogliamo che li risolva al posto nostro? E che appunto avrei voluto, invece di lavorare per un’azienda statunitense, spendere energie per costruire qualcosa nella città di Napoli. Glielo dico, perché la risonanza è troppo forte per fare soltanto l’intervistatore, su questo argomento, oggi, in questo posto. Annuisce, non aggiunge niente, non ce n’è bisogno.

Lui insegna inglese e mi racconta che scrive anche poesie, in singalese, inglese, anche in italiano ha provato. Poi vediamo se riusciamo ad averle ed a farvele leggere.

Ecco, arriva il direttore della scuola.

Si scusa per il ritardo e spiega che il motivo, come vi ho detto sopra, era molto particolare, veniva da molto lontano.

Inizio a domandargli.

Ci sono circa duecento studenti in questa scuola. Chi vuole tornare in Sri Lanka e continuare i suoi studi (questa scuola va dalle elementari alle medie), lì deve superare un esame. Quelli che vanno a scuola in Italia normalmente, nelle scuole statali italiane, avrebbero una conoscenza della loro lingua di origine appresa soltanto parlando, non studiandone la grammatica, incontrerebbero parecchie difficoltà a superare quell’esame, e non sarebbero abituati, come diffuso in Sri Lanka, a studiare soprattutto in inglese.

Circa l’80% dei singalesi, circa quindicimila in totale che sono a Napoli, vogliono tornare, lui dice, dopo magari parecchi anni, a casa. La cosa è un po’ cambiata dopo gli attentati jihadisti di Pasqua del 21 aprile 2019, e diversi ragazzi da quel giorno hanno lasciato questa scuola e sono andati a frequentare le scuole pubbliche del loro quartiere.

Facciamo un giro per le aule insieme a lui. Fotografo pochissimo per evitare di riprendere gli studenti.

Alcune allieve stanno in una sala coi computer ognuna davanti ad un monitor, guardando filmati in inglese. C’è una piccola aula per la musica. Un armadio con alcuni uccelli impagliati e antichi modellini per le scienze.

La struttura è molto semplice, però i ragazzi, mentre parlavamo, che avevano bisogno di qualcosa, una fotocopia, un permesso, cominciavano la loro frase con “Excuse me, sir”, in piedi, a una certa distanza, con le braccia dietro la schiena, con l’espressione di chi cerca, più che può, di non disturbare.

Uscendo vedo su una mensola alcune coppe: allora chiedo.

È il campionato italiano di cricket: abbiamo vinto il primo premio sia under 13 che under 15 a ottobre 2019. Ho affittato un campo per sei mesi per fare allenare i ragazzi e i risultati ci sono stati. È il loro sport nazionale. Anche il signor Costa era un giocatore della nazionale singalese ma di un altro sport: l’hockey su prato.

Interessante questa visita. Un posto così a Napoli non lo avevo mai visto, neppure pensato.

Scendo, esco dal portone e sento che sono in viaggio. Un poco di fatica c’è pure, non ci sarebbe, credo, se avessi visitato un altro luogo. La mia testa forse sente che si trova parecchio lontano da casa.

Vado verso su. È un buon orario per uno spuntino, mi hanno detto che qui c’è un altro take away singalese. Proprio all’inizio, in alto , di via Salvator Rosa.

Entro, vedo una specie di cubo di pasta. Chiedo come è composto, mi convincono, lo assaggio: un impasto sottile, dentro porro, patate, e mille spezie, se non ho capito male si chiama lolodi, o qualcosa di simile: ottimo, se vi capita… ve lo consiglio. Secondo me ‘sto cibo singalese da asporto può essere un’ottima alternativa, per cambiare ogni tanto, a quello nostro napoletano: un lolodì al posto, qualche volta, di un crocchè al volo.

Giorno 3, lunedì 9 dicembre 2019

Stamattina andiamo a vedere una piccola associazione culturale e scuola di danza, sta su via Salvator Rosa, non lontano da piazza Mazzini, si chiama Nipuna.

Stavolta, cosa rara, sono arrivato in ritardo di mezz’ora. Quando entro ci sono dei bambini che cantano, guidati da alcune signore. Bella melodia, belle queste piccole voci.

Il direttore mi fa accomodare e mi dice che però i bambini stanno pregando, quindi dobbiamo un attimo attendere per poter parlare.

In mezzo a tutti quei suoni, a un certo punto, un paio di volte, riconosco, le uniche in italiano, le parole ave Maria.

Poi finiscono di cantare.

Un piccolo bambino si allontana dal gruppo e viene un poco più vicino. Mi vuole guardare, sarà anche lui un curioso viaggiatore.

Questa è una associazione culturale che si occupa anche di corsi di danza. I bambini stanno qui la mattina fino al pomeriggio. I genitori, che spesso fanno i domestici o i badanti, lavorando tutto il giorno, hanno difficoltà a tenerli a casa. La stessa cosa me l’aveva detta il direttore della St. Anthony’s.

Gli chiedo perché secondo lui i singalesi vengono a Napoli.

Per motivi economici: in Sri Lanka non c’è abbastanza lavoro e anche la corruzione a livello pubblico si nota.

Lui ha detto esattamente: “mio Paese no buono: loro tutto tutto mangiare, loro, solo loro”.

E mi sembra una frase già sentita, ma veniva da meno lontano, e glielo dico. Ma evidentemente da loro la suonano molto più forte.

Anche qui ci sono delle coppe all’ingresso uscendo. Le hanno vinte in competizioni di danze singalesi. Mia moglie è una esperta maestra di danza. Qualche corso lo abbiamo fatto anche per studenti di un’università qui a Napoli: imparavano subito, si erano appassionati.

Bene, ringrazio, un altro piccolo pezzetto del mosaico lo abbiamo.

Quando esco inizio a scendere lungo via Salvator Rosa. A un certo punto vedo una statuetta di Buddha dentro una vetrina, mi giro, guardo meglio: è una cartoleria. Mi sa che è singalese pure questa, entriamo.

Una signora giovane, i muri verniciati di fresco. A questo punto sono curioso di sapere se vogliono pure loro tornare al Paese d’origine o vogliono semplicemente restare. Sto in Italia da 19 anni, i miei figli vanno alla scuola pubblica italiana, per adesso vogliamo restare. La cartoleria l’hanno aperta da solo una settimana, allora gli facciamo gli auguri.

Poi mi danno diverse dritte su altri posti di Sri Lanka a Napoli da visitare, mi sa che questo viaggio singalese ha ancora parecchio da farci vedere.

(fine della seconda parte, continua, qui trovate la terza parte)

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)