INCONTRI – Maria Massa e la sirena Partenope

Settembre 2017

Partenope la sirena, quella che per non essere riuscita a fermare Ulisse, nel mito, venne a morire sull’isolotto di Megaride, dove sorge oggi Castel dell’Ovo; la “fondatrice” di questa città. È un mito che va riscoperto e rivalutato. C’è venuto in mente allora che una nostra vecchia amica, architetto, pittrice, insegnante di arte, già alcuni anni fa era stata attratta da questo tema. Si chiama Maria Massa, la andiamo a trovare per vedere i suoi quadri e farci raccontare.

Quando all’inizio ho pensato questo essere, ho pensato all’essere femminile, ad un essere femminile generico, e mi è venuto in mente che un’entità generica e iconica poteva essere proprio la sirena e la sirena all’inizio non era specificatamente Partenope ma la sirena come mito. Che sta a metà tra l’emerso e l’immerso: ha una parte che staziona nel liquido, senza peso, e una sensibilità che è tutta taciuta, perché nell’immerso non c’è suono, ed invece un’altra metà che affiora. Questa cosa di stare tra due dimensioni, la terra e il mare, mi affascinava moltissimo e secondo me è propria del femminile, che ha questa doppia anima. Ecco l’ho pensata come essere che sta al confine”.

E inizia a mostrarci un quadro rettangolare, di dimensioni maggiori degli altri.

Ci illustra i dettagli: “vedi qui c’è il collo, questo è il braccio della sirena che abbraccia una medusa”; si vede e non si vede, ci sono tutti gli elementi che lei cita, ma appena accennati; poi finalmente lo dice: questo è il dettaglio di un altro quadro, più piccolo, quadrato.

Eccola, eccola la sirena: adesso è evidente, la testa, il braccio, non ha né artigli da uccello né coda da pesce, ma le scarpe. E c’è un piccolo pesce blu che le sussurra qualcosa all’orecchio. Ecco, come la sirena, Maria era partita dal dettaglio, dalla parte sommersa, inespressa, poi ci ha portato alla luce il significato.

Ecco un altro quadro, i colori sono simili, c’è tanto blu, un blu molto energico, e stavolta la sirena, lei dice, è proprio Partenope: è emersa, è venuta al mondo, sta solo leggermente girata di spalle, le sirene non sono mai totalmente afferrabili, e sullo sfondo c’è il nostro vulcano. “Questa sancisce il mio attaccamento alla città, perché è mare, sta nel mare; e io mi sono resa conto che senza mare non posso stare”.

Di questo quadro ha dipinto anche un’altra versione: “un giorno che avevo incontrato un vecchio amico del liceo e chiacchierando avevamo molto riso mi è venuto da dipingere questo”. La sirena sta nell’identica posizione, ma adesso i colori sono caldi, è un quadrato color oro, ha caratteri lievemente orientali e a guardare attentamente sorride.

Su un’altra tela c’è un vascello rosso sulla cresta di un onda ricurva, alto, molto in alto. Poi due quadri rosa: “quello l’ho dipinto quando aspettavo mia figlia, non sapevo che faccia avrebbe avuto e me la sono immaginata così; l’altro l’ho dipinto nel periodo in cui la allattavo”.

Anche il logo di Maria è significativo: è un Vesuvio con le onde del mare, “l’unione tra fuoco e acqua, i due opposti che convivono in questa città”.

Ci sono altri quadri, un grande quadro rosso con tutti i pezzi degli scacchi, sembra l’illustrazione moderna di una favola antica.

E poi c’è, appoggiata a terra, una grande tela di un colore bellissimo.

È solo la tela per adesso, sul suo telaio. Un po’ di tempo fa l’aveva preparata cospargendo la tela grezza con la mistura fatta a mano, la mestica, con la ricetta che usavano nel Rinascimento. È di un colore caldo, calmo. Sopra la tela è poggiato un grande foglio di carta, un bozzetto di una grande sirena. Ci dice: “la tela è pronta per un quadro ad olio, da un po’ di tempo, però non l’ho cominciata più, mi sono fatta prendere dalle altre cose della vita”.

A noi piacerebbe molto vedere un’altra Partenope, dipinta a olio, su quella grande tela. Chi sa, magari dopo questa chiacchierata le viene voglia di ricominciare a lavorare a quel quadro. Voi che ne dite, la incoraggiamo?

(Articolo già pubblicato sul giornale on line Identità insorgenti)

Testo e foto Francesco Paolo Busco

STAZIONI DELL’ARTE – La linea 1 della Metropolitana. Da Scampia al cuore di Napoli, un viaggio sotterraneo tra le opere e la gente. Sottosuolo comune, inconscio collettivo

26 gennaio 2018. Articolo già pubblicato sul giornale online Identità insorgenti

Mancano pochi giorni a Natale, siamo vicini al solstizio d’inverno, quando il giorno è il più corto e il buio il più lungo dell’anno. Al direttore di questo giornale viene in mente che potremmo occuparci della Linea 1 della metropolitana, quella con le Stazioni dell’arte. L’ufficio stampa di ANM e la responsabile della parte artistica ci accolgono con entusiasmo, ci autorizzano, e partiamo.

Allora per tre giorni andiamo in giro per il fondo, uno dei possibili, mille, di questa città.

Ecco quello che abbiamo visto: è solo una delle possibili visioni, non è la linea metropolitana, non sono le stazioni dell’arte, è solo un viaggio personale dentro la città del profondo.

Passa una ragazza, lungo il muro della stazione della metro di Scampia, e scopre due giovani che si arrampicano, uno sulle spalle dell’altro, per raggiungere il cielo. I muri sono colorati di allegro, tutto sembra sereno.

Però qualcosa dev’essere andato storto, qualcuno dev’essere andato oltre, qualcosa deve averci preso, a tutti noi, la mano. Perché ora lassù c’è Icaro, aggrappato ad un palazzo, dentro un cielo che pare troppo alto, e lui sembra solo, avvolto in una mancanza di respiro, nella solitudine di altezza da astronauta rimasto chiuso fuori dalla navicella spaziale.

Anche il cielo sembra diventato triste, nemico, grigio mischiato di azzurro. Icaro cade, e la realtà pare che inizi a sbriciolarsi piano: crolla riflessa in molti angoli rotti nelle pareti a specchio dei muri di questa stazione. Colori spezzettati, totem clown scarabocchiati, l’unica via d’uscita è questa scala mobile che ci porta in basso.

Nell’ingresso, per terra, c’è un uomo che dorme, anche lui da solo, perfino la sua ombra sta dall’altro lato del corridoio specchiato. In questi giorni hanno aperto alcune stazioni per far dormire al caldo, fino a una certa ora, quelli che non hanno una casa loro.

Lui è restato, il suo sonno era molto più grande di qualunque orario. In un mosaico autoritratto pure Kentridge sta accovacciato, tenta di rialzarsi, più di una volta, ma ricade. Forse perché bisogna scendere, in questo momento dell’anno, per potersi rialzare.

Fortuna che oggi la Sibilla ha aperto qui il suo antro, travestito da ascensore. Le porte si aprono e le sue sacerdotesse ci prendono per mano in un cerchio arcaico, di danze, sonoro.

Occorre scendere, occorre seguirle per poter risalire. Mille pulcinella nuotano in un mosaico azzurro, anche una sirena è con loro, allora siamo dentro al mare giusto.

Da un muro bianco si affacciano antichi spiriti guerrieri sopra la scritta ai treni.

Siamo, in questo viaggio, adesso, nella parte lunare. E un’altra guida ci appare: è il pupazzo del carnevale di Scampia, quello della Morte: siamo sulla strada in discesa, verso la notte, verso il centro di ciò che non sappiamo.

Ecco, infatti un muro racconta: “Sogno nere immagini spezzate. In viaggio per labirinti elettrici mi perdo nel gioco delle ombre”.

Un sipario rosso fuoco; un atleta su un’altalena di pianoforte rovesciato. Facce umane invocano, urlano, qualcuno piange.

Una colata di rame fuso ci trascina ancora di più verso il profondo.

Poi c’è Dante davanti alla porta, perdete ogni speranza o voi ch’entrate, per Montecalvario.

Ci porta su un fiume sotterraneo.

Incontriamo gente, tante persone, lungo cunicoli; alcuni stanno seduti per terra, altri cercano l’uscita dentro corridoi che scorrono da soli. Pupazzi neri e automobili dimenticate.

Poi un bosco di ombre, e dentro ci camminano figure. Altri con un carretto fanno un trasloco di tutto: la prima cosa che si portano dietro è un albero chiamato libertà, da ripiantare appena arrivati al sicuro, in un altro posto.

Fiamme atroci, fredde, di colori accesi. Il serpente antico, archetipo, sempre lo stesso. Fotografie di statue, con gli occhi sorpresi, a fianco c’è scritto “Museo” ma a me non sembrano abbastanza finte.

Ancora colori forti, contrastanti, poi troppo troppo rosa

e …

BOOOOOOMMM!!!!!! Un enorme rumore e un macigno spiaccicato a un millimetro da noi. Il vetro, anche se lesionato, ha retto.

L’avrà fermato San Gennaro con la sua mano, o qualcun altro premendo il tasto di emergenza “STOP”. Finalmente c’è una scritta “Uscita”, poi un’altra, punta in alto, come una spirale.

Metallo lucido in rilievo e fili neri dicono in maniera totalmente esplicita la nascita del mondo, dolorosa e dolce.

Freud su una scala: Attraverso sotterranei di fluido scorrimento di un rumoroso andare, dal buio infero alla città di luce.

Ah ecco, dopo il colpo fortissimo, era il punto più basso, pare che si inizi lentamente a risalire.

Ecco una luce, lunga, lunghissima, viene dalla superficie. Ci porta in alto fino ad un uomo in riva al mare e alle finestre chiare. Poi bambini dentro un murale.

Ecco, ecco siamo risaliti fino ad un nuovo cielo: Felice Pignataro a braccia aperte che sorride con i suoi colori, più potente di Ercole semidio dopo le dodici fatiche, forse ci ha salvato.

Guardando di nuovo in alto il cielo adesso è azzurro, finalmente al posto di Icaro ci vola un uccello, nel cielo di Scampia: più saggio, non esagera, non si brucia, non precipita; il sole sorride.

Natale è passato, il solstizio pure, ora siamo fuori dalla notte, la luce è forte, questo piccolo viaggio sotterraneo napoletano forse adesso al direttore del giornale lo possiamo consegnare.

Però voi siete sempre in tempo, andando in giro con questi treni sotterranei, facendovi ispirare dagli artisti che hanno contribuito con il loro segno, a fare il vostro viaggio profondo personale.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

INCONTRI – Ginevra Caracciolo, una giovane velista sulle orme dell’Ammiraglio

10 gennaio 2024

Ginevra Caracciolo, napoletana, diciassette anni, velista campionessa del mondo 2022 nella classe ILCA 4, vice campionessa del mondo 2023 in ILCA 6, vice campionessa italiana giovanile 2023, quarta classificata al campionato del mondo under 21 nel 2023.

Ma -poiché il destino ci mette del suo- Ginevra è la discendente dell’ammiraglio Francesco Caracciolo, duca di Brienza (1752-1799), per parte di padre, che si chiama, per l’appunto, come l’avo illustre: Francesco Caracciolo di Brienza.

Oggi parte per l’Argentina, dove si disputerà il Mondiale 2024 under 19. La incontriamo al Molosiglio, alla Lega navale di Napoli, circolo presso cui è tesserata, dopo l’allenamento.

Come hai iniziato ad andare a vela?

Mia sorella maggiore aveva iniziato a sei anni e vedevo che mio padre, appassionato di questo sport, le dedicava molto tempo. Poiché sono molto legata a mio padre, quando ho compiuto otto anni ho iniziato a fare vela anch’io.

Eri un po’ gelosa?

Sì.

Consapevole, diretta, con un lieve sorriso ma senza troppi giri di parole.

Ho iniziato nella classe Optimist e ho visto che mi piaceva molto, anche regatare. Per indole mi piace la competizione. Trascorrevo ore a guardare video di velisti più bravi per imparare più velocemente.

Porti un cognome particolare, quello di un grande uomo di mare napoletano: l’ammiraglio Francesco Caracciolo.

Sì, è un mio antenato.

Qualche anno fa è uscito un libro molto dettagliato sulla sua figura, lo hai letto?

Conosco quel libro perché l’autrice, Sylvie Mollard, aveva contattato mio padre e ricordo che di pomeriggio a volte si mettevano qui nel circolo a scrivere. Mio padre mi chiede sempre di leggerlo ma non l’ho mai fatto. Però il professore di storia ci ha fatto studiare la sua figura in maniera piuttosto approfondita.

A proposito di scuola: come si riesce a conciliare con un’attività così impegnativa?

Durante le regate, quando sono fuori, cerco di restare comunque connessa con quello che succede in classe. Alcuni miei compagni mi passano gli appunti. Non è semplicissimo perché i professori sono tolleranti finché studi e vai bene, nel momento in cui prendi un brutto voto iniziano a dirti: “perché tu fai troppa vela”. Certo, dopo la vittoria del mondiale sono diventati un po’ più tolleranti perché hanno capito che per me è una cosa seria. E comunque credo che gli sportivi siano un po’ abituati ad una vita molto intensa; io se non ho niente da fare mi annoio, quindi spesso i compiti me li anticipo e alla fine ho una buona media.

Ci racconteresti le regate che sono state più importanti per te? Come te le ricordi?

Sicuramente mi è rimasta impressa la prima regata che ho vinto, in classe Optimist, perché dopo tanti sacrifici finalmente ero riuscita a raggiungere un risultato. Poi ci sono i vari campionati europei e mondiali a cui ho partecipato, anche perché sono regate che durano più giorni e quindi sono esperienze che restano. La più importante è stata il campionato del mondo 2022 a Vilamoura, in Portogallo. Un mese prima avevo partecipato al campionato europeo in Polonia che avevo chiuso all’ottavo posto. Ero rimasta un po’ delusa dalla prestazione e quindi ero arrivata in Portogallo dopo un mese di vacanza, molto serena e pronta a dare il meglio. Dopo qualche giorno ero prima in classifica.

Ritrovarsi in testa durante una regata così importante è psicologicamente impegnativo. Prima delle regate stavo sempre ad ascoltare musica, cantavo, anche per dare un segnale alle avversarie, mostrarmi serena; ma in realtà dentro morivo.

E di nuovo sorride.

Il momento di maggior tensione in una regata è la partenza. I battiti cardiaci arrivano a frequenze alte anche se dal punto di vista fisico è il momento meno impegnativo. È che se parti male, soprattutto in una regata del mondiale, dove tutti i concorrenti sono veloci, è difficilissimo recuperare. In quei momenti è importante tranquillizzarsi da soli e in questo mi aiutano degli esercizi di respirazione.

Quanto è importante invece l’aspetto tecnico? Avere una barca bene a punto?

Io ci tengo molto ad avere la barca “perfetta” ma anche questo alla fine ha un risvolto psicologico, perché mi fa essere sicura che non avrò problemi riguardanti la barca e potrò concentrarmi sul resto. E poi non devo avere la possibilità, se vado male, di inventarmi la scusa che era colpa della barca.

Hai sottolineato più volte che la gestione del lato mentale è delicata.

Sì, bisogna riuscire a restare tranquilli. Quando capita qualche inconveniente mi dico: va bene, è successo, cerca di concentrarti su quello che devi fare ora, ci pensi dopo. È una cosa che ho capito nel corso del tempo: riassumere gli errori soltanto alla fine della regata, non durante, altrimenti non riesci ad essere lucido e a vedere per esempio un salto di vento.

Ti alleni anche in palestra oltre che in barca?

Sì, mi alleno quattro giorni in barca e tre in palestra, sia in acqua che a terra con Cristiano Panada; ogni tanto facciamo qualche lezione con i tecnici della nazionale su meteorologia, alimentazione o preparazione fisica.

Abbiamo anche la possibilità di inviare i tracciati della frequenza cardiaca rilevati in allenamento alla federazione e di fare allenamenti in palestra seguiti in video lezione da tecnici federali.

Ma in allenamento vi aiutate a vicenda?

Quando mi alleno con le veliste della nazionale magari ci sono atlete più generose con i consigli, altre meno, mentre quando mi alleno qui con i ragazzi del gruppo Laser della Lega Navale e vedo che qualcuno è un po’ in difficoltà mi fa piacere dargli suggerimenti; è capitato anche oggi.

Perché praticare la vela?

È uno sport che ti responsabilizza molto. Devi gestire da sola la barca nelle condizioni meteomarine più diverse. Poi, se arrivi a livelli buoni, inizi a fare regate fuori e questo ti fa crescere ulteriormente: stare lontani da casa a dieci anni può essere molto formativo. Inoltre, essendo uno sport che si svolge a stretto contatto con la natura, ti fa vedere concretamente che curarsi del pianeta è importante: navigare in un mare sporco, soprattutto su barche così piccole, così vicini all’acqua, ti colpisce molto.

Il tuo rapporto con la città?

Vorrei restare a vivere a Napoli. Penso che Napoli abbia quasi tutto quello di cui una persona ha bisogno, per esempio, dal mio punto di vista, io ho bisogno del mare.

L’intervista è finita: si alza -avrà già qualcos’altro in mente da fare- con una rapida calma, senza fretta ma senza perdere preziosi minuti.

Chi sa se l’Ammiraglio Caracciolo, che su questo specchio d’acqua, dalla sua casa di via Santa Lucia, affacciava e che qui aveva vissuto il suo ultimo tragico giorno, non sia contento di vederci una sua discendente, con tanto entusiasmo, di nuovo, navigare.

Intervista a Ginevra Caracciolo, a cura di Francesco Paolo Busco, già pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno Napoli il 10 gennaio 2024.

Foto: Cristiano Panada e Francesco Paolo Busco

ALBERI NELLA CITTÀ – Il Podocarpo sdraiato di piazza Cavour

A piazza Cavour c’è un albero particolare. Un Podocarpo.

Non lo avevo mai notato. Poi una dirigente dell’Ufficio verde del Comune mi aveva detto: Ce n’è un altro, a piazza Cavour, è caduto ma non lo abbiamo rimosso.

Inizialmente non avevo capito il motivo. Credevo fosse ornamentale, poi sono andato a vedere.

Non credo ci siano molti alberi monumentali caduti, orizzontali, nei parchi cittadini italiani. Sta sdraiato con una sua grazia, sembra si appoggi con un ramo braccio che lo tiene sollevato ad un metro dal suolo.

Uno penserebbe, vedendolo caduto, che sia morto. E invece è ancora verde, ha ancora le radici in funzione, interessante. Lo hanno depennato dall’elenco regionale degli alberi monumentali però mi pare molto emblematico, somiglia a questa nostra città che pur battuta dalle tempeste della storia non muore, e che qualcuno pensa che stia sdraiata per congenita pigrizia mentale. Conserva la sua nobiltà antica ma non rientra in nessuna classificazione ufficiale.

© 2022 Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

INCONTRI – In questi giorni di guerra in Europa andiamo alla Sanità, a trovare padre Zanotelli, in cerca di parole di pace

Napoli, 3 maggio 2022.

L’abitazione di padre Alex Zanotelli dovrebbe essere proprio attaccata al campanile di Santa Maria della Sanità, la chiesa principale del quartiere, ‘O Monacone, come la chiamano quelli della zona.

Giro l’angolo della torre alta con in vetta una croce, e a due balconcini minuscoli, uno sopra l’altro, vedo affissa le bandiere della pace, consumate dal sole. È qui che dev’essere.

Benvenuti sta scritto sulla porta verde, aperta. Entro.

Mille fascicoli di Nigrizia ammonticchiati; la bandiera arcobaleno Nonviolenza con le mani che spezzano il fucile; una citazione sul muro: Mi è stato dato di non poter restare a guardare lo scorrere del fiume, seduto comodamente… Sirio Politi; la foto sua in cerchio con gli altri: Io sto con Riace.

Sento voci dal piano di sopra, poi dalla scala a chiocciola vedo scendere un signore.

Padre Zanotelli scende subito, mi dice. Fa parte di un gruppetto di Emergency di Forlì. Erano in città e sono passati a trovare padre Alex. Foto di gruppo nella piazza e vanno in giro a scoprire Napoli.

Buongiorno padre.

Buongiorno, andiamo, andiamo.

Rientriamo in casa. Sale di nuovo la stretta scala a spirale, poi si ricorda che è meglio spegnere la luce nell’ingresso perché si paga salata.

La porta invece lasciala aperta.

C’è una stanzetta minuscola, con il balconcino e la bandiera che avevo notato da fuori.

Stamattina ha un tono di voce calmo, mite; lo ricordavo molto energico, quasi concitato, nelle parole che durante le manifestazioni in città gli avevo sentito dire forti, chiare, ogni volta in favore di qualche diritto degli ultimi negato.

Anche qui mille foto appese ai muri. C’è anche Gino Strada che applaude.

Interessante questa casa, padre.

Abbiamo dovuto rimetterla a posto. Era abbandonata da ottant’anni perché ritenuto un luogo dove c’era “’o munaciello”.

Un trentino che parla napoletano suona più ironico.

Poi gli dico il motivo di questa visita: siamo venuti qui, in questi giorni di guerra alle porte di casa, in cerca di parole di pace.

Guarda, anche io venivo in qualche modo da tutta una tradizione guerrafondaia, sono anch’io uno che si è convertito alla nonviolenza, lentamente.

Quando ero uno studente negli USA ascoltai l’ultimo discorso di Dwight Eisenhower alla nazione americana, prima che cedesse il potere a Kennedy. Disse: “Popolo americano, ritengo che la vostra democrazia sia abbastanza solida, non vedo pericoli da fuori, ci potrebbe essere un pericolo che viene da dentro e vi potrebbe venire dal complesso militare industriale di questo Paese.”

Bada: penso che pochi generali siano stati altrettanto profetici.

Lo ha proprio detto con estrema chiarezza.

E ci hanno condotto prima con loro in quella guerra assurda dell’Afghanistan, e adesso in questa in Ucraina, addirittura in casa, in Europa. Chiaramente il problema per loro, a livello globale, sarà anche la competizione con la Cina, ma hanno voluto dare un bel colpo anche alla Russia cercando di indebolirla. E poi portandoci a staccarci dalla Russia accadrà che dipenderemo sempre dagli USA, avremo quasi certamente di nuovo la cortina di ferro e ritorneremo ai blocchi contrapposti e ad armarci. Basta vedere già in questi giorni la Germania che, pur avendo una Costituzione pacifista, decide di investire cento miliardi all’anno in armamenti. È questo quello che fa paura.

Io sono della stessa opinione di Papa Francesco, che ha avuto il coraggio di rompere finalmente quella tradizione della “guerra giusta”, e che dice: oggi con le armi che abbiamo: chimiche, batteriologiche, nucleari, abbiamo dato una tale potenza alla guerra che non ci può essere più una guerra giusta, perché rischiamo di arrivare davvero all’inverno nucleare; stiamo giocando con la vita umana su questo pianeta.

Ecco perché dobbiamo metter al bando la guerra, altrimenti sarà la guerra che metterà al bando noi.

Il tono è mite ma le cose che dice sono chiarissime.

La domanda ora è: come possiamo farlo?

Allora, il primo suggerimento che io ho dato, ancor prima che scoppiasse questa guerra in Ucraina, conoscendo la profonda religiosità sia russa che ucraina, e considerato che il cristianesimo anche russo viene dall’Ucraina -la città santa per tutti e due i popoli è Kiev, con la basilica di Santa Sofia- è stato di fare un passo come Chiesa. Avevo invitato i presidenti delle conferenze episcopali di tutte le nazioni europee, saranno circa venticinque vescovi, di andare in pellegrinaggio, anche sotto le bombe, sfidarle, entrare a Kiev, chiedere ospitalità nella chiesa di Santa Sofia e non uscire di là finché i contendenti non si fossero messi ad un tavolo. E per contendenti non intendo solo Zelensky e Putin, ma anche Biden.

Purtroppo la mia richiesta ai vescovi non ha avuto successo.

Abbiamo un Papa coraggioso, che parla chiaro, ma questa attitudine non sta passando alla base, questa è la cosa grave.

Io ho pensato ai vescovi, alle conferenze episcopali, perché sarebbero state un segno forte, altrimenti rischi che l’azione non abbia molto peso.

Altrimenti bisognerebbe che fosse l’ONU a muoversi, ma si è visto in questi giorni che l’Organizzazione delle nazioni unite è tenuta sempre meno in considerazione.

Ci vorrebbe una comunità internazionale per convincere sia gli USA che Putin a sedersi ad un tavolo e trattare.

L’Europa potrebbe giocare un suo ruolo ma è prigioniera della NATO, non ha una sua politica.

Giuseppe Dossetti, uno dei padri costituenti della nostra Repubblica, nel 1949, aveva opposto resistenza all’ingresso dell’Italia nella NATO dicendo: ricordiamoci che se entriamo nella NATO l’Italia non sarà più un Paese sovrano, la nostra politica estera la farà qualcun altro. Ed è questo quello che è avvenuto. Ma riconoscere questo, per noi non è facile.

La cosa strana è che, nonostante la grande importanza che attribuiamo oggi all’economia, l’Europa non veda che in questa maniera, con questo conflitto che ci sta separando dalla Russia e ci sta rendendo sempre più dipendenti dagli USA per il petrolio e il gas, la pagheremo cara a livello economico e finanziario. È la cecità su questo punto dei leader europei che non riesco a comprendere.

Anche a livello ecologico, comprare il petrolio dagli USA è proprio roba da pazzi.

E pensare che ai tempi di Gorbaciov, quando ci fu la riunificazione delle due Germanie, il leader sovietico diede il suo consenso a che la Germania Est entrasse nella NATO, ma a condizione che la stessa NATO poi non entrasse nelle altre nazioni dell’ex Patto di Varsavia. E noi invece abbiamo invaso tutto. La Russia così si è sentita accerchiata.

Si tratta di “quell’abbaiare della NATO alle porte della Russia”, di cui il Papa ha parlato proprio in questi giorni.

Oggi si sente ripetere: L’Ucraina sta combattendo anche per noi, per salvare i valori europei. Ma non è il solito gioco ad intimorire i popoli per farli acconsentire a reazioni anche forti? Per far scattare i meccanismi di autodifesa per i quali mi sento in diritto di reagire anche con la forza a situazioni che, rimanendo più lucidi, si potrebbe risolvere in maniera diplomatica?

Sì, hai ragione su questo punto della paura. Penso che sia proprio uno dei problemi fondamentali umani su cui bisogna lavorare. Perché porta al problema dell’incontro con l’altro. Questo si vede anche ad esempio nei confronti del musulmano, del nero.

Noi, vari gruppi che lavorano contro la guerra, contro le armi, siamo stati al Consolato russo e a quello americano qui a Napoli e gli abbiamo consegnato una petizione in cui chiedevamo di cessare il conflitto.

E intanto questa guerra ci fa perdere tempo rispetto al problema vero che è la crisi climatica?

Sì, e io vorrei anche sapere dagli scienziati quanto questa guerra ha fatto aumentare i gas serra e quindi che effetti avrà sul surriscaldamento del pianeta. All’interno degli USA, che è una delle nazioni che consumano più petrolio, è il Pentagono quello che ha il primato di consumo. Per cui anche in questo senso guerra e crisi ecologica sono collegate. Stiamo ballando su un doppio baratro, da un lato quello di una possibile guerra atomica, dall’altro quello della crisi ecologica: uno ci porterebbe all’inverno nucleare, l’altro all’estate incandescente del riscaldamento globale.

In sostanza la guerra non ce la possiamo più permettere?

Esatto. Come diceva Gino Strada: “Come siamo stati capaci di rendere l’incesto un tabù (oggi un tabù per tutte le nazioni) dobbiamo rendere la guerra un tabù”.

Martin Luther King lo aveva detto ancora meglio: “Siamo arrivati ad un punto della storia umana in cui o è la non-violenza attiva o la non esistenza”.

La cosa grave è la mancanza della Chiesa. Al di là di Papa Francesco, i vescovi dovrebbero essere chiari.

Per esempio quando nella “Evangeli gaudium” il Papa ha detto: ”Questa economia uccide”, ha spaccato la conferenza episcopale americana perché per i vescovi statunitensi mettere in discussione la loro economia è impensabile.

Capisco che non sia facile per nessuno, ma come Chiesa io lo pretendo perché Gesù è stato talmente chiaro su questo tipo di argomenti…

E mi torna in mente la scritta che avevo visto al piano di sotto, sopra il crocifisso: “Non conosco altro che Gesù Cristo e questo crocifisso”, Paolo di Tarso.

Poi penso che dobbiamo essere molto più efficaci, non solo a farci sentire ma con azioni concrete: faccio parte del movimento di pressione alle “banche armate” (che include le tre riviste: Missione oggi, Nigrizia, Mosaico di pace, ndr) che si occupa di frenare il supporto delle banche alla produzione e vendita di armi da parte di aziende italiane ad altri Paesi. Se si ritirassero i soldi dalle banche che investono in armi e in petrolio avremmo, io credo, un grande effetto. Il Parlamento, per la legge 185/90, ogni anno ci fornisce la lista delle banche italiane che investono in armi, quindi abbiamo l’ufficialità dei dati. Se iniziassimo un boicottaggio delle banche: dai privati cittadini alle chiese, alle istituzioni pubbliche: Comuni, Regioni; sai cosa vorrebbe dire spostare tutti questi soldi?

La possiamo fare questa cosa.

Il problema è che la gente non è cosciente di questo, ed in questo giocano un ruolo fondamentale i mezzi di comunicazione. Oggi le informazioni passano sempre più per internet e infatti, se vedi, gli uomini più ricchi del Pianeta si occupano tutti di web.

Di questi giorni la notizia di Elon Musk che compra Twitter e sbandiera l’acquisto come una mossa a favore della garanzia di indipendenza del social, a tutela della libertà di pensiero, mentre invece comporta esattamente l’opposto: la concentrazione del potere decisionale, riguardo ad un ormai importante mezzo di comunicazione, nelle mani di un singolo?

Esatto. E la gente zitta, silenzio, seduta davanti al televisore a bersi tutta ‘sta roba.

Ma oggi io vedo che abbiamo delle potenzialità enormi di mobilitare le persone. Mai come oggi. Il problema è renderle coscienti, come dico nel libro lì per esempio.

Sul tavolo davanti a noi c’è la copia dell’ultimo libro di Padre Alex, uscito pochi giorni fa per Feltrinelli, si intitola: “Lettera alla tribù bianca”.

Lì dico: il problema del suprematismo bianco e del razzismo è che noi bianchi non abbiamo mai preso coscienza di che razza di storia abbiamo alle spalle; anche noi italiani ci pensiamo ancora “brava gente” in Africa ma basta leggere i libri dei nostri migliori storici per capire che disastri abbiamo combinato anche noi nelle nostre ex colonie.

Poi si sente qualcuno che chiama da giù, poi sale. È un giovane uomo, sembra agitato. Padre Alex si alza in piedi, lo accoglie.

Cosa succede? Lo so, lo so che ti senti agitato.

Nel frattempo gli tiene le mani, guardandolo negli occhi.

Il giovane si calma.

Stiamo facendo un’intervista, tra pochi minuti abbiamo finito e vengo da te. Vai tranquillo, mi raccomando, su di morale e non scoraggiarti, dai, caccia via tutti questi pensieri che hai che non servono a nulla, va bene?

Grazie.

E il suo respiro adesso sembra più disteso.

Dai, dai, il Signore ti vuole bene.

Grazie.

Tra poco finiamo e scendo.

Ci saluta e scende lungo la piccola scala.

Poi padre Alex mi spiega che è una persona che abita nel quartiere ed ha bisogno di qualche supporto psicologico.

Dove eravamo rimasti?

Al riconoscimento della storia.

Ah, sì. Ecco anche perché in questo momento negli USA il suprematismo bianco è fortissimo e questo deriva dal rifiuto di riconoscere la propria storia. Invece devi sapere cosa è successo nel passato del tuo Paese, devi chiedere perdono e devi riparare in qualche modo, altrimenti non costruisci nulla di buono per il futuro.

Il Canada, per esempio, ha iniziato di recente a risarcire economicamente le popolazioni indigene i cui bambini, tra il 1863 ed il 1998, vennero portati via dalle famiglie e messi in scuole residenziali in cui venivano costretti ad accettare la religione e la cultura occidentali, subendo abusi di ogni genere.

Ma i paesi impoveriti potremmo risarcirli in due maniere, lo dico nel libro: un primo modo sarebbe con l’accoglienza dei migranti, l’altro con i cento miliardi di dollari l’anno che la conferenza delle Nazioni unite sul clima del 2009 ha stabilito che i Paesi sviluppati debbano dare, e non lo stiamo facendo, ai popoli del sud del mondo per fronteggiare i disastri climatici che noi abbiamo creato e che loro stanno iniziando a pagare per primi.

Ma è il riconoscere quello che è avvenuto, il primo passo e il problema centrale.

In Canada è venuto fuori il passato di abusi sulle popolazioni indigene. Il Papa adesso ha chiesto perdono, ma poi ci vogliono le riparazioni. Quello che è successo in Sud Africa, con Desmond Tutu, con la Commissione per la verità e la riconciliazione, è esemplare in questo senso.

È stato geniale: se tu riconosci davanti alla vittima o, se la vittima non c’è più, ai suoi congiunti, quello che hai commesso e poi fai un gesto di riparazione, le cose si appianano moltissimo. È fondamentale per costruire il futuro. Altrimenti non facciamo altro che andare avanti a guerre.

In Sudafrica, dopo la presa del potere da parte di Nelson Mandela e la fine dello strapotere dei bianchi, credevo che sarebbe arrivata una guerra civile spaventosa, e invece sono riusciti a mantenere un equilibrio.

Non c’è ancora giustizia in Sudafrica perché buona parte delle terre sono ancora in mano ai bianchi, quindi c’è tutto un passaggio che dev’essere ancora fatto, ma con questo metodo di domandare perdono, di riparare, sono riusciti ad andare avanti. Credo che Desmond Tutu ci abbia mostrato una strada molto importante.

Pochi giorni fa sono passato dalla redazione di Nigrizia (rivista di cui Zanotelli è stato direttore, ndr) e gli ho chiesto di proporre un dossier sulle quattro ex colonie italiane in Africa: Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia, in cui oggi c’è una situazione terribile di conflitti. Quello è il passato di cui noi italiani dovremmo diventare consapevoli per poter anche noi andare avanti davvero.

Lei parlava del petrolio, delle banche che investono in petrolio, e dell’influenza che ha avuto nella politica internazionale e nella generazione di conflitti. Allora la Decrescita felice, che propone una diminuzione dei consumi e una rielaborazione dei valori nel nostro modo di vivere, potrebbe essere una strada da seguire e che ci porterebbe anche a risolvere buona parte dei conflitti?

Noi occidentali dobbiamo assolutamente capire che dobbiamo “alleggerirci”, “asciugarci”, nel senso di accontentarci di poco e trovare la gioia nelle relazioni umane, che ci son saltate tutte. Ecco, la nostra infelicità nasce tutta da lì. La cosa più bella che abbiamo è la comunità, il sentirci accolti.

E invece la famiglia sta saltando: in un sistema come questo in cui non basta un salario ma entrambi i genitori devono dedicare molte ore al lavoro per mantenere lo stile di vita, non si ha più tempo da dedicarsi l’un l’altro nell’ambito della famiglia. È chiaro che così la famiglia salta.

Cosa potremmo fare qui, nella nostra città, per fermare questa guerra?

Prima ancora che scoppiasse questo conflitto ho chiesto al vescovo di Napoli di fare un momento di preghiera: il Duomo era pieno, soprattutto di ucraini. Si potrebbe chiedere al vescovo di farlo di nuovo.

Lei ha partecipato alla marcia per la pace Perugia-Assisi di pochi giorni fa, organizzata in edizione speciale per questo conflitto?

Sì, ero in mezzo a loro. C’è stata una buona partecipazione: c’erano almeno ventimila persone. È stato importante secondo me averla fatta, è stato un “grido” anche quello. Son tutte reazioni che devono avvenire, per dire: basta, non si può continuare così. Però non è che si incida così tanto. Si inciderebbe davvero se iniziassimo a praticare i grandi boicottaggi delle banche che investono in petrolio e in armi. Perché è dove sono i soldi che c’è il potere.

Lei in gioventù è stato negli USA, ho letto che era andato con grande entusiasmo, poi quando è andato in Africa ha piano piano capito che la storia era un po’ diversa, che il sistema statunitense, occidentale, non era così positivo come appariva. Nel suo libro scrive:

La cultura che avevo assorbito nei miei anni di studi negli USA era anti-araba, anti-islamica e mi impediva di incontrare l’“altro”: l’arabo il musulmano…. Quegli anni in Sudan, un Paese impoverito, mi aiutarono a ripensare criticamente agli Usa e a capire che la ricchezza di pochi è pagata dalla miseria di troppi.”

Poi è andato in Kenya, a Korogocho, una delle baraccopoli di Nairobi.

Il secondo colpo a Korogocho è stato devastante per me. Mi ha fatto ripensare radicalmente tutto, tutto. I poveri, guarda, te le spiattellano in faccia le cose.

Ancora in “Lettera alla tribù bianca” padre Zanotelli scrive delle ragazzine di Korogocho che vanno a Nairobi a prostituirsi per vivere:

“Quando uscivo presto al mattino per comprarmi un po’ di pane, le incontravo di ritorno dalla città. Spesso le invitavo in baracca per prendere un tè. Era l’occasione per parlare insieme, facendo loro notare il rischio di contrarre l’Aids. “Non occorre che ce lo ripeta”, mi rispondevano un po’ seccate. “Lo sappiamo: moriremo tutte di Aids”. In particolare, ricordo bene quando una ragazza mi disse: “Alex, prendi un foglio e scrivi il mio nome: Njeri Njoki, morta per Aids. Poi su un altro foglio scrivi: Njeri Njoki, morta per fame. Arrotola quei due pezzetti di carta e poi prendine uno e leggilo”. Prima che riuscissi a farlo, però, lei mi fermò: “Sai quale dei due è il foglio dove hai scritto: “Morta per Aids”? Dammelo, mi disse. Almeno avrò qualche anno di vita in più… “. Avrei voluto sprofondare…”

Sì, vivevo insieme agli ultimi, nelle baracche di questa enorme periferia, dove abitano circa 150000 persone, vicino Nairobi.

E anche lì ad ogni modo ci sono alcune delle dinamiche che vediamo qui da noi. Ricordo che avevo fatto il gruppo dei ladri. Era un gruppo di persone che andava in giro a derubare la gente. Li abbiamo messi insieme per fare una cooperativa. Li abbiam tirati un po’ su, insegnandogli a fare dei piccoli manufatti artigianali, che poi vendevano. Ma mi ricordo che la prima volta che stavo tentando questo, il gruppo delle donne, cioè delle ragazze che per vivere si prostituiscono, mi aveva visto che parlavo con loro e quando poi i ladri sono andati via son venute subito da me e mi hanno detto: Alex, ma sai chi è quella gente? Ma come fai a parlare con questi, ma son dei criminali, noi li conosciamo.

Dico: Sì, abbiate pazienza, sto tentando a vedere se riusciamo a metterli un po’ su, e fargli fare qualcosa di onesto.

E poi, sai, lì succedon cose terribili. La gente è talmente arrabbiata che quando prendono in flagrante qualcuno che ruba si verificano cose terribili, arrivano addirittura ad ucciderli, dandogli fuoco. E io ogni volta che succedeva uno di questi eventi terribili andavo proprio in quel luogo dove era accaduto a dire la messa. La gente che passava non sai quanti insulti ci indirizzava. Ma per rompere certi schemi mentali bisogna sfidarli così.

Lei era l’unico bianco lì in mezzo?

Sì, e adesso nessun padre comboniano abita a Korogocho. Qualcuno mi ha detto: ma forse a Korogocho non c’è più bisogno dei missionari comboniani. Dico: no, non è Korogocho che ha bisogno dei missionari comboniani, sono i missionari comboniani che hanno bisogno di Korogocho. Devi entrare dentro, a contatto con la gente, e sentire sulla tua pelle le vite delle persone, altrimenti facciamo solo pie esortazioni.

Allora adesso che vive alla Sanità per lei è molto più semplice?

In qualche modo sì, però guarda che qui è molto più difficile organizzare le persone. Ti do solo due esempi: avevamo l’ospedale San Gennaro e lo abbiamo perso, lo hanno chiuso, perché quando invitavamo la gente a scendere in piazza venivano solo 200 o 300 persone. Il quartiere fa circa 50000 abitanti, se li avessimo avuti in buona parte con noi la cosa sarebbe andata diversamente.

E poi la scuola. L’unico istituto che avevamo era il Caracciolo, un alberghiero. Fino a sei anni fa lavorava benissimo, aveva circa 600 studenti. Poi è sceso a 480 ed è stato accorpato all’Isabella d’Este che si trova verso piazza Mercato, quindi non vicinissimo. E cosa è successo?: 73% di bocciati e 50% di evasione scolastica. Oggi siamo ridotti a 60 studenti: da 600 a 60. Anche in questo caso se la partecipazione delle persone del quartiere alle proteste fosse stata più ampia probabilmente avremmo salvato la scuola.

Questa difficoltà di organizzare le proteste credo che derivi da un atteggiamento, un po’ diffuso non solo a Napoli ma, credo per motivi storici, in tutto il sud Italia, di cercare una soluzione personale ai problemi. E invece Don Milani diceva: “Uscire dai problemi da soli è avarizia, uscirne insieme è politica”.

Di nuovo, dal piano inferiore, si sente chiamare la persona che era venuta prima. Ha aspettato pazientemente la fine della nostra chiacchierata.

Saluto padre Alex che va a incontrarlo.

Intervista a padre Alex Zanotelli a cura di Francesco Paolo Busco