IL VIAGGIO (4) – Ancora in Sri Lanka: un tempio buddhista a salita Pontecorvo, poco sopra piazza Dante

Continua il nostro giro del mondo a portata di piedi, senza inquinare, senza aerei. Siamo ancora in Sri Lanka, verso Montecalvario. (La prima parte del viaggio, per chi se l’era persa, si trova qui)

Giorno 5, martedì 14 gennaio 2020

Sono al centro storico per un servizio da fare, appena finito mi trovo a passare davanti alla grande chiesa del Gesù Nuovo. Mi avevano detto che qui la domenica mattina si dice la messa in singalese, entro per vedere se trovo tracce della cosa anche di martedì pomeriggio quasi sera.

Le trovo subito, appena oltre la soglia del portone, affisse dentro una grande bacheca semivuota.

C’è un manifestino con la loro bandiera e i caratteri inconfondibili del loro alfabeto, ci capisco solo i numeri, gli orari, come indizio non sono male.

A fianco c’è affisso un altro foglio, recita:

Gesù Nuovo Church, Certificato di eccellenza Trip Advisor.

Lo leggo e non capisco.

Mi volto un attimo indietro per guardare fuori, inquadrare il mondo esterno e localizzare il punto esatto dell’universo in cui mi trovo.

Lo leggo di nuovo. Nunn’agge capito, mo diamo le stellette di più o meno gradimento pure a Gesù Cristo?

Entro.

C’è qualcuno che prega, mi sento fuori luogo in questo momento, cerco di non disturbare, non vedo altro.

Esco.

Su un muro della piazza è affisso uno dei loro manifesti molto colorati, President Superstar, c’è un uomo col pizzetto, non si capisce se è la pubblicità di un circo, di un comizio elettorale o di un concerto.

Poi mi ricordo di un altro posto che ha un’intenzione simile a quella della chiesa, dare un po’ di pace a chi ci entra, sperando che riesca a conservarla il più a lungo possibile dopo che ne è uscito.

È il piccolo tempio buddhista singalese di cui mi avevano raccontato il primo giorno: poco sopra piazza Dante, lungo salita Pontecorvo, senza bisogno di salire molto.

La strada inizia quasi subito con una scalinata, mi sento a casa quando c’è da camminare a gradini, sembra un buon inizio.

È buio ma fotografo lo stesso, la luce è rossissima dai lampioni del Comune.

Lungo i gradini c’è un murale, dice: O mast fa e fierr e e fierr fann o mast, maneggiando un flex che taglia le barriere.

Salgo e inizio a guardarmi intorno per vedere se c’è qualche singalese a cui posso chiedere indicazioni più in dettaglio. Uno mi è appena passato di fianco in discesa e non ho fatto in tempo, fotografando mi ero distratto.

Poi, fermo, mi pare di vederne un altro:

scusi mi hanno detto che da queste parti dovrebbe esserci un tempio buddhista, mi sa indicare più precisamente dove?

Mi guarda, mi dice che non conosce il punto esatto e mi consiglia di chiedere a qualche singalese di passaggio.

Ah, ho sbagliato a riconoscere, le sfumature di carnagione sono molte, c’è poca luce, e il mio desiderio di incontrarne uno è troppo forte.

Lo ringrazio e continuo a salire.

Il primo che incontro di nuovo è un ragazzo pallido come me, pure nella notte.

Sì, guarda lo dovresti trovare un po’ più avanti.

Bello, questo ragazzo napoletano conosce esattamente il posto che stiamo cercando.

Dai che ci siamo.

Poi eccolo, lui lo saprà di certo: un signore proprio sull’ultimo gradino di un’altra scalinata qui, lungo il percorso.

Sta “due luci più avanti”, poi prende il telefonino per vedere non so cosa, va avanti e indietro, clicca sullo schermo un sacco di volte. Pare più emozionato di me all’idea che qualcuno che non parla la sua lingua cerchi quel posto che fa parte del suo mondo. Non ottiene il risultato che voleva, però mi incoraggia ad andare avanti.

È sempre bello quando uno lancia un sassolino nello stagno, chiede un piccolo aiuto, e c’è un altro da quell’altra parte che gratis, senza nessun motivo, gli sorride, gli fa capire che ha compreso il suo dubbio e cerca di rispondergli con tutte le sue forze.

Dopo pochi metri ecco una porta come molte.

Incollata, al centro, c’è soltanto una striscetta di nastro adesivo con un numero di cellulare, nessun nome, essenziale.

Dal vetro a fianco si intravede una luce chiara, e colori… non so… in qualche modo si riconosce, se provate ad andarci scommetto che la indovinerete anche voi tra tutte le altre porte.

Mi affaccio dal vetro e vedo un signore giovane, completamente rasato, dalla carnagione scura, vestito con una tunica amaranto in fondo, e un altro in piedi che gli sta parlando.

Mi vedono, faccio segno e vengono ad aprire.

Sì è questo il tempio buddhista.

Per entrare oltre bisogna togliersi le scarpe.

C’è un tappetino per fermarsi e la scarpiera per tenerle tutte in ordine.

È una stanzetta piccola, stretta e lunga, dopo la scarpiera un frigorifero, mentre mi tolgo le scarpe mi accorgo che il lavandino sta subito oltre.

Lungo le pareti, in alto, ci sono tante piccole statue.

Mi sembra quasi icredibile, questo posto, su questa strada, in una città che pensavo almeno un poco di conoscere.

Entro e il signore con la tonaca mi dice di aspettare per favore un attimo perché sta parlando con il ragazzo che mi ha aperto.

Ovviamente di quello che si dicono non capisco nulla, recepisco solo i suoni musicali, dolci, tranquilli. Nel frattempo mi seggo.

Aspetto, loro parlano, io guardo intorno.

In sottofondo, a basso volume, c’è una musica orientale.

Conto le statuette che sembrano dei Buddha.

Il ragazzo a un certo punto ringrazia, con le mani giunte e l’accenno di un inchino, esce, quando passa davanti al vetro ripete dalla strada quello stesso gesto.

Eccoci, inizio a chiedergli se posso registrare. Risponde tranquillo, la domanda quasi gli sembra banale.

Sono un monaco buddhista. Questo piccolo tempio esiste da tre anni, lui si trova a Napoli da sei mesi prima.

È aperto la mattina di ogni giorno, c’è una pausa dall’una alle cinque e mezza e apre di nuovo fino a sera.

Di domenica c’è la maggiore affluenza, circa trenta o quaranta persone. Alle undici di mattina c’è la spiegazione del Dhamma, alle sei del pomeriggio si fa meditazione, poi si canta, si prega…

Quando facciamo grande festa partecipano anche cinquecento o seicento persone.

Gli chiedo cosa sono quelle venti statuette esposte in alto.

Sono ventotto.

Non avevo notato che sopra la mia testa, su di un’altra mensola ce ne sono altre otto.

Le venti, per essere sicuro, le avevo contate due volte, ma se uno non guarda in tutte le direzioni non può vedere tutto, anche se si concentra molto.

Rappresentano le ventotto incarnazioni di Buddha che ci sono state nella storia fino ad ora.

Ognuna ha un’etichetta: in alto c’è il nome di quel particolare Buddha, poi gli chiedo cosa c’è scritto sotto.

È il nome di chi ha offerto quella piccola opera.

E il Buddha che conosciamo meglio noi? Quello che spesso pensiamo sia l’unico, qual è tra tutti questi?

Eccolo, è l’ultimo della fila dei ventotto, l’ultimo in ordine di tempo a venirci in soccorso.

Alle pareti ci sono dei poster con le tappe fondamentali della vita di quest’ultimo Buddha. L’elefante bianco che compare in sogno alla madre prima del concepimento. Poi lui che va nella foresta, si dedica a una vita di grandi astinenze tanto che diventa magrissimo, tutto il contrario delle immagini grassocce che abbiamo sempre visto. Fino a quando capisce che la via migliore è quella “di mezzo”.

Curioso il fatto che in questo nostro giro del mondo ci capita di incontrare Buddha in Sri Lanka e pure una delle primissime testimonianze della vita di quest’uomo arrivate in occidente ci era stata riportata, da Marco Polo, ne “Il Milione”, da questa stessa isola in cui stiamo viaggiando.

Mi conforta il fatto che anche quel grande viaggiatore, quando si tratta di riportare il nome di quell’uomo santo, pur con tutta l’attenzione che avrà fatto, lo cambia da Sakyamuni bhagavan, cioè “signore della famiglia dei Sakya” a Sergamon Borgani. Anche lui avrà notato che sono molto diversi i registri sonori che usiamo.

Nell’altra sala ce n’è uno grande, mi dice, per la seconda volta.

Quando gli avevo chiesto se potevo fotografare mi aveva subito detto: sì, anche nell’altra stanza, dove c’è Buddha grande.

Gli piace molto.

Vado a vedere.

C’è la statua e sullo sfondo l’immagine dell’albero sotto il quale meditava e dove una notte, con la luna piena, sembra che avesse visto tutto, completamente, di se stesso e del mondo.

A terra c’è la moquette, dietro una tenda sono riposti dei cuscini per sedersi.

Qui si fa la meditazione, oppure lui spiega il Dhamma, la dottrina buddhista, quello che c’è da sapere di teorico, anche se per loro la pratica della meditazione, non la teoria, è abbastanza il centro di tutto.

Gli chiedo se posso venire a sentire le spiegazioni qualche volta e a fare meditazione. Mi dice che non c’è nessun problema ma non so spiegarla bene in italiano, non sa se capirò molto.

Vorrebbe spostare questo tempio, poiché è un po’ troppo stretto, in un altro posto, forse il mese prossimo.

Quando gli chiedo dove, mi risponde: fontanelle, non capisco subito, allora lui ripete: fontanelle. Dai era facile, sì, a via Fontanelle, alla Sanità, dove sta il cimitero famoso.

Mi chiede cosa ne penso. Mi piace quest’idea, rimango colpito e glielo dico.

Un quartiere difficile, anche se adesso è molto cambiato, ma poi, pensando, ripeto quello che lui insegna ogni giorno: Buddha va dove c’è più bisogno.

Poi gli racconto che ho spesso pensato che pure in altri quartieri, con la fama di posti evoluti, tranquilli, in ordine, sarebbe forse utile un po’ di meditazione: al Vomero, a Posillipo, a Chiaia, le cose sono diverse ma nessuno può dire che la chiarezza, la consapevolezza mentale come la chiamano loro, sia di casa neppure in questi luoghi.

Parlando gli dico della mia esplorazione delle scuole singalesi a Napoli. Non mi pare molto contento, pensa che seguendo quelle scuole poi i ragazzi non potranno continuare i loro studi in Italia perchè non hanno valore ufficiale.

Attribuisce non tanto al fatto che i singalesi vogliano poi tornare al loro Paese d’origine il mandare i loro figli in quelle scuole, ma piuttosto a un certo timore, che i loro ragazzi nelle classi italiane siano troppo “liberi” e chi sa cosa gli può succedere, con i coetanei, magari iniziano a fumare.

Poi come ormai è diventata un’abitudine, chiedo a lui, come guida del posto, dove mi consiglia di andare per continuare il nostro viaggio. La prima cosa che mi consiglia è il tempio indù. Sta poco distante da qui però mi spiega due volte tutto il percorso per andarci. Avrà visto dalla mia espressione che tra il tragitto con un sacco di curve e la mia scarsa padronanza del singalese, non c’avrò capito molto.

Questa della lingua inizio a notare che è una questione abbastanza importante. A capire ci si capisce lo stesso, però forse se uno si vuole sentire più “dentro”, in mezzo agli altri, se dopo alcuni anni che si trova in Italia ancora non ha molta scioltezza forse vuol dire che bisognerebbe organizzare qualche iniziativa, magari una maggiore interazione tra italiani e forestieri, oltre a qualche corso.

Sto per uscire, gli ho rubato un sacco di tempo (anche se il suo tempo, dalla grande calma con cui parla, deve essere abbastanza diverso dal nostro), mi chiede se mi piacerebbe avere un braccialetto. Rispondo di sì, anche se non ne vado pazzo, ma sono curioso e cerco di coltivare l’apertura del viaggio.

Va nella seconda stanza, quella dove c’è la statua di Buddha, e sfila da un mazzetto un braccialetto fatto con due fili di cotone doppio e una perlina al centro. Mi chiede di dargli il polso sinistro, non destro, cioè sì destro, e mentre mi annoda con calma, più volte, il filo, pronuncia una specie di canto sotto voce. Poi termina, in italiano, con qualcosa tipo: lunga vita e salute e felice.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

Post scriptum: stamattina, mentre mi lavavo la faccia, prima di iniziare a scrivere queste righe, noto che quel braccialetto ce l’ho ancora al polso. Allora non l’ho sognato, sono quasi sicuro che quel viaggio da una chiesa enorme sfarzosissima, col rating mondiale, a una stanzetta nei vicoli di Montecalvario col Buddha e il frigorifero nello stesso metro, davvero sia accaduto.

(Fine quarta parte, qui trovate la quinta parte)

INCONTRI – L’aquila reale in Cilento e la Carta della Terra

Qualche giorno fa ho chiesto di poter intervistare per telefono Mario Kalby, un ornitologo salernitano che si occupa, tra l’altro, da oltre vent’anni, di due coppie di aquile reali che nidificano in Campania, una sui monti Picentini una sul monte Cervati, in Cilento.

Avevo visto questo signore in un piccolo documentario che si trova in rete e che racconta di un curioso avvenimento di diversi anni fa.

A Piaggine, nel 1971, un bell’esempio

Nel 1971, a Piaggine, in provincia di Salerno, era accaduto un evento singolare. In una trappola che avevano piazzato per catturare il lupo, dopo qualche giorno, andando a controllare, trovano impigliata una giovane aquila reale. Un animale molto bello, due metri e mezzo di apertura alare, che fortunatamente non ha subito gravi danni.

La portano in Comune, a curarla è il medico del paese, come gli altri cristiani, perché di veterinari non ce ne stanno. Poi per un po’ di tempo la tengono in una stanza dentro al Municipio.

I bambini delle scuole cominciano, in fila indiana, dietro le maestre, ad andarla a trovare. Da tutta Italia altre scolaresche iniziano a scrivere per conoscere particolari. Perché si erano mosse la stampa e la televisione nazionali.

Mi racconta Kalby che al Comune ricevettero parecchie richieste da zoo e altri che volevano comprarla.

A Piaggine però fecero la scelta giusta, e tieni conto che in quel momento in Italia quel tipo di animale era ritenuto nocivo, perché attacca anche animali allevati dall’uomo, e allora se lo avessero venduto oppure ucciso non sarebbe stato reato. Invece loro decisero saggiamente di liberarlo.

Monte Cervati, i territori di caccia dell’aquila reale. (Foto M. Kalby)

Oggi che lo sfruttamento, con gli allevamenti intensivi di animali, è una delle probabili cause del problema che stiamo vivendo, questa lezione: dopo aver commesso un errore, di prendersi cura di un animale e poi capire che la cosa migliore da fare è semplicemente liberarlo, credo sia un bell’esempio.

Forse è anche che in questi giorni, in cui da un mammifero volante abbastanza piccolo, che va in giro di notte, a furia di maltrattarlo, abbiamo ricevuto una bella mazzata che è anche un fortissimo stimolo ad evolverci, mi è venuto in mente di chiedere a un rapace enorme, che vola altissimo in pieno giorno e che i greci ritenevano l’immagine di Zeus, qualche consiglio, oppure semplicemente qualche immagine dall’alto, ariosa, di libertà, per far respirare il cervello.

L’aquila è un animale molto fedele, forma per tutta la vita una coppia stabile, mi racconta Kalby.

Non solo, ma devi sapere che esistono -per esempio vicino Roma sono documentati- dei nidi di aquila antichissimi, di secoli, forse di millenni. I romani antichi, dell’epoca dell’Impero, avevano come sappiamo il culto dell’aquila come simbolo, e allora andavano in cerca di nidi per prendere i piccoli magari ed allevarli, per questo ci hanno tramandato tracce scritte dell’esistenza di nidi in zone dove abbiamo riscontrato che ancora esistono.

Questi rapaci scelgono una valle che abbia una parte di bosco ma anche zone senza alberi perché per volare sulla preda hanno bisogno di spazio aperto: una zona di caccia di circa trenta chilometri quadrati. In quest’area costruiscono il nido, e lo usano per anni. Poi se magari sorge qualche disturbo, creano un altro nido in un altro punto ma senza abbandonare quella valle.

Sono molto sensibili alle presenze estranee.

Per esempio quando vado sul campo, specie nel periodo in cui sono nati i nuovi piccoli, anche se sto, per dirti, a ottocento metri (sì, ottocento) dal nido col binocolo a osservarli, i genitori iniziano a volare sopra di me per capire chi sono, che cosa voglio fare. A volte pure se sto fermo, seduto, una volta che mi sono assicurato che i piccoli stanno bene, mi allontano spontaneamente per smettere di disturbare.

Ogni anno verso febbraio, nel periodo dell’accoppiamento, eseguono un volo caratteristico, “a festoni”, con delle specie di acrobazie in volo. Poi quando nasce il piccolo, spesso sono due ma solo uno sopravvive, la femmina sta tutto il giorno ad accudirlo. Nel frattempo il maschio va a cacciare in alto. Il nido sta sempre più in basso del luogo di caccia, così è più facile riportare in volo, in discesa, prede pesanti.

Dopo alcuni mesi, quando il piccolo ha raggiunto una certa autonomia, gli adulti non si avvicinano che per un attimo a portargli il cibo, per il resto del tempo restano un po’ a distanza per evitare di svelare, con la loro presenza, la posizione precisa del nido.

Il giovane individuo lascia il nido a fine luglio e verso dicembre, diventato abbastanza indipendente, vola definitivamente via.

Alcuni anni fa un esemplare ferito venne trovato nelle Marche. Gli fu messo un anello per riconoscerlo. Così hanno scoperto che se n’è andato in giro per tutto il centro Italia e anche sulle Alpi. Verso i sette anni, quando diventano adulti e formano una coppia, ritornano istintivamente in qualche altra valle nelle stesse zone dove sono nati.

È come se andassero un po’ in giro per il mondo, in un viaggio di formazione, per tornare nella loro terra di origine e mettere su famiglia. Interessante.

Non solo, ma osservano certe distanze tra le varie coppie, in pratica, come molti animali, hanno per indole il concetto di distanziamento sociale.

Vista dal monte Cervati sul monte Motola. (Foto M. Kalby)

Forse vi starete chiedendo: si vabbè, il rispetto totale per gli animali, senza mai toccarli, tante belle chiacchiere, però per esempio il problema dei cinghiali, nelle zone montane, se non fosse per i cacciatori che li abbattono, sarebbe insormontabile. Be’ questo pensiero, il dubbio, lo avevo pure io e allora gliel’ho chiesto.

Sì, il problema dei cinghiali, che sono troppi in questi ultimi anni, è innegabile, però dobbiamo anche ricordare che sono stati proprio i cacciatori a premere negli anni passati perché si ripopolasse con questi animali. Sono stati introdotti così, dalle nazioni dell’Europa Orientale, sulle nostre montagne, le sottospecie di quelle zone. Si riconoscono facilmente, sono molto più grossi, pesano intorno ai cento chili, quando una femmina della nostra sottospecie arriva circa alla metà del peso. E poi sono molto più prolifici, fanno un sacco di cuccioli, e sono molto resistenti. Tanto che adesso sono diventati la razza prevalente, i nostri sono sempre di meno.

Allora si è sviluppato un sistema che si chiama “selecontrollo”. In pratica si dà l’autorizzazione ai cacciatori di operare anche in zone che magari sono parco naturale, per limitare il numero di esemplari.

Però qui nasce un’altra questione: soprattutto adesso che il Corpo Forestale dello Stato non esiste più si rischia che i cacciatori, con pochi controlli, vadano oltre e uccidano più prede di quelle che sarebbe opportuno e per cui sono stati autorizzati.

Per esempio se io cacciatore ho il permesso di abbattere… diciamo venti esemplari di cinghiale e durante una battuta invece me ne capitano trenta, per dire, e non mi fermo, quei dieci in più, essendo illegali, non posso certo portarli a visitare dal veterinario prima di metterli in commercio. E allora può capitare che magari li regalo agli amici, insomma li metto in circolazione lungo altri canali. E così animali non controllati possono entrare nella nostra catena alimentare, e alcuni parassiti dal cinghiale sono in grado di passare anche all’uomo.

In questi giorni questo passaggio da animali selvatici a uomo abbiamo imparato che si chiama “zoonosi”, è quello che sembra sia successo anche per la nascita di questa epidemia: nei mercati di Wuhan, il metodo che usano per dimostrare al cliente che la carne che stanno comprando viene da un animale sano, è ucciderlo al momento. Mercati affollati di animali vivi, senza acqua corrente né frigoriferi, in questo modo i controlli sanitari sono molto limitati, e il “salto” di specie del coronavirus dal pipistrello o dal pangolino all’uomo viene favorito.

La Carta della Terra

Ci siamo messi, come umani, al di sopra degli altri e al centro, e forse questo virus è venuto a dirci che dobbiamo imparare che siamo solo una delle tante specie di abitanti di questa casa comune. Che dobbiamo, con tutto il pianeta che ci ospita, finalmente fare pace.

Questo concetto alcuni, tra di loro c’era anche Michail Gorbaciov, il segretario generale sovietico, l’hanno sviluppato per diversi anni, hanno speso molto tempo per mettere d’accordo quasi tutti. Alla fine abbiamo adesso, dal 2000, un documento che è stato adottato dall’UNESCO. Forse è un ottimo momento, questo, per leggerlo e provare, ripartendo, a renderlo concreto.

Il documento si chiama Carta della Terra e inizia con queste parole:

“Le sfide che ci attendono

La scelta è nostra: o creare un’alleanza globale per proteggere la Terra e occuparci gli uni degli altri o rischiare la nostra distruzione e quella della diversità della vita. Occorrono radicali modifiche nei nostri valori, nelle nostre istituzioni e nei nostri stili di vita. Dobbiamo renderci conto che, una volta soddisfatti i nostri bisogni primari, lo sviluppo umano consiste fondamentalmente nell’essere migliori e non nell’avere di più. Possediamo le conoscenze e le tecnologie per provvedere a tutti gli abitanti della Terra e per ridurre il nostro impatto sull’ambiente. L’emergere di una società civile globale sta creando nuove opportunità per costruire un mondo più umano e democratico. Le nostre esigenze ambientali, economiche, politiche, sociali e spirituali sono interconnesse e insieme possiamo costruire soluzioni che le comprendano.

Rispetta la Terra e la vita, in tutta la sua diversità, riconoscendo che tutti gli esseri viventi sono interdipendenti e che ogni forma di vita ha un valore intrinseco, indipendentemente dalla sua utilità per gli esseri umani.”

Forse dobbiamo prendere la frase famosa del presidente Kennedy e, sostituendo la parola “Paese” con la parola “pianeta”, iniziare a dire:

Non chiedetevi cosa il vostro pianeta può fare per voi, ma cosa potete fare voi per il vostro pianeta.

Qui trovate il testo completo della Carta della Terra.

Qui se volete potete vedere il video sull’aquila in Cilento.

Intervista a Mario Kalby, di Francesco Paolo Busco, fotografie di Mario Kalby (tutti i diritti riservati)

(Nell’immagine di copertina i pianori di vetta del Monte Cervati, foto M. Kalby).

MAPPE – Scale mobili del Parco Ventaglieri. Per accorciare il dislivello tra Montesanto e piazza Mazzini

Vicino a piazza Montesanto, passando a destra della chiesa, dal Parco pubblico Ventaglieri oltre alle scale, belle, al sole, partono le scale mobili (oppure un ascensore).

Costituiscono un buon modo per alleviare un poco la salita se uno non è nel giorno giusto per camminare.

Qui trovate la mappa interattiva

Non dimenticate di verificare gli orari di apertura.


MAPPE – Scale mobili Metropolitana linea 1. Da via Salvator Rosa a piazza Leonardo

Un’altra possibilità per accorciare uno dei dislivelli della nostra città è utilizzare l’ascensore che parte dalla stazione Salvator Rosa della metropolitana linea 1 (la metro collinare). Vi portano a via Vincenzo Romaniello, praticamente a piazza Leonardo (e non occorre fare alcun biglietto).

Qui trovate la mappa interattiva

MAPPE – Gradini del Petraio. Da Castel Sant’Elmo alla zona di Chiaia

Un’altra scorciatoia per pedoni.
Sono i Gradini del Petraio e portano dal Vomero (dietro la stazione della funicolare di Montesanto, esattamente da via Annibale Caccavello) a:


1) Se alla diramazione che vedete nella foto girate a destra: Santa Maria Apparente, salita Betlemme e poi a via dei Mille.

Qui la mappa interattiva


2) Se girate a sinistra: via San Carlo alle Mortelle, vico Mondragone, gradoni di Chiaia, fino a via Chiaia.

Qui la mappa interattiva

La scalinata può essere “agganciata” anche lungo il percorso, da via Antonio Mancini e da via Luigia Sanfelice.

(Una descrizione completa del percorso e le foto le trovate nel nostro libro Napoli a piedi)