FUORI CENTRO – Provare a guardare il mondo da un altro punto

Giovedì, 29 ottobre 2020

Sembra che il mondo in questi anni, sempre di più man mano che andiamo avanti, ci stia dicendo che noi umani ci siamo messi troppo al centro, che dovremmo iniziare a pensare in un modo un po’ diverso.

Perché la salvezza di tutti è legata a vicenda, non è previsto che la nostra specie possa sopravvivere a tutti: l’ecosistema è un corpo unico con tanti organi e noi siamo solo uno di questi, è come se di un uomo voleste salvare per esempio il fegato soltanto, mi pare alquanto improbabile, anche molto poco interessante, un eventuale successo.

Allora volevo fare un piccolo esperimento: provare a vedere cosa succede se uno inizia a guardare il mondo dalla parte degli altri, animali, piante, se è vero che non esiste per l’universo un unico punto da cui osservare le cose, un centro.

Prima di scendere mi concentro: fuori dalla finestra vedo un cielo grande.

Ecco la prima presenza naturale che abbiamo intorno. Ci sta sempre sopra la testa, ogni volta che non siamo al coperto, chiusi dentro muri, pareti metalliche di auto o noi stessi.

La pianta grassa sul termosifone anche è verde profondo.

Poi esco.

Ho appuntamento con un’amica fuori ad un parco pubblico.

Quando la incontro la trovo felice perché la mano che le doleva un poco, massaggiandola con una crema a base di calendula, si è ristabilita improvvisamente. Che combinazione stamattina, natura che ci aiuta.

Nel grande viale d’ingresso del parco ci superano tre bambine una di fianco all’altra, subito dietro cammina la mamma.

Forse è il ritmo dei loro passo, la leggerezza svelta delle loro piccole gambe come quella degli steli delle piante, o delle loro voci, o del respiro che le accompagna, che suona la stessa nota del verde qui intorno; non so che cosa ho visto in quel momento, mi pare soltanto che ho avuto davanti improvvisamente il fatto che aspettarsi di vedere il mondo dalla parte degli altri esseri comprende anche noi stessi inesorabilmente.

Siamo esattamente come gli altri, in mezzo; in mare aperto, tutti insieme sulla stessa barca, intercomunicanti, inscindibili dal resto. Forse ai bambini è molto evidente.

Un uomo sulla panchina dorme, Benino nel presepio, ignaro, o più consapevole di tutti della bellezza del mondo.

Quando usciamo dalla villa e continuo la mia camminata cercando, inizio a guardare di nuovo in alto, è lì che gli alberi stanno.

Un ramo scende a chiacchierare con l’insegna del bar. Altri fanno da galleria al passaggio degli umani. Sembrano divertirsi ad osservarci. Un albero sta davanti ad un palazzo, e sembra che fanno parte uno dell’altro.

Poi vado a vedere come sta stamattina un albero grande. A piazza degli Artisti, quasi in mezzo, c’è un albero rigoglioso, una sfera enorme di foglie. Provate a chiedere in giro se qualcuno lo ha mai visto, spero siano in tanti.

Mi avvicino, guardo da sotto la sua ombra le sue fortissime foglie, respiro col suo ossigeno.

Poi decido che direzione prendere a partire da questo altro centro del mondo. Se provate ad ascoltare i vostri passi loro lo sanno. I miei stamattina vogliono andare verso San Martino, la Certosa, e la scala che poi porta verso il basso.

Pochi metri e un altro gesto mi sorprende.

Un uomo prende un vaso di fiori e lo nasconde.

Sembra un congiurato di una setta segreta, i carbonari di una nuova era. Mette al riparo una provocazione, quasi volevo dire una bomba, dentro una botola nel muro di un palazzo.

Lo fotografo di spalle perché la polizia potrebbe stare sulle sue tracce e invece a me mi sta simpatico.

Poi mi avvio nelle strade laterali, Torrione San Martino. Un divieto d’accesso davanti ad un albero lungo.

Ci siamo preclusi in città, nella maggior parte, di toccare le piante, avvicinarci molto, arrampicarci abbracciandole.

Il massimo che ci concediamo è di guardarle. Piante per arredo urbano chiamiamo quello che in realtà è un pezzo di mondo. Come se pretendessimo di definire, che so… carta da parati un nostro braccio. Per questo ci rimane in fondo all’anima il sentimento, e ci rimbomba di continuo nelle orecchie senza che lo ascoltiamo, che qualcosa ci manca del contatto.

Da piccolo vivevo in un paese in Calabria.

Subito fuori dal portone del palazzo potevo poggiare i piedi sulla terra, il pavimento più normale del mondo. Lì intorno c’erano alcuni alberi, senza proprietario, nati spontaneamente.

Un fico, facile per arrampicarcisi, basso, e per prenderne i frutti il giorno giusto se non era già passato qualcun altro.

Un albero di nespole, sperge le chiamano da quelle parti, più affusolato, con meno rami bassi per scalarlo ma di più soddisfazione, perché potevi guadagnarti con le tue forze una posizione che dava una piccola vertigine al vedere le cose da alcuni metri sopra il pavimento.

Qualche anno fa sono tornato sotto a quel palazzo.

Tutto quel colore bello di terra ora è nero asfalto, comodissimo quando piove per non sporcarci di fango. Al posto di quegli alberi ora ci sono una casa ed un parcheggio. Stiamo cedendo alla comodità ogni possibilità di stare in contatto col mondo, toccando un albero, stringendogli la mano forte attorno ai rami, schiacciandoci contro la faccia ed il respiro salendo verso l’alto.

Continuiamo.

Verso via Merliani un altro albero dà il permesso ad un suo ramo piccolo di andare a giocare con la girandola di un bambino sul balcone a fianco.

Un altro davanzale ha imitato nella sua eleganza l’alberello della porta accanto.

Una saracinesca chiusa e un vaso di fiori senza piante, e mi pare un altro caso di simbiosi, di comunicazione, di riflesso diretto, di identità di fondo, tra il mondo dell’uomo e quello delle piante.

Un paletto a U rovesciata e un cespuglio di erba spontaneo, senza pensarci mi sembrano fratelli che si parlano, compagni di cammino in questo mondo, Don Chisciotte e Sancho Panza.

Forse sto esagerando. Oppure era prima che non guardavo a fondo.

Due cespugli cresciuti lungo lo spigolo di cemento del palazzo, alcuni stanno al sole altri nell’ombra, uno piccolissimo sta transitando sul confine di passaggio.

Poi una vetrina con un vaso ornato, floreale, materia umana modellata sulla forma delle foglie, e una pianta grassa dentro. Un’altra cosa che dice: perché hai pensato di poter separare, di poter vedere il mondo da quell’altra parte? ce n’è una sola che ci abbraccia tutti, il confine è sottilissimo anzi non esiste.

A via Bonito un lampione prova a raggiungere l’altezza naturale di una palma.

Poi le piantine che nascono dentro il muro di cinta massiccio di Castel Sant’Elmo.

Quando mi affaccio dalla balaustra davanti alla Certosa e guardo in basso c’è una signora che scende lungo i gradini di piperno. Alla sua sinistra, lei dal punto in cui si trova adesso, oltre un muretto, non può vederlo, c’è un immenso mondo verde di piante.

Ecco, era questo che non pensavo, credevo che fossimo un po’ separati, contrapposti, su due piani diversi, invece semplicemente non guardiamo abbastanza, siamo natura tutti insieme, estremamente. Basta guardare un po’ dall’alto e non c’è alcun muro a separarci davvero.

Forse dovremmo smettere di pretendere di essere i padroni, di aver capito tutto, di sapere con la natura cosa fare, quanti alberi piantare, dove e quando.

Dovremmo provare a restare soltanto fermi a guardare noi e gli altri abitanti, mettendoci allo stesso livello, ascoltando.

A imparare non le piccole cose che possiamo inventare con la parte razionale della nostra mente e che poiché ci rendono la vita più comoda nei prossimi cinque secondi crediamo che siano cose grandi, ma quelle che ci arrivano sentendo le risonanze che ci fanno vibrare profondamente dentro.

Questo mi pare che stamattina, provando a perdere il centro, un poco, ho visto.

Testo e foto Francesco Paolo Busco

NAPOLI IN BICI – La pista ciclabile per ritrovare il forte di Vigliena e il ponte della Maddalena. Un pezzo di storia finora troppo lontano per arrivarci a piedi

Qualche settimana fa è stato inaugurato un nuovo tratto della pista ciclabile che percorre la città lungo la linea del mare. All’inaugurazione del tratto che già esisteva, dalla Stazione Centrale a Bagnoli, nel 2012, c’eravamo, in bicicletta. Oggi abbiamo la curiosità di andare a pedalare sulla sua sorella appena nata.

Un amico, la solita bici pieghevole, sabato dieci ottobre verso le undici iniziamo a pedalare.

Sta lungo la linea di via Marina, inizia all’altezza di corso Garibaldi, al primo metro di via Amerigo Vespucci.

Si pedala sulla destra, oltre un cordolo che separa dalla carreggiata per le auto e gli altri mezzi a motore. Inizia con un cartello blu questa lunga striscia arancione.

Mentre sto scattando la foto per immortalare l’inizio passa un ciclista, allora ‘o fatto è overo.

Dopo venti metri c’è un chiosco delle bibite che diventerà come i ristoranti americani dove ti servono dal finestrino dell’auto. Ti fermi in bici e a un millimetro il barista ti fa la spremuta d’arancia dissetante. Qualcosa si dovrà pure inventare dopo che s’è trovato ‘sta pista ciclabile esattamente annanz’.

Pedaliamo. Mano mano il paesaggio diventa sempre meno frequentato, a tratti pare desertico, a sinistra ci sono pure le palme.

Passiamo davanti al vecchio mercato del pesce. Dietro gli uffici dell’Agenzia delle Entrate. Un’edicola minuscola, in una casetta isolata, sta anche lei adesso lungo il percorso arancione. Sembra un misto tra la Porziuncola di San Francesco d’Assisi e le stazioni ferroviarie senza nulla intorno dei western di Sergio Leone.

Esce il proprietario: stiamo qui da cinque generazioni. Una volta, quando il mercato era aperto, qui c’era un sacco di gente.

Dall’altro lato della strada, davanti a quell’edificio chiuso, progettato da un ingegnere napoletano famoso, abitano una decina di persone di origine africana. Un filo di fumo, uno di loro sta cucinando.

‘Sto viaggio in bicicletta è estremamente interessante.

La solitudine aumenta e il sole è alto. Ci fermiamo in un bar perché potrebbe essere l’ultimo per parecchio tempo.

È enorme dentro, ha un buon cornetto e fa pure o ccafè targato con il marchio più prestigioso che teniamo a Napoli. Sarà stato pure ll’urdemo cafè ma c’è iut’ buono.

Poi mi viene in mente, non so come, che da queste parti ci dovrebbero essere il ponte della Maddalena ed il forte di Vigliena, due dei luoghi storici di Napoli che non ho mai visto.

Qui nel 1799 saliva dalla Calabria l’esercito della Santa Fede comandato dal cardinale Ruffo a cui il re di Napoli aveva delegato i pieni poteri per riprendersi la capitale del regno che i Cittadini avevano trasformato in Repubblica napoletana sul modello della Francia rivoluzionaria.

L’ammiraglio Caracciolo dal mare sparava cannonate su Ruffo dalle poche navi della flotta napoletana che si erano salvate dalla distruzione voluta dal re consigliato dagli inglesi, ufficialmente per non farle cadere in mano ai francesi, forse anche per sbarazzarsi di una flotta importante che poteva fare concorrenza a quella inglese nelle acque del Mediterraneo.

Il re era scappato a Palermo con tutta la corte, sulla nave di Nelson, Caracciolo lo aveva scortato. Poi l’ammiraglio era tornato a Napoli, non poteva più restare dalla parte di un re così codardo. Ed era diventato comandante della flotta repubblicana, forse in qualche modo suo malgrado.

Così ci racconta quegli avvenimenti Alexandre Dumas ne “La Sanfelice”.

Il cardinale capì che mai si sarebbe riusciti a forzare il passaggio del ponte finché i suoi uomini fossero stati sottoposti al duplice fuoco del forte di Vigliena e della flottiglia di Caracciolo. Per prima cosa bisognava impadronirsi del forte; poi, con i suoi cannoni, sarebbe stato possibile colpire la flottiglia.

[…]

Come abbiamo detto, il forte era difeso da centocinquanta o duecento calabresi agli ordini del prete Antonio Toscano. Il cardinale mise tutti i calabresi di cui disponeva agli ordini del colonnello Rapini, anch’egli calabrese, e ordinò loro di espugnare il forte a qualunque costo.

Scelse dei calabresi per combattere contro altri calabresi perché sapeva che, fra compatrioti, la lotta sarebbe stata mortale. Le lotte fratricide sono le più terribili e le più accanite.

[…]

Vedendo sventolare sulla porta la bandiera tricolore, leggendo la scritta sotto: “Vendicarci, vincere o morire!”, i calabresi, ebbri di furore, si scagliarono contro il piccolo forte muniti di asce e di scale. Alcuni riuscirono a scalfire la porta a colpi di ascia; altri arrivarono fino ai piedi delle mura a cui tentarono di appoggiare le loro scale; ma si sarebbe detto che, come l’Arca santa, anche il forte di Vigliena provocasse la morte di chiunque lo toccasse. Per tre volte gli assalitori tornarono all’attacco e per tre volte furono respinti lasciando il terreno intorno al forte disseminato di cadaveri.

Il colonnello Rapini, ferito da due pallottole, mandò a chiedere aiuti. Il cardinale gli inviò cento russi e due batterie di cannoni. Queste vennero piazzate immediatamente, e in capo a due ore il muro presentava una breccia praticabile. Allora fu mandato un parlamentare, che propose la resa in cambio della vita.

Leggi quello che sta scritto sulla porta del forte:” rispose il vecchio prete “Vendicarci, vincere o morire!”. Se non possiamo vincere, moriremo e ci vendicheremo”.

Dopo questa risposta, russi e calabresi si lanciarono all’assalto.

[…]

Per due volte furono respinti e ricoprirono con i loro cadaveri il passaggio che portava alla breccia. Una terza volta tornarono alla carica, e in testa c’erano i calabresi. A mano a mano che i loro fucili erano scarichi, li gettavano via; poi, con i coltelli in mano, si riversarono all’interno del forte. I russi li seguivano, trafiggendo con le loro baionette tutto quello che si trovavano davanti.

Era uno scontro silenzioso e mortale, un combattimento corpo a corpo, in cui la morte si mostrava in piena luce, con gli uomini avvinghiati così strettamente da sembrare che si stessero abbracciando.

Frattanto, poiché la breccia era ormai aperta, gli assalitori crescevano continuamente, mentre gli assediati cadevano uno dopo l’altro senza poter essere sostituiti. Di duecento che erano all’inizio, ne restavano appena sessanta, e quattrocento erano i nemici che li accerchiavano. Essi, però, non temevano la morte; erano solo disperati al pensiero di morire senza vendetta.

Allora il vecchio prete, ricoperto di ferite, si rizzò in piedi in mezzo a loro e, con voce che venne udita da tutti:

Siete sempre decisi?” chiese.

Sì, sì, sì…” fu la risposta unanime.

Nel medesimo istante, Antonio Toscano si lasciò scivolare nel sotterraneo dove c’era la polvere da sparo, avvicinò a un barile una pistola che aveva conservato come estrema risorsa, e fece fuoco. Si udì una spaventosa esplosione, e vincitori e vinti, assedianti e assediati, furono coinvolti nello stesso cataclisma.”*

Sto cercando se vedo la statua famosa.

Eccola oltre quell’albero: San Gennaro con la mano alzata verso il Vesuvio che ferma la lava. Stamattina su questo ponte non c’è nessuno a parte noi due ciclisti e un’auto parcheggiata. Il traffico da un lato è bloccato da un nastro bianco e rosso a strisce.

Diventa uno spazio ampio, un punto dove il tempo forma un lago.

Questa statua sta qui dal 1768, a ricordare che l’anno prima aveva fermato la lava del Vesuvio che stava arrivando, ma non è dimenticata. Un lumino a batteria sta acceso ai piedi del santo. Sul marciapiede alla base del monumento oggetti, una specie di presepio, pure ‘o mbrello, di qualcuno che vive qui intorno.

La strada sale, al colmo si trovano le due statue, poi si inizia a scendere. Sotto ci passava il fiume Sebeto, questa era la zona del suo estuario che richiedeva diversi ponti oltre la Maddalena, quello dei Granili e dei Francesi.

Un cane dal balcone di una casa ad un piano costruita proprio sul ponte ci abbaia. Uno scooter sorretto da due mattoni di tufo ha perso al momento la ruota davanti.

Poi riprendiamo la nostra guida arancione nella storia.

Adesso si pedala a fianco ai binari del tram. Dal lato opposto della strada c’è l’altra pista ciclabile per tornare a Napoli.

Un attraversamento sulle strisce pedonali e la pista adesso è sul marciapiede. Chiediamo conferma a un negoziante.

Sì, sì, è di qua.

Dopo pochi metri passiamo a fianco ai tavolini, pedalando sotto l’ombrellone del bar.

Un altro attraversamento pedonale in direzione San Giovanni. Poi perdiamo le tracce. C’è una salumeria giusto qui davanti. Esce un signore e chiediamo se sa dove continui la pista ciclabile.

Finisce in questo punto, qui è già San Giovanni a Teduccio.

Mi pare informato ‘sto signore allora gli chiedo del forte di Vigliena.

Sì, sta proprio qua dietro.

‘Sta pista ciclabile non serve per andare a San Giovanni: serve per entrare dentro il nostro passato.

Strada deserta, ma chi sa? forse solo perché è sabato.

Un edificio che è la realizzazione di quello che si dice “Cattedrale nel deserto”: la ex Cirio, una fabbrica di cemento armato ma coi merletti delle cattedrali gotiche e i vetri rotti.

Pochi metri ed ecco sulla sinistra i resti di quel forte.

Me lo aspettavo ancora più negletto, almeno c’è una recinzione, c’è anche un cartello che racconta in poche parole gli avvenimenti di quei giorni. La struttura è parzialmente crollata ma ce ne sarebbe ancora da vedere di ricordi.

Magari adesso che in questo luogo ci si può arrivare facilmente, in bici, vuoi vedere che qualcuno pensa che si debba davvero riaprire l’accesso a quella storia?

Nella salumeria, per ringraziare in qualche modo l’idea millenaria dell’oste che accoglie lungo i cammini del mondo, sento che qualcosa la devo comprare. È troppo presto per un panino allora compro solo due piccole birre.

Iniziamo a ritornare verso la capitale, i resti del Castello del Carmine, poi quelli del vado con lo stesso nome.

Sosta a piazza Mercato, che ha visto molte violenze legate a quei giorni. Non resta che brindare con quelle due birre comprate dalle parti del forte a questa città capitale di un mondo, a questi uomini che non vogliono smettere di pensare che la ragione sia sempre solo da una parte. Di avere così tanta paura di soccombere che vanno in cerca della morte.

Poi dentro la chiesa di Sant’Eligio, con fuori quel suo orologio così grande perché ha misurato il tempo di moltissime cose, nel silenzio che rimbalza sotto gli archi gotici, un poco di pace si ritrova.

Se in questi giorni di pandemia volete fare un giro senza stare in mezzo alla folla, forse questo è un buon percorso per muovere il corpo pedalando e la memoria tra le pagine dei libri di storia.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

IL VIAGGIO (7) – Andiamo a visitare un tempio induista senza spostarci molto, diciamo fino a Montesanto

Giorno 7: martedì 3 marzo 2020

Di pomeriggio, oggi andiamo a cercare il tempio indù che un monaco buddhista srilankese ci aveva consigliato di andare a vedere. Mi aveva dato proprio la notizia della sua esistenza, a poca distanza dal tempio dei suoi ventotto Buddha.

Me lo aveva spiegato due volte il percorso da un tempio all’altro, da salita Pontecorvo verso Montesanto. Io avevo annuito, negato, annuito un’altra volta, pure se c’erano troppi bivi di vicoli dentro quella mappa, pensando che mi ero fatto un’idea abbastanza precisa della zona, del punto dello spazio di questa città in cui sarei potuto andare a cercare, chiedere alle persone per trovarlo.

Poi sono passati diversi giorni, quasi un’epoca se vi devo dire, esagerando, perché adesso circola la notizia, in maniera epidemica, di un virus che sembra nato in Cina. Allora un po’ mi ero pure distratto.

Adesso ricomincio a viaggiare con la curiosità di guardare. Prendo la mia solita metropolitana intercontinentale, il nostro volo su rotaie.

Appena entro nella stazione e mi concentro sul viaggio inizio a contare le persone di quello, e questo, Stato. Appena mi distraggo torno a Napoli. E ogni volta, di nuovo, che mi ricordo del viaggio, aumentano di uno, due, sono arrivato a sei, sette eccolo, i srilankesi in pochi minuti ad aspettare.

Mi imbarco, partiamo.

Atterraggio di nuovo a piazza Dante, poi stradine, poi un vicolo in salita, largo, e pulito. Dalla mappa guardata a casa, prima, dovrebbe essere facilissimo raggiungerlo: vicino a piazza Montesanto, vico Spezzano 18/A, una parallela di salita Tarsia.

Salgo, arrivo a un incrocio che non era previsto e non l’ho ancora incontrato.

Continuo un po’, niente più corrisponde all’idea che m’ero fatto, allora torno indietro.

Due donne, belle, delle linee di quel popolo del viso, del corpo, della grazia delle mani e della pelle. Chiedo a loro.

All’inizio non capiscono bene, poi sono le prime singalesi (anzi dobbiamo dire srilankesi se vogliamo intendere tutte le etnie di quel Paese) con cui parlo che mi chiedono se sono capace di parlare in inglese.

Yes, yes, I’m looking for the hindu temple.

Tamil?

Yes, Tamil hindu temple.

, e mi indica la strada da dove ero passato, vicino, vicino indicando, trovi vicino.

Ringrazio, poi mi viene l’idea che è bello avere una foto di questo momento. Photo, photo e scatto sorridendo. Una si copre il viso ma per finta, dopo molto tempo.

Eccolo.

Sulla sinistra, a piano terra: una porta di ferro. Subito oltre: una ghirlanda colorata di traverso. Entro e i colori aumentano.

Si scende. A sinistra, subito, in un’altra porta, c’è una donna che sembra di stare in India.

Lo aveva detto la nostra guida per turisti: “I Tamil, nel nord del Paese, di religione indù, sono molto più vicini all’India che alla cultura del resto dello Sri Lanka”.

Indossa il sari, e sulla fronte ha un bellissimo piccolo cerchio disegnato, netto.

Le spiego l’idea che ci sta muovendo. Allora mi porta più dentro per parlare con qualcuno che lei pensa sia più adatto.

Aumenta lo spazio, è largo, e intravedo immagini e statue di intuizioni sacre.

Arriva un uomo scalzo, con le mani bagnate, sulla fronte non ha un cerchio scuro ma una striscia bianca che si sarà fatto per caso mentre stava con gli altri pulendo.

Spiego di nuovo.

È sorridente, gli lascio il biglietto da visita con su scritto “Ingegnere”. Speriamo che quello a cui lo darà non lo legga troppo. Mi chiameranno quando c’è una festa loro.

Gli chiedo quando.

Ah, appena si mettono d’accordo, via cellulare sei o sette persone, per vedersi qui e aprire il tempio.

Non abbiamo orari di apertura.
Ci telefoniamo: “Vogliamo andare? Vieni?”. E allora noi apre tempio.

Che vi devo dire: speriamo che mi chiamino, e non fra troppo tempo.

Giorno 8: domenica 27 settembre 2020

È passato molto tempo e non ci hanno contattato, c’è anche da dire che nel frattempo il mondo è cambiato. Quella notizia di cui vi raccontavo il 3 di marzo nel frattempo si è fatta più vicina, è arrivata alle nostre porte e per alcuni mesi siamo dovuti stare tutti chiusi dentro.

Allora stamattina, domenica, provo ad andare a vedere se li trovo.

Stavolta scendiamo a piedi, per scale antiche, via Cupa Vecchia. La temperatura dell’aria finalmente è scesa e si cammina bene, soprattutto se andate con un amico. La prima tappa di giro del mondo che faccio senza viaggiare oltre che con voi.

Poi un pezzetto di Corso Vittorio Emanuele, la scala di Montesanto, e ci siamo quasi.

Iniziamo a salire per vico Spezzano.

È passato tanto di quel tempo che mi ricordo soltanto che la porta si trova sulla destra, verso l’alto di questa leggera salita. Provo a chiedere a qualcuno che sta scendendo e che a occhio potrebbe essere abitante di qui intorno.

Buongiorno stiamo cercando un tempio induista che sta da queste parti, ci sapete dire il posto esatto?

Una volta, due, e l’espressione è la stessa: nun sapimme proprio e che state parlanno.

Vabbè dai, non sarà difficile trovarlo.

Sta più sopra di quanto ricordassi. Il portone di ferro senza nessuna scritta, neppure un nome qualunque sulla cassetta delle lettere. Però è aperto e basta affacciarsi dentro per rivedere quella ghirlanda di fiori di carta che attraversa tutto l’arco della porta in alto.

Entriamo.

C’è silenzio. Forse non c’è nessuno. Ecco, due persone che stanno lavorando.

Sono gentili, gli spieghiamo perché siamo venuti e chiamano subito al telefono qualcuno che può esserci di aiuto. Appuntamento più tardi, dopo pranzo.

Nel frattempo però so’ troppo curioso, stavolta un’occhiata dentro un poco più lunga non riesco a non darla.

L’effige di una delle loro divinità principali, con la testa di elefante. Altre statue ognuna dentro una specie di tempietto chiuso da tende e molto illuminato dentro. Un po’ ci spiegano lo stesso. Qualche foto la faccio. Poi, dai, torniamo dopo pranzo.

Raffigurazione del dio Ganesh

Mi vado a fare un giro verso Santa Chiara, l’amico mio di viaggio non poteva continuare la tappa e adesso siamo io e voi rimasti soli.

Poi una pizza tra un diluvio e l’altro.

Al tavolo a fianco due giovani donne americane: Spaghetti carbonara, una pizza e due cocacole. Diversi altri avventori tutti con l’accento nordico. Dai che stamattina non siamo i soli a fare viaggi intorno al mondo.

Mi incammino verso Montesanto, piove forte. Mi riparo ogni pochi metri lungo via Toledo sotto agli usci dei palazzi. Dopo un po’ non è più tanto per la pioggia, è per sentire che suono ha l’abbraccio di questi portali antichi, altissimi, di pietra del vulcano, con i portoni di legno enormi e le porticine in cui passano senza inchinarsi solo quelli bassi.

Sotto ogni portone trovo qualcuno che si sta riparando oppure arriva mentre stiamo già lì fermi.

Ognuno poi riparte quando pensa che la quantità di acqua che sta scendendo è quella giusta che gli tocca sopportare. Dall’altro lato della strada c’è chi con i pantaloni corti, la camicia leggera e le infradito cammina sott’all’acqua senza neppure l’ombrello.

Sono le varie culture del mondo, ad ognuno la pioggia lo bagna in un modo.

Eccoci di nuovo fuori alla porta di ferro.

È appena appena aperta. Mentre mi avvicino viene verso di me un signore che stava parlando al telefono al portone a fianco.

Sono le 14 e pochissimi minuti, puntualissimo Suresh, fuori, mi stava aspettando.

Si ricorda di me. È la stessa persona con la quale avevo parlato l’altra volta, prima del “diluvio” col nome di Covid. Bene, dai, allora siamo già a metà delle presentazioni.

Entriamo.

È srilankese, sta in Italia da circa venti anni. È il presidente della comunità Tamil di Napoli. È anche uno dei responsabili di, prendete un bel respiro, Arulmigu Sri Sithy Vinayagar aleyam, “aleyam” vuol dire “tempio”, quello prima è il nome proprio di questo che stiamo visitando adesso.

La comunità che lo ha voluto e che lo sostiene è di circa centocinquanta famiglie, paesani li chiama Suresh, e questo nome mi piace moltissimo.

Ogni pomeriggio alle diciotto pregano qui tutti insieme. È circa un anno e mezzo che è aperto. La comunità Tamil di Napoli hanno voluto costruire questo tempio da tanto tempo. All’inizio avevano solo un paio immagini di divinità, incorniciate, adesso hanno diverse statue molto curate.

A sinistra il dio Ganesh, a destra suo padre Shiva

Quella che colpisce subito entrando, messa più al centro, ha la testa di elefante. Si chiama Ganesh mi dice. Poi negli angoli della stanza ci sono la madre Parvati, il fratello Murugan e il padre Shiva. Shiva sta anche, il corpo tutto azzurro, vicino alle due fotografie che utilizzavano per pregare i primi tempi.

Tempietto che custodice la statua del dio Ganesh

Gli chiedo perché il dio Ganesh abbia la testa di elefante: l’elefante è nostro animale più importante, poi c’è storia molto bella bella lunga, difficile adesso spiegare.

C’è una certa grazia in queste persone che vengono dallo Sri Lanka che qualunque cosa dicano non suona mai male.

Di storie che spiegano questa testa ce ne sono diverse, hanno a che fare con l’impazienza del padre, con la gelosia di altre donne divine, e la riparazione di quegli eccessi. Dando vita ad un essere che ha dell’umano e la profonda saggezza di quell’animale. Ai suoi piedi è sempre raffigurato un piccolo topo. Un animale piccolo ma molto intelligente, che per alcuni simboleggia l’ego, la bramosia, per altri la capacità col suo acume anche di produrre notevoli danni. Ganesh, dall’alto, lo neutralizza con il suo controllo. A pensarci un attimo il topo somiglia a quello che sta combinando in questo mondo l’uomo. Forse una preghiera a Ganesh di sorvegliare bene il roditore dovremmo farla tutti.

Davanti al tempietto che lo racchiude ci sono tre coppe dorate con polveri e impasti di vari colori. Gli chiedo a cosa servano e lui mette il dito dentro il primo bianco, lo porta al centro degli occhi per lasciare un marchio. Rifà lo stesso gesto con l’impasto rosato e poi con quello rosso. Prima di ogni cerimonia sacra, loro le chiamano pooja, è importante farsi sulla fronte questo segno.

La statua di Ganesh, prima delle cerimonie importanti viene lavata, ma solo il Pandit può farlo. Poi lo vestono con stoffe eleganti.

Ganesh vestito per la pooja (Foto di Suresh)

La portiamo in giro per questa grande stanza.

Non fuori gli chiedo?

No, fuori no, almeno per adesso, dobbiamo chiedere autorizzazioni, e siamo ancora… nuovi.

Poi mi mostra alcune foto di cerimonie fatte e un video. Tutti con i vestiti tradizionali, sari coloratissimi, uomini a torso nudo, pantaloni al ginocchio e bracciali. Sollevano la portantina in sei, si danno il cambio anche se percorrono, dentro questa stanza, pochi metri. Hanno gli stessi gesti ed espressione del volto che abbiamo noi quando portiamo in giro i nostri Santi.

Processione durante la pooja (Foto di Suresh)

Poi gli chiedo lui da dove venga esattamente. Vengo da Chilaw, centro di Sri Lanka, sulla costa occidentale.

Allora gli dico: dove c’è Kandy la città con il grande tempio buddhista. E mi pare contento. Lui va anche al tempio buddhista ogni tanto. Conosce bene il monaco con cui avevamo parlato. Se pensiamo che con i Tamil, in maggioranza induisti, in Sri Lanka fino a dieci anni fa c’erano conflitti questa unione tra persone di diverse religioni è un ottimo segno.

Poi mi dice che qui ogni tanto vengono anche italiani. Due signori di Bologna qualche settimana fa sono venuti ad assistere ad una delle loro cerimonie.

Quando ci sarà una pooja Suresh ci richiama, siamo troppo curiosi.

Pandit durante la pooja (Foto di Suresh)

Prima di uscire incontriamo un altro dei cinque o sei che si occupano più direttamente di questo tempio: Suresh ci ha tenuto a dirmi tutti i nomi in un elenco (Jegan, Jeyakanthan, Lavana, Kumar, Rasidharan, Paranjothy, Nalini).

Anche se lo sapevo ormai, lo avevo intravisto, questo posto mi ha sorpreso lo stesso.

È bello ogni volta andare per un vicolo della città in cui sono nato e trovare che sono lontanissimo dall’aver visto tutto.

(Fine settima parte, continua)

Testo e foto ©Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

PICCOLE VIE DEI CANTI – Da Antignano al Museo Archeologico lasciandosi guidare dallo sguardo sui dettagli

Ventidue luglio, ore diciassette, appuntamento davanti alla chiesa di San Gennaro ad Antignano, quartiere Vomero.

Ciao Maria, mamma mia da quanto tempo…

Un saluto un po’ a distanza, obbligatorio in questi giorni, e iniziamo a camminare, mentre io cerco di spiegarle meglio quest’idea strana che tengo.

Fa piuttosto caldo, almeno per me che devo avere origini montane, che sopra i ventisette gradi sostanzialmente soffro. La spiegazione mi viene fuori storta, ho opportunamente confuso la cosa, ottimo.

Maria però è pragmatica, non si scompone, e riusciamo ad andare tranquillamente avanti. Allora le inizio a chiedere perché per lei questo itinerario è importante.

Qualche anno fa, France’, era un anno pesante: problemi di salute dei miei genitori, e i pensieri quotidiani erano diventati più assillanti. Mi capitava di dover percorrere spesso questa strada per andare a lavoro. Allora ogni volta, camminando a piedi, cercavo di concentrarmi, di guardare fuori per distrarmi. Questa strada, devo dirti, in qualche modo mi ha salvato.

Ecco la linea del canto.

Tre minuti fa, stiamo scendendo lungo via San Gennaro ad Antignano, al terzo passo, senza dire niente, sia Maria che io avevamo guardato in alto per un istante. C’è un piccolo busto del Santo, antico, esposto qui, all’aperto, che segna il punto esatto dove avvenne per la prima volta il prodigio dello scioglimento del sangue. Abitava qui Eusebia, la donna che lo aveva raccolto nelle ampolle. Poi non dite che il Vomero non è un quartiere identitario. Ecco un piccolo pezzetto di Napoli vera che si modifica raccontando.

Poi passiamo davanti ad un lungo murale, una striscia di vernice colorata su uno sfondo nero.

Credo di avere le foto, fatte col telefono, pezzo pezzo, di tutto questo muro. Mi ha ispirato.

Maria lungo questo tragitto, nel tempo, ha fotografato. Poi ne è venuta fuori una serie di immagini che lei completa aggiungendo altri elementi, in una specie di collage elettronico.

Questo tratto iniziale non è bello, lo facevo e lo faccio camminando rapidamente.

Non c’è spazio nella sua descrizione per i tratti che non ha visto veramente. È un racconto sottile ma non finto.

Qui, oltre la finestra di questo palazzo, c’era la mia scuola elementare.

Allora per lei credo sia anche un po’ un viaggio nel tempo.

Continuiamo a scendere.

Ogni tanto mentre camminiamo la fotografo, a rilievo su questo suo sfondo.

Qualche volta mi fermo a guardare qualcosa che a lei magari non la prende.

Dei girasoli finti, in alto su un balcone di un palazzo ruvido. Lei mi fa: Che tristezza mi fanno quei fiori.

Mentre sto per fotografare mi accorgo che al primo piano a cercare sole c’è una signora anziana, seduta sul balcone, non soltanto gli altri fiori.

Si passa sotto un grande ponte.

Un signore, dritto, alto, in piedi, fuori al balcone suo, in mezzo a questo grigio dell’ombra, di una luce di fotoni misto polvere.

Poi appare la prima facciata di palazzo con sopra un mosaico. Ecco, da qui diventa bello.

Sono i palazzi decorati insieme alla metropolitana Linea 1, dell’arte, alla stazione di via Salvator Rosa.

Ernesto Tatafiore, “Diderot Filosofia”

Ha diversi anni questa idea di museo diffuso, per tutti, “obbligatorio”, da visitare ogni giorno spostandosi, e vive.

Questo contrasto tra gli archi in mattoni e quei palazzi di sfondo è bellissimo anche.

Sono i resti di un ponte romano e Icaro che per il caldo di oggi gli si sciolgono le ali di cera e precipita lungo la parete del palazzo più alto.

In alto a sinistra: Mimmo Rotella, “Il volo di Icaro”

I ragazzini che giocano a pallone per un attimo stanno seduti in fila sul muretto.

Fanno anche loro un’opera d’arte, diffusa, in movimento, aperta a tutti, soprattutto in questo momento in cui ci stiamo allontanando.

Poi c’è la facciata di un edificio con una pioggia di raggi dorati in diagonale. Ci abitava l’autore di ‘O sole mio, Giovanni Capurro.

Scendiamo ancora lungo la stessa linea che nel frattempo ha cambiato nome due volte: via della Cerra, poi via Salvator Rosa, e Maria ogni tanto mi indica un punto. Adesso il murale sorto spontaneamente intorno all’ingresso di una scuola.

Il Vesuvio poi spunta in fondo.

Ci avete mai fatto caso? Laggiù, oltre piazza Mazzini, questa nostra montagna cardinale si solleva altissima, almeno il doppio dell’altezza solita, sembra il monte Fuji.

Poi ci dobbiamo fermare proprio. C’è sulla sinistra, quasi di fronte al Liceo Vico, una chiesetta rossa, incastonata dentro un vicolo. Ha porte e finestre murate, ma la luce sembra che ne abbia un riguardo speciale, la illumina di più, più viva, qua intorno, di tutti quanti.

A Maria fa così effetto che non può evitare di scattarle la millesima foto, senza saperne la ragione, una per ogni volta che ci passa davanti.

Si chiama Santissima Trinità alla Cesarea, è chiusa dal terremoto del millenovecentottanta, tra pochi giorni quarant’anni.

Poco più giù, sul lato opposto della strada:

Lo vedi quel palazzo con l’azzurro? Di collage con lui ne ho fatti molti.

È un azzurro leggerissimo, consumato come i muri, gli infissi, forse anche l’aria e la palma che gli si muovono intorno.

Immagine di Maria Leone (tutti i diritti riservati)

Poi ci infiliamo in una strada che conosco, sarà l’incrocio con un altro Canto che ho raccolto, via Santa Monica. Qui c’è la scuola singalese più grande di Napoli, l’ho vista per la prima volta durante il mio giro del mondo.

Ah, ecco perché quando ci passo incontro sempre questa corrente veloce di ragazzi vestiti tutti uguali, eleganti.

Poi, all’incrocio tra via San Giuseppe dei Nudi e via Mancinelli il punto forse più importante, la nota acuta di questo racconto.

Guarda quel tabernacolo: mi affascina.

Il puttino di gesso, in alto, se ci fai caso ha solo due vuoti al posto degli occhi. È uno sguardo un po’ inquietante. Anche la cornice rettangolare che adesso sembra bianca, se la fotografi è sul celeste. Risalta molto.

La Pop art, forse qui si sarebbe sbizzarrita alquanto, sarebbe piaciuto moltissimo secondo me a Andy Warhol. Ridendo

Al posto di Marilyn Monroe, se lo avesse visto, forse avrebbe fatto quest’altra serie, colorata altrettanto.

Sbuchiamo sopra il Museo Nazionale, la Galleria piccola che ha di fronte.

È stato un viaggio sottile, curioso, tanto sottile da diventare involontariamente intenso. Lungo le impressioni di un’architetta che ha voluto lasciarsi suggerire emozioni soltanto dalle forme.

Quando ci salutiamo, Maria, che questa linea la percorreva in solitaria con la musica negli auricolari, mi dice: non parlo mai così tanto.

Forse andare in giro, camminando, insieme, guardando quello che ci sta intorno, parlando, è una cosa che non facciamo più molto spesso, un tipo di comunicazione che ci manca.

Forse sono molto più sottili di quello che pensassi queste piccole vie dei Canti.

Passeggiata lungo un tracciato proposto da Maria Leone. Da piazza degli Artisti, lungo via S. Gennaro ad Antignano, poi via Della Cerra, via Salvator Rosa, via Santa Monica, via San Giuseppe dei Nudi.

Se avete anche voi una linea da camminare a Napoli o dintorni, scriveteci. Qui trovate i nostri contatti.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

MAPPE – Via Cupa Vecchia. Da piazza Leonardo a Montesanto in 18 minuti

Ecco un’altra scorciatoia, anzi un paio, per pedoni a Napoli.

È via Cupa Vecchia che dal Vomero (piazza Leonardo) vi porta a corso Vittorio Emanuele e poi voltando a destra e prendendendo la scala di Montesanto vi porta nella piazza omonima, in zona Pignasecca, tutto in circa 20 minuti.

Anche qui abbiamo due possibilità:

1) La più fresca, passando dentro il parco Viviani.

A via Girolamo Santacroce entrate nel parco Viviani, lo percorrete in discesa, in mezzo al verde, fino al suo secondo ingresso che userete per uscire a metà scalinata di via Cupa Vecchia. Dopo 5 minuti vi trovate, sempre scendendo, al corso Vittorio Emanuele. Poi continuate per la scala di Montesanto.

Qui la mappa interattiva

2) Nel caso il parco Viviani lo troviate chiuso.

Nella curva di via Girolamo Santacroce dove c’è la chiesa prendete il viale in salita, poi passate da un tornello pedonale sempre aperto a fianco ad un cancello. Scendendo un po’ troverete via Cupa Vecchia dal suo primo gradino mentre la parte finale del percorso è la stessa del caso uno.

Qui la mappa interattiva

(Trovate la descrizione completa di un percorso molto simile, e le foto, nel nostro libro Napoli a piedi)