NAPOLI DAL MARE – Parte il reportage sulla linea di costa. “Nas’ ‘e cane” e l’antica tradizione dei barcaioli di Santa Lucia

3 Maggio 2017

Dalle pagine di questo sito e nel libro Napoli a piedi vi raccontiamo le scale di Napoli, un “luogo” poco noto, solo sfiorato da molti napoletani ma che sta lì da tempi antichi.

Ora vorremmo iniziare a esplorare un’altra zona di confine, un altro luogo detto e non detto: la linea tracciata tra la Napoli di terra e la Napoli fatta di mare.

Lo sappiamo che è un rapporto complesso, anche se chi in questa città non ci abita pensa che sia del tutto normale. Un libro di tanti anni fa di Annamaria Ortese, ebbe un titolo che sembrava sbagliato: Il mare non bagna Napoli. Lo ammise anche lei l’errore qualche anno più tardi, o meglio lo spiegò quel libro: era il suo modo di sentire di quegli anni, era il momento difficile della sua vita che le aveva dato quella intonazione.

Però quel titolo a Napoli le è rimasto in qualche modo impresso, e se non ci fosse stato nulla di vero non sarebbe successo. Forse ‘ce sta, ‘ce sta coccos’ in questa linea di costa che le persone al mare le unisce ma le separa pure. Non lo sappiamo bene, l’unica cosa è provare a indagare.

Partiamo dal semplice; e il modo più semplice a Napoli per avvicinarsi a quella “linea di confine” forse è affittare un gozzo a remi nel porticciolo di Santa Lucia ed andare ad esplorare i dintorni lungo costa.

Allora siamo andati a trovare uno dei più antichi barcaioli della città: si chiama Nas’ ‘e cane , a Borgo Marinari, sotto il Castel dell’Ovo.

Ci potete arrivare da due parti, c’ha il doppio ingresso.

O dal ponte che collega via Partenope al Castello, per le scalette ripide che trovate a sinistra, oppure, ed è più bello, dalla scalinata che sta proprio di fronte a via Santa Lucia: attraversate via Partenope e scendete gli scalini; poi voltate a destra passando lungo un camminamento stretto stretto che già vi fa pensare di essere in barca perché l’acqua sta lì vicinissima e la capa vi ondeggia un po’ ché avete paura di finire a mare; tra la veranda del ristorante Zi’ Teresa e la poppa delle barche ormeggiate. Dopo 10 metri si arriva in uno slargo storto, stiamo tra il ponte per il Castello e il mare.

Come arrivate nello slargo un ragazzo con gli occhiali a specchio, il cappello di paglia e la maglietta bianca forse vi chiederà: Barca, boat?. Se leggete sulla maglietta c’è scritto “Nas’ ‘e cane”.

Non è uno che si è improvvisato da un giorno all’altro in quel mestiere. La sua famiglia, i Bianco, sta lì a noleggiare barche dal 1890, da prima che si facesse la colmata a mare. Prima della colmata stavamo a Santa Lucia, ora al Borgo Marinari, ci dice Imma, la sorella, che gestisce coi fratelli e la mamma il bar proprio vicino, lo storico Il Barcadero.

Le abbiamo chiesto: ma come è cominciata tutta questa storia? E lei: le vedete questa due foto vicino al muro? Quello in alto, sopra a tutti, è Salvatore Bianco, detto Nas’ ‘e cane. I due signori nella foto subito sotto sono Vincenzo e Antonio Bianco, i figli. Poi nell’altra c’è Salvatore Bianco, mio padre, e pure lui era soprannominato Nas’ e cane. Poi quel ragazzo che vi ha parlato fuori, con la maglietta bianca è mio fratello Vincenzo. I nomi si alternano: Salvatore e Vincenzo non vi potete sbagliare. (E’ a sopponta, la tradizione della famiglia meridionale. Al primo nipote maschio va il nome del nonno paterno, alla femmina quello della nonna).

Il mio bisnonno, il nonno di mio padre, Salvatore, già a Santa Lucia affittava le barche. In realtà pure il bisnonno da parte materna faceva lo stesso, ed ora sono quelli che stanno nella rotonda qua vicino, un poco più avanti (ndr: la rotonda sotto via Nazario Sauro).

Affittavano la barca ai pescatori insieme a un pugno di esca per pescare. Con le nasse andavano loro stessi a prendere i gamberetti che all’epoca si usavano come esca. Dipinta su quelle mattonelle sotto il bancone è proprio quella scena, presa da una vecchia foto. Tenevano anche un gozzo a vela: sta in quell’altra scena sotto l’altro bancone.

Noleggiavano le barche ai pescatori della zona: all’epoca avere una barca non era per tutti. Poi la affittavano pure a quelli che si volevano fare semplicemente un giro e che magari erano meno conosciuti. In quei casi, la vedete quella cassapanca di legno dentro la fotografia? Be’ lì dentro mettevano le scarpe dei clienti che si facevano lasciare come garanzia. Le scarpe erano un bene di lusso, nessuno le avrebbe lasciate, sarebbero tornati di sicuro a riportare la barca.

Imma ci ha raccontato la storia. A Vincenzo chiediamo delle cose un po’ più specifiche: ci dice che la manutenzione se la fanno loro stessi. Le barche in riparazione infatti stanno qua vicino: alcune sulla breve salita che porta sul ponte di Castel dell’Ovo, altre le abbiamo viste prima del ristorante Zi’ Teresa quando siamo venuti. Ci stanno i paglioli appena verniciati ad asciugare; una barca sverniciata fino alle tavole di legno. I colori disegnano sul tavolo di plastica, e pure un po’ sui basoli per terra, puntini di una pioggia arcobaleno.

L’officinetta sta a fianco al tabernacolo della Santa che dà il nome al luogo. La condividono con un altro barcaiolo perché qui in totale sono in quattro quelli che fanno questo stesso mestiere. I motori no, non li facciamo noi, li portiamo da altri a revisionare.

Gli chiediamo qual è la clientela tipica di oggi: Oggi i clienti sono vari: ci sono i ragazzini che magari hanno fatto filone a scuola ma anche molti turisti: ultimamente c’è stato un incremento forte. I ragazzi si vanno a fare il bagno, qualche turista si fa pure accompagnare. Pochi giorni fa è venuto Marco Tardelli: ci ha chiesto se lo portavamo a fare un giro fino a Posillipo”.

Ma poi perché questo nome? Nas’ ‘e cane? Per due motivi: uno era proprio per la forma del naso, arrotondato; l’altro era il fiuto per gli affari, gli bastava un’occhiata a quelli che passavano per Santa Lucia per capire al volo a chi la barca si poteva affittare.

I prezzi vanno dai 15-20 euro per un gozzo a remi, fino ai 70-80 per una barca col motore, benzina inclusa. Siamo aperti tutto l’anno, tempo permettendo dice Vincenzo. L’orario varia con il meteo e con il periodo dell’anno: si comincia la mattina e si finisce verso le 6, oppure più tardi, pure alle 8 nei week-end della bella stagione. (Per informazioni hanno anche il profilo facebook)

Mentre chiacchieriamo arriva un signore. Trascina un carrellino con le ruote e ha in mano il retino. Paga, chiede a Vincenzo se tiene un poco di colla per fare una riparazione alla sua attrezzatura da pesca e se ne va: da fine ‘800 fino ad oggi i pescatori ancora fittano le barche da Nas’ e cane per andare a pescare.

Poi chiediamo di imbarcarci per un giro breve.

Vincenzo salta a bordo della lancia pronta. Scioglie la cima e si accosta al gradino. Mettiamo i piedi sulla coperta di legno, che quando ci sali fa un piccolo suono di tamburo, solido, sordo, e prendiamo posto. Vi sembrerà strano ma già è cambiato molto, si ha da subito la sensazione di vedere la cosa dal lato opposto.

Passiamo sotto il ponte, il passaggio è basso basso. Poi si apre Posillipo lontano. Incrociamo un altro gozzo che torna e ci salutiamo, come sempre tra barche in mare.

Costeggiamo da vicinissmo, da sotto, questo castello enorme. Vediamo bene la punta dell’isolotto: ci sta ancora un cannone che fa finta di essere puntato e poi gli archi di pietra nera, tufo e mattoni.

Poi il Vesuvio, e le boe e le barche grigie degli allevamenti di cozze.

Rientriamo dopo un poco dall’ingresso del porticciolo, tra il fanale verde e quello rosso.

Ritornando all’ormeggio vediamo da poppa le altre barche in affitto, ognuna c’ha un nome: Annamarì, Lauretta; ce n’è una tutta verde che si chiama Rosa .

Abbiamo fatto il giro dell’isolotto di Megaride, un giro attorno al centro dove è nato tutto quello che ci circonda, la città intera.

Dal mare la visione si ribalta, si vedono le cose da fuori, un poco da lontano e si sta nel silenzio: prima eravamo a terra, fissi, guardando verso l’orizzonte, poi invece sul mare morbido, fresco, in moto, e l’orizzonte più che guardarlo ci siamo dentro.

E ci si gode il sole, l’aria salata e un golfo, forse il più bello del mondo.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

INCONTRI – Dal Tibet a Napoli un antichissimo insegnamento di yoga e meditazione

16 settembre 2018

Lo Yoga ormai è di moda, pure a Napoli si porta, e magari a settembre è il momento in cui uno riesce finalmente ad iniziarlo a praticare. Allora prima che andate a finire in qualche palestra qualunque, con un maestro molto new age ma che magari insegna qualcosa di non proprio corretto, venuto non si sa esattamente da dove, abbiamo pensato di raccontarvi qualcosa che forse vi dà una buona traccia da seguire.

C’è una parola che se leggete libri sul buddhismo tibetano a un certo punto quasi sempre salta fuori. È come se l’autore, scrivendo, se la fosse tenuta riservata, un po’ indeciso se dirla o meno, o se per presentarla volesse aspettare il momento migliore.

Noi invece ve la diciamo subito, è: “Dzogchen”.

È una parola tibetana che letteralmente significa auto-perfezione. Indica l’insegnamento di buddhismo tibetano più alto, fino ad un po’ di anni fa era tenuto addirittura segreto. Pure il Dalai Lama, se ascoltate bene, ogni tanto dice di seguirne le tracce.

Bene, mo vi starete chiedendo che c’azzecca questo termine strano, proveniente dal Tibet, dentro questo sito quasi tutto napoletano? E allora vi diciamo che qualcosa c’azzecca di sicuro se è vero che questa antichissima pratica spirituale, negli anni ’60, dal Tibet, tra tanti posti nel mondo è sbarcata proprio a Napoli e poi da qui si è diffusa nel mondo occidentale. Ve ne raccontiamo brevemente la storia.

Nel 1964 un giovane signore tibetano, Chögyal Namkhai Norbu, arriva a Napoli, all‘Istituto Universitario “L’Orientale” per insegnare Lingua e letteratura tibetana e mongola (e ci resterà per circa trent’anni).

Era stato chiamato pochi anni prima, nel 1960, a Roma, dal prof. Giuseppe Tucci (uno tra i più importanti tibetologi del mondo, che ha realizzato otto spedizioni in Tibet per studiarne la cultura) all’IsMEO, l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente.

In Tibet le acque in quegli anni sono molto agitate, la Cina aveva occupato il Paese nel 1950. Così Namkhai Norbu prende la via dell’Occidente.

C’è pure qualcuno che sostiene che questa fuga dal Tibet verso l’ovest del pianeta somigli in piccolo a una cosa già accaduta in passato. All’esodo massiccio di intellettuali che con la caduta dell’Impero Romano di Oriente andarono verso l’Europa; in Italia sembra che questo sia stato uno dei fattori che diede origine al Rinascimento. Qualcuno azzarda oggi quindi il pensiero: Chi sa che anche questa migrazione di Maestri buddhisti dal Tibet non abbia in qualche modo un effetto positivo sulla nostra cultura occidentale di oggi.

Bene, arrivato dal Tibet a Napoli, il prof. Norbu inizia il suo insegnamento. Gli studenti si accorgono però ben presto che quello non è un professore del tutto ordinario: si sparge piano piano la voce che sappia molte cose non solo di letteratura, ma anche di medicina tibetana e yoga, e di questa antica tradizione che si chiama Dzogchen. Siamo dalle parti del ’68, la curiosità per l’Oriente comincia a farsi strada, pure i Beatles andavano in India.

E allora gli studenti iniziano a chiedergli lezioni di Yantra yoga. È uno yoga antichissimo quello del professore, uno dei pochissimi conservati da secoli (da circa 1300 anni) addirittura in un testo scritto ed il cui insegnamento diretto, da Maestro a discepolo, si è tramandato dalla stessa data senza interruzioni.

A parlarci di queste cose stamattina è il dott. Luigi Vitiello, medico e psicoterapeuta; lui in quegli anni, o subito dopo, c’era, a partire dal 1977.

Aveva 27 anni e, dice, nel gruppo ero uno dei più vecchi. Già qualcosa non ci torna tanto, perché se andate mo a Napoli a fare yoga o meditazione, l’età media è per lo meno il doppio: ma si sa, quelli erano i magici anni della fantasia al potere; (ritornano? quando?)

Il dott. Vitiello ci racconta quel suo primo incontro.

Il Maestro abitava a Pozzuoli, nei pressi della Solfatara (e non è un caso, lo vedremo dopo). Io seppi, dal fratello di un suo studente, di queste riunioni e un giorno andai a vedere. Mi ricordo che ad un certo punto, erano riunioni di non tante persone, mi avvicinai e mi misi a parlare direttamente con lui. Mi ricordo che tirai fuori tutte le mie conoscenze filosofiche, pure Sant’Agostino, mi ero messo a discutere dei massimi sistemi, della ricerca della verità. Allora dopo un poco il Maestro sai che fece?

Mi disse: “Va bene, va bene, la verità è che noi adesso ci andiamo a prendere una tazza di tè”. E teneva ragione.

L’approccio orientale, buddhista, alla ricerca della verità, dell’essenza delle cose, è molto meno mentale del nostro, o meglio passa per la mente ma coinvolgendola completamente, non soltanto nel suo lato speculativo. Per loro, più che pensare, conta vedere con la mente. Quindi se cercate la verità: studiate, leggetevi tutto quello che volete, pure Sant’Agostino; però non vi dimenticate di andare di persona a cercare, con la vostra mente, ma non solo con una parte, con tutta, pure con quella che usate per mettere l’acqua sul fuoco per preparate il tè in un pomeriggio qualunque.

Intanto nel 1977, a via Palasciano, in zona Riviera di Chiaia, le lezioni di Yantra yoga, in una palestra, cominciano a svolgersi più regolarmente.

Dopo qualche anno, l’idea, continua Gino, era avere un centro per la comunità che nel frattempo si stava creando,  ed il gruppo si sposta in una struttura a via del Parco Margherita.

Erano gli anni in cui si cominciava a constatare il fallimento della lotta politica, c’era chi si spostava verso Lotta Continua e chi verso Osho, verso una ricerca più intima, spirituale, profonda. Il Maestro dice spesso: “non serve la rivoluzione ma l’evoluzione”. La prima vuole cambiare il mondo mentre con la seconda ci si accontenta di cambiare se stessi, ma cambiando se stessi il mondo davvero lo si cambia. 

Poi nel 1976 a Subiaco, ci fu quello che io chiamo il “ritiro numero zero”: una trentina di praticanti provenienti soprattutto da Napoli e Roma, si ritrovano insieme.

Il primo vero ritiro è l’anno dopo a Prata, in un terreno in mezzo alle colline, con le tende, in maniera molto semplice, spontanea. E stavolta c’erano persone da tutta Italia: la voce si stava spargendo rapidamente.

Guardando le foto viene da pensare ad una piccola Woodstock, ma non di rock’n roll bensì di yoga e canti tibetani. Quell’uomo in foto con gli zigomi sporgenti, che sembra quasi un indiano d’America, è il Maestro Norbu.

Piano piano la comunità si ingrandisce e si inizia a pensare di acquistare un posto dove fare i ritiri, che intanto stanno diventando almeno tre all’anno: a Natale, a Pasqua e nei mesi estivi.

E allora Norbu propone di cercare un terreno in centro Italia in modo che sia facilmente raggiungibile un po’ da tutti.

La ricerca va avanti, poi un giorno lo portiamo a vedere, in Toscana, “Podere Nuovo”, così si chiamava quel posto. E lui ci dice: “sì, il posto è questo, l’ho visto in sogno”.

È così che nasce Merigar.

Gar” è un termine della cultura tibetana nomade e significa “insediamento”, “accampamento”, un posto dove si sta finché ci si sta bene e poi ci si sposta altrove.

Mi ricordo che quando, ai tempi della sede al Parco Margherita eravamo un po’ in difficoltà economica e non sapevamo se mantenerla in piedi, il Maestro ci disse: “Non c’è nessun problema, se il centro chiude sono molto contento, significa che non c’erano le condizioni perché rimanesse aperto”. E ci viene in mente l’idea buddhista del “non attaccamento” alle cose. Le culture nomadi sono, a prezzo di un poco di scomodità esteriore, facilitate in questo.

Ma torniamo alla fondazione di Merigar, il significato della parola Gar lo abbiamo detto; “Meri” invece vuol dire “montagna di fuoco”, perché il posto si trova alle pendici del monte Amiata che è un vulcano spento.

I vulcani come vedete ricorrono spesso nei luoghi in cui si reca il signor Norbu. Dalla Terra delle nevi a Napoli, Solfatara, Campi Flegrei, poi Merigar sul Monte Amiata, attualmente abita a Tenerife, dominata dal monte Teide, il terzo vulcano più grande del mondo. Questa cosa ci racconta un po’ che la terra dove abitiamo, Napoli, è un luogo non comune, ha energia forte.

Una volta fondato Merigar però bisognava… costruirlo, perché non è che ci fosse molto. E lì, dice Gino, abbiamo fatto molto karma yoga (l’opera volontaria dei membri della comunità). La comunità Dzogchen deve manifestarsi attraverso l’impegno, altrimenti non ha senso. E poi si sente propria una cosa solo quando ci si lavora dentro.

A Merigar adesso ci sono strutture bellissime, dopo tanti anni. Una grande sala ottagonale in legno, perfetta per le pratiche durante i ritiri con tanta gente.

Nel 2007 però anche a Napoli nasce un nuovo centro, si chiama Namdeling.

Namde” vuol dire “gioia infinita” e “Ling” è un punto di ritrovo più piccolo di un Gar, e poi questo nome richiama un po’ nel suono la parola Napoli.

Oggi i soci di questo centro sono circa 50. Sta in un posto tranquillo, confina col bosco di Capodimonte. Si trova in mezzo agli alberi di agrumi, in una piccola casa gialla con dentro una sala enorme senza colonne. L’hanno voluta così per farci entrare un grande mandala sul quale fanno alcune meditazioni in forma di danza. Ci si muove seguendo il percorso del cerchio, sul tempo della musica, cantando e mantenendo la presenza di poggiare i piedi sui colori giusti.

Quindi se a settembre volete partire col piede giusto, non farvi prendere dallo stress fino al prossimo agosto e volete approcciare il mondo dello Yoga, della meditazione; un modo diverso, che viene da Oriente e dal tetto del mondo, di cercare una risposta al perché siamo in questo posto, potete andare a trovarli, secondo noi vi si aprirà un altro bel mondo.

Qui c’è il loro loro sito, qui la loro pagina facebook.

Foto e intervista gentilmente concesse da Luigi Vitiello

Testo di Francesco Paolo Busco

MITI – Napoli saluta Diego Maradona (2/2)

Sabato mattina alle sette sono andato allo stadio. Volevo vedere anche lì come i napoletani salutavano Maradona.

Qualcuno lasciava la sua sciarpa del Napoli legata al cancello dello stadio, qualcuno portava un lumino, alcuni stavano lì come me a vedere per capire e per ricordare.

Non ho sentito nessuno parlare.

©Francesco Paolo Busco

MITI – Napoli saluta Diego Maradona (1/2)

Non sono un tifoso di calcio ma Maradona per questa città ha rappresentato molto di più di un calciatore geniale. Allora oggi sentivo che dovevo andare in giro a piedi a vedere cosa sentivano i napoletani. Sono andato a Materdei, alla Sanità, al centro storico, poi ai Quartieri Spagnoli; questo è quello che ho visto. (Ho tolto una foto: un bar aveva esposto fuori addirittura una bara, mi è sembrato che non fosse un’idea per salutare Maradona ma per farsi fotografare).

©Francesco Paolo Busco

Vedi anche Napoli saluta Diego Maradona 2/2

VITA IN CAMPAGNA – Visita al frantoio. La “nascita” dell’olio nuovo in terra di Cilento

Questo è il periodo dell’anno in cui viene prodotto “l’olio nuovo”, l’olio di oliva del 2020, nelle campagne italiane.
Da Felitto, in Cilento, la nostra Rosi Di Stasi, dopo averci mostrato la raccolta (qui trovate il video) oggi ci mostra le ultime fasi di lavorazione ed il momento in cui “nasce” questo prodotto tra i più caratterizzanti la cultura del bacino del Mediterraneo.