DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (2) – Incontri nei vicoli, una signora architetto, il carrozziere inventore e l’ultimo negozio nel centro antico

Continua il racconto da un piccolo paese dell’Italia interna, in Campania, in Cilento, a Felitto. (Se volete partire dall’inizio qui c’è il giorno uno).

Prima di iniziare però devo fare una breve considerazione.

Il diario di ieri finiva più o meno così: “La sera poi mi invitano pure a cena, stavolta a casa di Anna e Michele. In casa c’è una stanza vuota: il figlio studia a Modena perché, dice il padre, vuole diventare ingegnere alla Ferrari.”

Ecco, anche questo, come il traffico di quelli che intasavano le strade per andare a lavoro, è cambiato dopo l’arrivo del virus planetario. Una delle volte che, in questi due anni trascorsi da allora, sono tornato a Felitto, il figlio di Anna e Michele, Mario, l’ho conosciuto, adesso sta studiando da casa, quella stanza non è più vuota. Lo chiamano South working: lavorare, o studiare, dal sud per aziende che stiano altrove. È una cosa che se si hanno a cuore i paesi, adesso credo che si debba guardare attentamente. Qualche giorno fa mi sono accorto che se ne sta occupando anche il World economic forum, quelli di Davos 2021.

Ma adesso passiamo oltre, vediamo cos’è successo il giorno dopo.

Venerdì 11 gennaio 2019, giorno due

Stamattina la prima cosa che faccio è accendere di nuovo il fuoco. Qui, a gennaio, il caffè viene solo per secondo.

Stanotte ho imparato, me l’aveva suggerito ieri Anna, che una bottiglia di acqua calda nel letto è un sistema utilissimo: riscalda bene e per tutta la notte. Il cappello di lana con cui ho dormito non me lo sono ancora tolto; lo rivedo dentro lo specchio del bagno mentre mi faccio la barba. Neppure la calzamaglia e i calzettoni.

Fa freddo“, direbbe la moglie di Luca Cupiello, alcune volte.

Il campanile della chiesa madre in fondo

Spalanco le finestre, fuori c’è un sole bello. Il campanile della chiesa madre è a pochi metri; vicinissimi il tetto di tegole di fronte che sta nella foto di copertina, una piccola finestra di alluminio anodizzato e un balcone che non si capisce se è disabitato, perché ci crescono piante nelle crepe ma anche in alcuni vasi che ci sono.

Un altro abitante del centro

Mentre fotografo passa un signore; mi fa una certa emozione: allora non sono da solo in queste case. È l’unica persona che da ieri sera ho sentito camminare per le stradine del centro. Sono così strette e piene di scale che le auto non riescono a passare.

Adesso devo andare che ho appuntamento alle dieci con Michele.

M’incammino per i vicoli.

C’è un silenzio calmo, l’aria è pulitissima, frizzante, profumata anche della legna del fuoco. È come un grande abbraccio all’anima, che in qualche modo suo sta in silenzio ricambiando.

Il sole crea dei tagli di luce limpidi, allegri, caldi, sulle pietre fredde delle case. Ogni tanto spunta uno dei gatti disegnati sulle porte da una stessa mano, tutti diversi, colorati.

In una stradina, in fondo, intravedo qualcuno, allora tra i due o tre percorsi alternativi scelgo questo, gli vado incontro.

È una signora con i vestiti da lavoro e i guanti enormi. Sta armeggiando con la carriola per trasportare la legna a casa dal deposito, tra un viaggio e l’altro fa una pausa chiacchiere con la vicina che sta sull’uscio della porta a fianco.

Chiedo se le posso fotografare e, con una gentilezza piena di pudore, volendone sicuramente fare a meno, acconsentono. Poi mi chiedono chi sono, che ci faccio, è una inevitabile domanda in questi posti. Mostro il passaporto dell’amicizia di Rosi e tutto si distende ancora un poco.

Vado, altrimenti faccio tardi, ma visto che ormai sanno a chi appartengo gli dico che mi farebbe piacere, un’altra volta, parlare un po’ con loro. Va bene, non c’è bisogno di prendere appuntamenti, il centro storico è piccolo abbastanza da non perdere il contatto facilmente.

L’architetto

Buongiorno Michè.

Buongiorno Francè, stamattina face friddu. Andiamo al bar che ci stanno aspettando.

Salgo in macchina, pochi secondi e siamo al Bar Italia. Dentro ci sono già tutti: Rosanna, Donato, una nipote di Rosi: Angela, e Anna Pina, una signora architetto che oggi porta un grande cappello caldo con le falde.

Scopro dopo pochi secondi che, come Rosanna, ha un miliardo di idee e in continua evoluzione.

Dopo qualche minuto capisco che in realtà l’una senza l’altra non funzionerebbero altrettanto bene. L’idea di comprare la Casa delle cento stanze, la principale casa nobiliare del paese, Rosanna, da sola, non avrebbe avuto il coraggio di pensarla.

Anna Pina, da architetto, ma soprattutto da donna che ha una bella visione e vasta, delle cose di questa terra e di questo posto, le ha saputo trasmettere l’idea che quell’acquisto, ma soprattutto quella missione del palazzo, era possibile, bella, assolutamente da fare. Rosanna dentro quell’idea poi sa metterci la sua energia solare.

La missione, per chi non ha letto ancora quel primo articolo su Rosi è, come mi aveva detto: Se riuscissimo a fare in modo che almeno un giovane, anche uno solo, dei nostri, non fosse costretto ad andare via dal paese.

Poi Michele mi porta in giro a conoscere altre persone. Sta in ferie per qualche giorno e invece di spenderle per sé queste sue ore, le regala a noi curiosi che veniamo da fuori. In questo paese, se devo dire adesso alla fine di tutto, mi pare questa grande generosa accoglienza il loro più grande patrimonio.

Andiamo in macchina, poco lontano. L’ultimo tratto è in un vialetto di campagna.

Il carrozziere inventore

C’è un capannone, entriamo e c’è una specie di gigantesco carrozziere ed inventore buono.

Insieme al nipote di Rosanna, Giuseppe, ha messo su un’attività con la quale portano in giro, dove li chiamano, tutto il necessario per insegnare ai bambini le regole del codice stradale.

Macchinine, semafori, segnali e strisce pedonali sono già pronti su un carrello da rimorchio. Lo trasportano e montano un piccolo circuito stradale. Per spiegargli l’idea, invece delle parole li fanno guidare.

Si vede lontano un chilometro che Tommaso queste piccole auto le costruisce con passione. Le fa somiglianti a quelle vere, tra i modelli hanno anche la vecchia 500 e il maggiolino tutto matto. Le proporziona a occhio. Il suo capolavoro, di cui va molto fiero, lo sta creando ancora, è la F40, la Ferrari.

Tommaso e la F40

Mi porta a vederla sopra l’officina: la carrozzeria è quasi completa, per ora è grigia di stucco, va rifinita nel colore del fuoco.

Poi mi mostra un’altra idea: la bici cucina.

L’ha studiata nei minimi dettagli, anche quelli del codice stradale, ed è pronto a farne altre versioni secondo le richieste del cliente: numero di fuochi, frigorifero, pure un forno per le pizze si può mettere. Sorride, muove quelle sue mani grandi e dice: già ho studiato tutto.

S’è fatto tardi, è ora di pranzo, parlando parlando.

Le spalle al camino

La tavolata è lunga anche stavolta: Anna, Michele, Rosi, Donato, c’è pure Angela.

Una cucina come se fossi a casa, anzi meglio, un bel bicchiere di vino prodotto a poche centinaia di metri da qui da un giovane agronomo, iscritto a Filosofia, con le idee chiarissime e molte, che andremo a trovare un altro giorno.

Poi imparo che il posto più caldo d’inverno a tavola in paese è quello con le spalle rivolte al camino. Il gatto di casa lo sapeva già da molto tempo. Si accoccola sulle gambe di chi se ne sta seduto più tranquillo più vicino al fuoco.

L’ultimo negozio del centro storico

In uno dei pochi momenti in cui tornavo a casa, non il primo giorno ma solo verso la fine di questo secondo perché Rosi o la sorella Anna mi invitano a pranzo e a cena quasi con l’insistenza di mia mamma, vado a fare finalmente la spesa. Ho la cucina a disposizione, troverò il tempo per cucinare almeno un giorno.

Nella prima strada c’è la porta di legno dell’unico negozio rimasto nel centro antico, già per questo, anche se non dovete comprare niente, merita una visita.

Entro ed è una scena il cui primo ricordo sta… ecco, nella mia infanzia calabrese: la salumeria di paese che spero ci sia ancora in tutto il mondo. Una stanzona unica, il pavimento di una volta, gli scaffali lunghissimi sui lati, qualche scatolo di cartone con le cose, mille confezioni diverse, una persona che sta ad ascoltarti dietro il bancone in fondo. Si chiama Angelo.

Inizio a chiedergli la pasta, il caffè, mi ricordo di comprare il pane, la birra… ah, l’olio.

Ti posso dare l’olio di semi ma l’olio di oliva nunn ‘o tengo.

Cioè, fatemi capire, siamo in un paese assediato dagli alberi di olivo e ‘sta salumeria che tiene tutto, forse pure un pezzo di Vespa Piaggio, gli chiedo l’olio e: “Nunn ‘o tengo?”.

La ragione, mi spiega, è molto semplice: qui l’olio ognuno si fa il suo, spremendo le olive del suo campo, nisciuno ‘o compra ‘o negozio. Perfettamente logico.

Poi, a un certo punto, parlando: Il negozio se fosse per me lo avrei chiuso, lo tengo aperto soprattutto per mia mamma che mi ha preceduto in questo lavoro. Più una tradizione di famiglia che una fonte di guadagno. Ecco chi era la signora seduta che avevo intravisto la volta precedente che ero passato un secondo.

Ogni tanto mentre parliamo entra qualcuno a comprare qualche piccola cosa al volo. Alcuni pagano subito, altri poi fanno un unico conto. Io penso di aver preso tutto… i biscotti. Esco e mi sembra di aver visto un altro pezzetto, imprescindibile, del luogo.

Mo vado a casa a mettere tutto a posto. A presto con il seguito del racconto.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (1) – Dieci giorni in Cilento, a Felitto, fuori stagione, per vedere come si vive nei nostri paesi

Due anni fa, il 10 gennaio 2019, ero andato a stare dieci giorni in un piccolo paese del Cilento, circa milleduecento abitanti, all’interno. Ero curioso di vedere come ci si sta nei giorni normali, fuori stagione, nè d’estate nè a Natale quando arrivano i turisti e tornano quelli che vivono fuori.

Una volta tornato a casa avevo iniziato a scrivere il diario di quei giorni, poi, senza finirlo, avevo interrotto. Forse non era il momento giusto, forse le cose che avevo visto avevano bisogno di posarsi prima bene sul fondo per poi poter risalire con una specie di ordine, del tutto.

Adesso che dei paesi dell’Italia interna si riparla come di una possibilità nuova, ho pensato che quel racconto potrebbe esserre utile a qualcuno che sta tentennando, indeciso se spostarsi dalla città in un borgo simile a quello. Ho sentito che anche al paese, quella promessa che avevo fatto di raccontarlo, mantenerla era un dovere, bello.

Allora eccovi, se vi incuriosisce, quel diario.

Buon viaggio.

Giovedì 10 gennaio 2019, giorno uno

Quando venni a intervistare un mese fa Rosanna Di Stasi (qui trovate quell’articolo) rimasi colpito, non solo da lei, ma da tutto il paese.

Dopo i tanti visti dell’Italia interna, mi era parso che avesse in più qualcosa, non sapevo cosa. Ancora non lo so neppure stamattina. Forse esserci venuto e avere avuto una guida, esserci venuto non per guardare i muri ma per parlare con una persona precisa.

E a Rosanna l’avevo detto: ‘Sto paese vostro ha qualcosa che non ho incontrato prima, se riesco a gennaio vorrei tornare.

Eccomi in macchina.

Stavolta parto presto, evito la fila di auto dei lavoratori degli uffici, quelli che ancora vengono fatti spostare con tutto il corpo, e la mente magari si riservano di lasciarla a casa o di tenerla altrove. Ormai si potrebbe, nella maggioranza dei casi, lavorare semplicemente collegati tramite la rete. Spostare solo le informazioni, molte meno masse, e bruciare pochissimo petrolio. Io l’ho fatto per quasi due anni, dal 2010, da Napoli con l’ufficio in Olanda, anche discutendo via internet con gli operai che dovevano costruire davvero quello che avevo disegnato su un foglio di carta elettronico. Funzionava. (Questa parte iniziale del diario l’avevo scritta due anni fa, poco dopo essere tornato, l’ho lasciata identica perché mi sembra mostri come la pandemia serva anche a spingere il mondo a provare nuove strade, utili, senza perdere tempo).

Nelle foto del viaggio il colore dominante passa piano piano dal nero asfalto cittadino, attraverso il verde delle campagne, a qualcosa di misto tra l’azzurro cielo, il bianco della neve, il colore della pietra e l’incarnato delle persone.

Arrivo alle dieci in punto. Telefono a Rosi ma mi risponde Donato, il suo compagno, e mi spiega: Ciao Francè, si arrivato? Rosi s’è scordata il telefono a casa, ma la trovi nel Palazzo delle cento stanze.

La vado a cercare al palazzo fastoso in decadenza che lei ha voluto comprare con i risparmi di una vita in Germania per rimetterlo a posto e farne qualcosa di utile per i giovani felittesi, ma lo trovo chiuso. Vabbè, il viaggio è fatto di passaggi a vuoto che poi all’improvviso si riempiono di nuovo.

Appena Rosanna recupera il telefono si scusa cento volte e mi dà appuntamento in uno dei bar del paese. Anzi specifica proprio: Andiamo in un altro bar questa volta. Credo sia l’equilibrio, sottile, da tenere nei posti dove si vive a stretto contatto.

Eccola, arriva, come sempre, con un grande sorriso negli occhi e nella voce. Andiamo andiamo, ti offro un bel caffè.

Si sta caldi in questo bar grande. Stanotte da queste parti ha nevicato molto: in paese no, ma tutte le creste delle montagne intorno sono bianche.

Una montagna in fondo ha lo stesso profilo di un massiccio tirolese stampato nella mia memoria da molti anni.

Spiego a Rosanna la mia idea di fondo: vorrei vedere come si vive in un paese piccolo; provando in prima persona e ascoltando le storie della gente. Bene, allora cercherò di metterti in contatto con un po’ tutti. Ognuno avrà qualcosa che ti vuole dire.

State attenti a quando Rosi dice una cosa perché poi la fa sul serio: da quell’istante non m’è rimasto quasi più un attimo libero per capire cosa mi stava passando per la mente davvero.

Al Municipio

Usciamo dal bar e mi porta subito alla Pro loco a prendere un po’ di informazioni, compro anche una cartina dei sentieri della zona, sarebbe bello… non si può mai sapere.

Poi al Municipio; sta qui, affaccia sulla stessa piazza a pochi metri.

Ci entra non come faremmo noi a Napoli o in qualunque città grande, ma come se entrasse in una casa sua e di tanta altra gente.

Nell’androne e lungo tutte le scale non ci sono carte geografiche od onorificenze, ma molte foto di persone. Antiche, in bianco e nero, di famiglie intere.

Dentro il Municipio

L’appuntato dei Carabinieri sta nella prima sala al piano superiore, poi incontriamo Emilia.

Siamo venuti a cercare lei, perché col marito ha scritto diversi libri su questo paese. Ha molto da fare in questo momento, ma poi si ferma e inizia a raccontare degli archivi e degli studi sulla storia del luogo.

Nella stanza successiva c’è un armadio di ferro, di un colore blu, oppure verde, assomiglia a una vecchia automobile, ad un treno. In alto c’è scritto Anagrafe, in lettere saldate: ha fissato dalla nascita il suo scopo.

Un impiegato ci mostra i libri del 1800.

Sono di tre tipi, ci dice: Nascita, Matrimonio e Morte. Poi c’è un quarto tipo, sono gli Altri eventi.

Quasi non si ricorda più a che servono gli ultimi, li apriamo insieme. Ci sono registrate storie più complicate di quelle tre basilari. In alcune pagine raccontano di cose accadute sulle navi, in mezzo al mare; in altre di bambini portati ad altri perché gli facciano da padri e madri.

Scendiamo di nuovo e incontriamo subito, fuori, altre persone: la signora Franca, il professor Donato, poi scende Emilia. Iniziamo a discutere di Felitto e davanti al portone del Municipio nasce in pochi minuti un misto tra un’allegra brigata, un comizio e un gruppo di opinione.

Ogni volta che incontriamo qualcuno di nuovo Rosanna mi presenta: scrive per un giornale ed è venuto qui per vedere la vita nel paese, avrebbe interesse a parlare con ciascuno di voi.

E piano piano, ogni mano che stringo, mi sento un po’ più a casa, di fare un poco parte anch’io di questo posto.

Quando sono arrivato, ogni volta che ho incontrato qualcuno, gli si leggeva sulla faccia, o era solo una mia impressione: Chi sa chi è questo: è inverno, non è del paese, non è manco uno che era di qua e adesso vive fuori, si sarà perso. Poi camminando con Rosanna a fianco la loro espressione cambia molto.

S’è fatta ora di pranzo nel frattempo e Donato a casa ha cucinato la sua specialità: pasta e fagioli. Ci mette l’aglio schiacciato, il sedano, un pomodorino, ‘nu sacco re cose, chello ca trov… nu poco pure invento, poi ci cuoce la pasta dentro tutto insieme col coperchio. Si pranza in una tavola lunga anche con Anna, la sorella minore di Rosi, e Michele suo marito.

La casa di pietra nel centro storico

Nel pomeriggio poi abbiamo fatto altre mille piccole cose. La più importante è stata procurarci la legna e accendere il camino per riscaldare questa casa vuota in cui starò per dieci giorni. Lo ha acceso Rosanna che qui ha abitato, prima di sposarsi, a diciannove anni, ed emigrare in Germania.

Avevo chiesto di poter stare un po’ di tempo a Felitto, ma se possibile in una casa semplice, antica, dentro il centro storico. L’idea è vedere davvero, per quanto ci riesco, come si vive dentro i nostri paesi, senza lasciarsi troppo portare dalle parole che raccontano in giro.

A sinistra la porta di casa nel centro storico

Anzi adesso quell’idea ve la dico tutta.

Gli orientali sostengono che siamo costituiti di tre cose: corpo, mente ed energia oppure, loro dicono, voce. Ecco io direi, per semplificare: corpo, mente e passione. L’idea che ho da qualche tempo è che, come noi, pure i posti in cui abitiamo, che creiamo, le città e i nostri paesi, hanno gli stessi tre elementi di base. E allora, se i paesi dell’Italia interna, come ormai li chiamano, hanno problemi di spopolamento, forse uno o più di quei tre elementi sta soffrendo.

Se uno chiede in giro perché i paesi stanno scomparendo, la prima risposta, ci scommetto, è: Ccà nun ce sta lavoro, cioè di quei tre elementi sarebbe, secondo loro, il corpo quello che ha problemi.

Ma a me ‘st’idea non mi convince proprio, ho il sospetto che siano gli altri due i punti più deboli del gioco adesso. Che siano la mente cioè il progetto, e l’energia, la passione di stare nel paese, i punti deboli di questi posti in questo momento della nostra storia.

La mente perché non sviluppa abbastanza idee nuove, e questo soprattutto perché la passione, il cuore, dice, in fondo: quelli “buoni” stanno tutti fuori, nelle città grandi, chi rimane qui, nei paesi, è soltanto chi è rimasto sul fondo. In sostanza: il piccolo paese è (ma forse con questa pandemia le cose stanno rapidamente cambiando) fuori moda.

Ecco, mo che ve l’ho detto, continuiamo con la storia; poi vedremo, alla fine, se di questa domanda avremo trovato almeno un poco conto.

Dicevamo di questa piccola casa.

Quando ci sono entrato per la prima volta ho capito che era esattamente quello che intendevo. Rosanna a volte pare che fa un sacco di chiasso, dice mille parole, ma non le sfugge mai il senso di quelle che le dite voi. La casa è disabitata da tempo, e siamo a metà gennaio, per renderla accogliente bisogna farci, per ore, il fuoco.

Il camino con la bocca piccola

Abbiamo preso la legna da casa sua nuova dove vive adesso, vicino alle Gole del Calore. Però quella che abbiamo preso dopo, nella Casa delle cento stanze, è molto migliore: prende subito fuoco. Lei lo prevedeva, perché sta lì in cantina, al coperto, abbandonata insieme a quella enorme casa, da circa il 1970.

Rosi mette un po’ di legna grossa, poi in mezzo, sotto, ci mette quella fina, loro la chiamano scantamanu, perché se uno non sta attento si taglia un po’ le dita con questi sottili rami, eleganti, di filigrana di erica secchi. Per dare la prima scintilla usa l’accendino e un po’ di carta di giornale.

Il camino è talmente freddo che pure lei che questa operazione l’avrà fatta in vita sua già un milione di volte, il fuoco si è spento, deve ripeterla di nuovo.

Poi quando il fuoco ha preso aggiunge altra legna e, piano piano, tira un po’ fuori quella che si è già accesa bene.

È un curioso modo di fare il camino, almeno io non l’ho mai visto.

Però a pensarci ha ragione. La legna accesa, se rimane dentro, porta la maggior parte del calore, attraverso il comignolo, all’esterno. Se invece la mettete sulla bocca riscalda molto di più la stanza, mentre solo il fumo viene aspirato con forza dal tiraggio fuori. Credo sia un modo escogitato soprattutto quando da queste parti di soldi ce n’erano davvero pochi e ogni minimo spreco aveva molto valore; e torna utilissimo anche oggi che abbiamo capito che meno bruciamo energia, meglio sta il pianeta fuori.

La sera poi mi invitano pure a cena, stavolta a casa di Anna e Michele. In casa c’è una stanza vuota: il figlio studia a Modena perché, dice il padre, vuole diventare ingegnere alla Ferrari. Lo capisco e non dico nulla di più di quello che già sanno: io sono ingegnere pentito, ho già confessato ai magistrati.

I giorni sono dieci: il racconto, se vi piace, continua. Con calma, come nei paesi.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

MAPPE – Salita Prevetarielli, da Capodimonte a piazza Carlo III in 22 minuti

Ecco un’altra scorciatoia per pedoni nella parte orientale di Napoli.

Si chiama via Macedonia ma è meglio nota come salita Prevetarielli a causa del convento di frati Cappuccini che sta qui dalla prima metà del ‘500.

Vi porta da via Ponti Rossi (a dieci minuti, circa ottocento metri, da Porta Grande del Real Bosco di Capodimonte), cambiando nome in via Michele Guadagno e via Bernardo Tanucci, fino a piazza Carlo III in una ventina di minuti.

Qui la mappa interattiva

Trovate la descrizione completa e un po’ di foto del percorso qui nel nostro sito

NAPOLI DAL MARE – Viaggio nel tempo, a vela latina, ricordando Caracciolo

29 Giugno 2017

La linea di costa questa volta la vogliamo percorrere non nello spazio ma nel tempo, andando indietro; navigando come si faceva una volta, a vela latina, sulle barche di legno.

Abbiamo cercato chi andasse ancora per mare in questo modo tradizionale e abbiamo trovato l’associazione “Vela latina Monte di Procida”.

Le loro barche stanno ormeggiate nel porticciolo di Acquamorta, sotto la montagna, di fronte all’isola bassa.

Antonio Pugliese, presidente dell’associazione, ci ha invitato sulla sua barca, che si chiama San Giuda Taddeo, ha le strisce bianche e nere come la Vespucci perché così hanno voluto quelli del film “The happy prince”, il film su Oscar Wilde quando viveva a Napoli, a Posillipo, a villa Bracale sopra san Pietro ai due Frati.

Abbiamo appuntamento alle quindici alla testata del molo centrale, dove la barca è ormeggiata. Arriviamo un po’ in anticipo ma pure Antonio è già arrivato. So’ svizzeri sti montesi.

Da lontano vedo una barca con un’asta messa di traverso, in diagonale. Nella terminologia nautica precisa si chiama antenna e serve a reggere la vela maestra di questa barca. Ha un’eleganza quest’armo, che si chiama latino. É antichissimo, lo usavano già i greci. La prima testimonianza sicura sta in un bassorilievo del 150 d.C. trovato nel porto del Pireo.

Un albero non troppo alto regge un’asta obliqua, rivolta verso il basso in avanti, sulla quale sta la vela. É un armo semplice ma consente di stringere il vento (cioè procedere andando incontro al vento) quasi come una barca moderna, più delle vele quadre che usava Cristoforo Colombo sulle caravelle.

E’ una barca piccola, sottile, le strisce che mi aveva descritto Antonio per telefono come riferimento sono facilmente riconoscibili e la troviamo subito. Ciao, buongiorno, c’ iamm’ a piglià ‘o ccafè prima di uscire per mare?

Qua si conoscono tutti. O almeno Antonio e ssap’ a tutti quanti, quelli che gestiscono il bar ma pure quelli che al bar ci vengono come clienti. Sembra un circolo privato, ma senza doversi tesserare. Sulla spiaggia qui vicino c’è la gente a fare il bagno. La giornata è perfetta, fa caldo, e a quest’ora c’è pure il vento. Saglimm’ a buordo.

Come metto il piede in barca mi accorgo che è leggera: conta dove ti metti, se stai su un lato se ne accorge subito. E poi è un mondo fatto di legno: la barca, l’albero, i remi, il bompresso. Pure le cime sembrano di materiali antichi, niente fibre moderne ultraresistenti. Un solo cavo d’acciaio, ci dice Antonio, sta a prua a reggere il carico verticale che genera il fiocco (la vela che si issa davanti) sullo spigone, quel palo di legno, quando viene armato.

Ma pure ‘sto cavo ha una storia particolare: l’ha trovato in Cina un giorno che si trovava su una nave a fare il suo lavoro ufficiale. Lo chiamano in tutto il mondo, di porto in porto a controllare se le lamiere d’acciaio delle navi nascondono fratture, lui le cerca con gli ultrasuoni e vede se rispondono. Va di nave in nave, mi fa in tre minuti l’elenco delle tappe fatte durante l’ultimo viaggio e dentro ci sta mezzo globo; il mondo è uno solo per chi lavora sulle navi. “Una volta mi imbarcavo come equipaggio e nelle ore di riposo si giocava a carte o ci si raccontava. Oggi stanno ognuno per i fatti suoi nella propria cabina davanti a un computer. Mo non mi imbarco più per lunghe tratte, faccio solo i controlli”.

Ma usciamo, usciamo dal porto. Il motore questa barca non ce l’ha proprio, solo vela e remi, il silenzio è assicurato, il rumore dell’acqua e del vento pure.

Prima di uscire Antonio ha aperto un barattolo, ha preso un poco di grasso, ‘o ssivo, e lo ha spalmato sulla cima che regge la vela maestra e un po’ sulla legatura dei remi: “pure questo grasso non si trova, lo sai, bisogna farselo fare”. Serve a far funzionare meglio le cose e a non farle consumare prima del tempo.

Molliamo gli ormeggi e la barca da sola comincia a uscire dal porto. O conosce la strada o s’è messa d’accordo. Il vento ci spinge nella direzione perfetta. Senza fare niente siamo quasi troppo veloci, quasi tirati verso fuori dal primo molo.

Poi sciogliamo i matafioni, i lacci che tengono chiusa la vela principale (il fiocco per oggi non lo useremo, il vento c’è e vogliamo andare tranquilli, per parlare, senza stare solo a controllare le vele), per uscire dal porto, oltre il molo esterno, adesso occorre ancora bordeggiare.

Antonio le barche si diverte a disegnarle, come perito nautico, poi le fa costruire ad altri, maestri d’ascia; ci dice che qua ce ne sono ancora, sono una famiglia, si chiamano Scotti Belli.

Bordeggiamo nel porto verso l’uscita. Proprio all’ingresso, alla testa della scogliera, passiamo vicino vicino ai massi che stanno pure sott’acqua. Con questa barca si può fare perché è diversa da quelle moderne anche per il fatto che pesca pochissimo, cioè sotto non ha una pinna lunga verticale di ghisa come si usa adesso, ma una tavola di legno profonda solo sedici centimetri messa in orizzontale, per lunghezza, al centro. Quindi basta pochissima profondità di mare e si riesce a passare.

Ed eccoci fuori dal porto, dentro il canale di Procida. Il vento e la corrente vengono dal lato nord e scendono verso Napoli. Si naviga facilmente in direzione Procida con il vento di lato.

La sensazione è di leggerezza, non ci portiamo peso di metallo appresso. Leggerezza che però richiede di stare attenti perché questa barca si può pure ribaltare. Le barche moderne anche quando toccano con l’albero l’acqua sono ancora in sicurezza, si rialzano come quei pupazzi dei bambini con la base rotonda: gli dai uno schiaffo e quello si rialza, le barche moderne prendono schiaffi dal vento e appena cala si rimettono in piedi. Queste barche qui no, gli schiaffi qua se li prendi si sentono.

Però ci sono dei vantaggi: “Io a Procida vado tranquillamente ‘ncopp a spiaggia, sagl’ n’copp ‘a rena”: un rapporto diverso col mare e con la costa, più diretto, che richiede più abilità e mette in conto anche un po’ più di rischio.

Lungo il pontile del porto commerciale di Procida, Antonio mi fa notare la forma delle bitte di ormeggio: se guardate bene somigliano a cannoni piantati con la bocca in giù dentro il terreno. E sono proprio cannoni, qualcuno dice siano quelli della flotta inglese che aveva subito danni da parte di un marinaio napoletano nel 1799. Il marinaio era l’Ammiraglio Francesco Caracciolo, che combatteva Nelson con le navi coralline: la paranzella corallina cannoniera napoletana cita Antonio, e qua sa tutto. Pare che all’epoca i marinai di Caracciolo si fossero inventati una cosa nuova, visto che la flotta napoletana era andata letteralmente in fumo. La scusa ufficiale che avevano usato gli inglesi per far distruggere al re la sua stessa flotta era che non c’erano marinai, quasi tutti ammutinati, e pure quelli dei cantieri si erano “sciolti” dal loro impegno. Erano navi belle, tante, una flotta potente, ma non c’erano uomini per governarle e per fare la manutenzione. Allora per non lasciarle in mano ai francesi ed ai Cittadini della Repubblica del 1799 si decise di incendiarle; una flotta intera. Sembra che lo spettacolo di quelle fiamme da Mergellina sia stato grandioso, nella sua miseria.

Bene, allora per affrontare gli inglesi che, come ogni straniero, fingevano di fare gli interessi di Ferdinando IV, i cittadini della Repubblica napoletana si inventarono di usare tutte le barche che potevano trovare. Sulle barche piccole che si adoperavano per pescare il corallo, ci misero un cannone, a prua, in asse longitudinale (se lo mettevate di traverso potevate pure sparare un colpo buono ma di sicuro con il rinculo che vi ribaltava, vi autoaffondavate).

La cosa bella è che, secondo Vincenzo Cuoco, con questo tipo di flotta i napoletani, la flotta inglese a Procida l’avevano battuta, se non fosse stato per un cambiamento del vento a battaglia vinta, che li costrinse ad arretrare.

Nelson se la doveva essere legata al dito, insieme a molte altre che ne aveva fatte l’Ammiraglio Caracciolo e appena venne portato a bordo del Foudroyant, la nave dell’Ammiraglio inglese, dopo un processo lampo, la sera stessa, senza concedergli neppure le ventiquattr’ore che a tutti i condannati si lasciavano, venne giustiziato. Ma non come sarebbe spettato ad un nobile, qual era, per decapitazione, oppure a un soldato, come pure lui stesso chiese, per fucilazione, ma impiccato come un delinquente comune, come un pirata, all’albero di trinchetto della fregata Minerva. Venne lasciato lì sospeso dalle cinque del pomeriggio fino al calar del sole, poi fu gettato in mare, davanti casa, nelle acque del golfo.

Non avevano fatto bene i conti, oppure Caracciolo era troppo benvoluto da questo mare, e riemerse, una sera di alcuni giorni dopo. Qualcuno dice che riapparve proprio davanti al re che stava affacciato dalla poppa della nave di Nelson in festa per il ritorno dei reali da Palermo. Altri dicono che è solo leggenda. Di sicuro l’Ammiraglio riemerse ed ora sta sepolto a via S. Lucia, vicino alla casa materna, nella chiesa di Santa Maria della Catena.

Antonio appena è venuto fuori l’argomento di questo marinaio ha citato una frase: “É ben grazioso che dovendo io morire, tu debba piangere”, è quello che Caracciolo disse per rincuorare il marinaio napoletano Giosuè Caccioppoli in lacrime sul ponte della Minerva per la sua morte imminente.

Questo reportage come sapete è sulla linea di costa napoletana, bene, la linea più lunga cittadina lungo il nostro mare si chiama come quell’Ammiraglio però abbiamo scoperto che è una strada incompiuta: a piazza Vittoria c’avete presente la colonna spezzata? Be’ quello era stato pensato come monumento a questo marinaio assoluto, entrato in marina all’età di cinque anni. Colui che la regina Maria Carolina temeva perché come scrive in una lettera al Cardinale Ruffo “…conosce tutte le cale e buchi di Napoli e Sicilia, e potrebbe molto molestare, anzi mettere la sicurezza del re in pericolo…”. Ne costruirono il basamento, poi sono finiti i soldi, al posto della sua statua c’hanno messo la colonna, al posto del suo nome una targa a tutti i marinai caduti.

Se oggi 29 giugno andate alla festa al borgo marinari, l’hanno chiamata la festa del Borgo dei pirati, organizzata dal Real Yacht Club Canottieri Savoia dalla Marina Militare e dall’ AIVE in occasione delle regate con le barche d’epoca che cominciano oggi: passando per via S. Lucia davanti alla chiesa di S. Maria della Catena, quella gialla con la doppia scala, leggete il cartello che parla di quella tomba. L’Ammiraglio venne giustiziato, combinazione, proprio in questo giorno nell’anno 1799. Magari alla festa ci andrete col pensiero di uno dei marinai napoletani più gloriosi in testa, che i pirati di ogni nazione, per tutta la vita, aveva combattuto.

Ma torniamo a bordo della nostra barca dopo la divagazione che parlando con Antonio era venuta fuori. Perché la sensazione parlando con lui è che a Monte di Procida, dove c’è gente che vive sul mare, questo Ammiraglio sia molto conosciuto, sembra di casa, a sentirli parlare sembra di sentire lo stesso entusiasmo che usano ai Quartieri spagnoli a discorrere di un campione argentino del pallone.

Siamo arrivati vicino alla costa procidana, si vedono i bambini che giocano sulla spiaggia. Quelle casa colorate laggiù in basso, le vedi? Le chiamano le case dei molfettesi, era una colonia di persone che venivano da quel paese. I procidani abitavano in alto sopra Terra murata, per ripararsi dalle incursioni dei pirati, i molfettesi che non avevano abbastanza soldi furono costretti a rimanere in basso, vicino al mare e a sopportare le incursioni, i saccheggi e gli stupri. Se vedi vicino alle loro case trovi un sacco di grotte strette e lunghe: servivano per riporre gli alberi quando le barche venivano tirate a terra.

É ora di tornare indietro verso il porto di casa. Antonio ci consente pure di stare un poco al timone. É divertente ‘sta barca, anche al timone è leggera. La scotta della vela maestra si manovra a mano, almeno col vento di oggi non richiede grande impegno.

Antonio ci racconta che l’associazione organizza le regate dentro il lago di Miseno, le hanno chiamate “Trofeo Classis Misenensis” dal nome della flotta romana da guerra, quella che comandava Plinio, e che stava ormeggiata proprio qui quando questo era il porto principale della Roma degli imperatori.

La prossima manifestazione che organizzano, insieme ad altre associazioni e col patrocinio del Comune di Monte di Procida è il “Palio marinaro dell’Assunta”, il 13 agosto, in cui gli otto quartieri del Comune si sfideranno in una regata sui gozzi tipici ma questa volta a remi.

E il Comune sembra appoggiare davvero da queste parti le attività nautiche tradizionali: infatti concede alle barche tradizionali, senza motore, tariffe d’ormeggio agevolate. Tornando a terra, lungo il pontile vediamo tante barche di questo tipo. Si chiamano Tonino, Lucrezia, S. Giuseppe, le usano ancora per pescare e quasi tutte non hanno il motore.

Salutiamo Antonio che ci ha raccontato altre mille cose, ci ha fatto sentire che a Monte di Procida vivono ancora di mare, non tanto come pescatori ma da marinai. Lui dice che molti armatori montesi adesso hanno la sede in Svizzera, che sono grandi lavoratori, anche furbi. Bravi, ma anche un poco “pirati”.

Testo, foto e video di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

NAPOLI A PIEDI – Salita Prevetarielli, un altro “passaggio segreto”, da Capodimonte a piazza Carlo III in 22 minuti

Ufficialmente si chiama via Macedonia ma l’uso di quell’altro nome è così diffuso che lo hanno dovuto scrivere anche nella tabella di marmo ufficiale: detta salita Prevetarielli. Una città in cui il detto popolare ancora vale.

Prima di partire da casa come al solito guardo la cartina via internet, mi faccio un’idea generale, soprattutto per essere sicuro che sia ancora aperta, che si passi, poi vado.

Inizia su via Ponti Rossi, a dieci minuti, circa ottocento metri, da Porta Grande del Real Bosco di Capodimonte. Su via Ponti Rossi vedo un laboratorio di ceramiche. L’ho visto milioni di volte passando con la macchina, mo mi devo per forza fermare.

Ha ragione Erri De Luca quando dice che viaggio è tutto quello che si fa andando a piedi perché è bastata una sola volta che qui venissi senz’auto nè bici perché il signore che lavora qui dentro spendesse un sacco di tempo a spiegarmi il suo lavoro e lasciarmi fotografare. Sta modellando questa materia pastosa, carnale, in forma di foglie e di petali per una composizione. Ci sono i forni, poi gli oggetti dipinti e pronti. Ci voleva un altro viaggio intero solo per starlo ad ascoltare del tutto, oggi dobbiamo andare oltre.

Riprendo a camminare ed ho ancora la sottile incertezza di vedere se la cartina corrisponde a quello che si trova con i propri piedi.

Eccola, meno male che la scritta è esplicita. Secondo me lo hanno dovuto citare per forza quel secondo nome perché la gente gli avrà chiesto mille volte: Sì, via Macedonia, ma io sto cercanno ‘e Prevetarielli.

Sembra una stradina di campagna, in più ha solo l’asfalto, tra un muro di tufo antico con dentro gli archi chiusi e un altro rifatto, più chiaro, spigoloso, senza rughe ma dello stesso materiale. Sulla destra il verde coltivato, al di là delle reti, compare.

Poi un paio di curve. Non passa nessuno, neanche a piedi. E due case basse, due villette con i cancelli di ferro come quelli di una volta, con le punte. Dentro il piccolo giardino ci sono due statuette, un uomo e una donna, una specie di riproduzioni di sculture classiche. Sembra che si parlino.

Altre due curve nel silenzio. Piano piano l’asfalto lascia affiorare sempre più basoli.

Sei stupenda” a fianco ad un cancello di ferro arrugginito sopra un muro con l’intonaco grezzo.

Subito accanto a questo muro ecco lo sbarramento, la diga che fa tornare indietro nel tempo, che assicura un po’ di lentezza e di silenzio. Hanno distribuito una manciata di paletti; avranno discusso parecchio dove metterli: non riesco a riconoscere nessuna geometria nota, alcuni sono più sottili altri più grossi, per sicurezza ne hanno messi pure due curvi negli spigoli dei muri. Fanno alla rinfusa il lavoro di argine di mezzi veloci. Allora adesso deve venire la parte migliore.

Sarà larga due metri, tra un muro di cemento e l’altro giallo. Un gatto cammina sopra quello più alto. Sembra un posto abbandonato da secoli.

Poi all’improvviso vi ritrovate di nuovo nel mondo moderno, a essere gli unici pedoni che possono camminare praticamente sulla tangenziale.

Un’altra volta un posto in cui con l’auto c’ero stato milioni di volte. Adesso è come vederlo da un altro tempo, da un altro mondo, da fuori, anche se a un certo punto tra voi ed il guard rail c’è soltanto un campo verde con i fiori.

Ora si inizia a scendere e la strada diventa con dei bassissimi gradini enormi larghi. Chiamarla scalinata non mi viene, forse perché ogni gradino è così lungo che ci fate troppi passi, vi lascia troppa libertà per suggerirvi un ritmo.

Poi c’è una curva larga e si apre un tunnel.

Siamo sotto la tangenziale. Ognuno qui ha lasciato un suo pensiero scritto. ‘Sto punto mi mette un po’ di tensione stamattina. anche se è molto ampio, o forse proprio per questo, contiene troppo vuoto grigio deserto.

Continuo, scatto alcune foto camminando.

Ecco. I palazzi. Siamo fuori, uno spazio abitato, coi panni stesi, alti.

Un sacco di case che formano uno slargo.

C’è il tempo dei posti che non portano da nessuna parte. Dei laghi. La diga che lo crea l’abbiamo vista in alto.

Poi un pino altissimo.

E un ragazzino che sale in bicicletta. Lo fotografo mentre fa fatica in salita, in lontananza.

L’atmosfera man mano che scendo comincia a diventare molto interessante. Biblioteca laurenziana. Oltre il muro un campanile in alto. Qui c’è il convento dei frati cappuccini che danno il nome popolare a questo posto. Sono arrivati a Napoli nel 1529 accolti da Maria Lorenza Longo, e le davano un aiuto agli Incurabili. Due anni dopo iniziarono a costruire questo monastero.

Via Michele Guadagno stamattina sembra un luogo dove la guerra è finita da pochi anni; in alcuni angoli.

Sulla sinistra un palazzo con un cortile alberato che doveva essere elegante. Subito prima c’è un piccolo arco con sopra una bacheca di vetro e ferro, un tabernacolo diventato quasi una serra tanto ci sono cresciute le piante. Mi fermo. Fotografo.

Una signora mi vede, e mi chiede. Le dico che mi interessa non so bene perché questo posto. Allora mi apre la piccola chiesa del palazzo antico che adesso loro del posto utilizzano come deposito. Ognuno ha un po’ di cose sue conservate qui sotto i lenzuoli. Il pavimento, la volta a croce, gli stucchi attaccati dall’umido e l’altare. Ringrazio ed esco.

Villa Giordano si chiama ancora. Entro nel cortile interno. Il secondo dopoguerra sembra ieri. I viaggi nel tempo che consente Napoli.

Esploro il vicoletto che comincia dietro l’arco che vi avevo detto: si chiama Cupa Eterno Padre. Non lo so perché ma questo punto mi attrae. Poi Via Michele Guadagno Ingegnere, già Cupa Sant’Eframo Vecchio. Ecco, quest’ultimo santo a casa l’ho sentito nominare molte volte.

Continuo a scendere verso la piazza del re grande.

Quest’atmosfera di grande semplicità, piazza Gian Battista Vico con le giostre e il chiosco dei giornali.

M’è venuta fame e c’è una pizzeria proprio qui nella piazza al momento esatto.

La palazzina della ANM col deposito degli autobus.

Il muro laterale del Real Albergo dei Poveri. Poi si sbuca nella piazza. Salgo per la prima volta la grande scalinata del palazzo enorme. Scatto da qui sopra l’ultima foto di oggi.

Dopo alcuni mesi scopro che a fianco a quella villa con la chiesetta deposito sono nati tutti i miei zii paterni, anche mio padre, che questa strada in salita la faceva da ragazzo in bicicletta, a cui teneva molto.

Ah, per tenere ferma la tradizione dei cronometraggi: da via Ponti Rossi a piazza Carlo III per questo passaggio segreto, se siete pedoni, vi bastano 22 minuti.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)