PICCOLE VIE DEI CANTI – Dai pannelli fotovoltaici all’Hip hop, tutto concentrato in pochi metri dentro il centro storico

Mi compare sui social un suo post e mi ricordo: è parecchio tempo che Salvatore si era offerto di raccontarci il Canto del suo pezzo di Napoli, personale, verso il centro storico. Allora gli scrivo se stamattina (è uscito un po’ di sole dopo tanti giorni grigi) sarebbe disponibile per quel famoso giro.

Sì, guarda, chiedo un attimo conferma alla mia fidanzata e poi ti dico.

Benissimo.

Mi chiama dopo poco: Tutto a posto, il giro potremmo iniziarlo proprio da casa mia.

Perfetto, mi serve solo il tempo per arrivarci senza prendere metropolitane che in questi giorni contagiosi non mi vanno affatto. A piedi ci vorrebbe quasi un’ora… stavolta prendo la bici.

Salvatò allora mi faccio la doccia e scendo.

Ua’, ancora t’ea fa ‘a doccia?

Eh, vabbè ma mi ci vuole poco.

Va bene, allora nel frattempo faccio qualche servizio a casa, quando arrivi citofona.

Ottimo.

Dopo 45 minuti circa sono a piazzetta Arcangelo Scacchi, zona Quattro palazzi, vicino al citofono.

Qua fuori stanno azionando una di quelle pedane idrauliche per fare i lavori esterni agli edifici. Urlo nel microfono per superare il rumore che fa il motore di quel coso. Lui urla dall’altro lato per spiegarmi quale scala devo salire e a quale piano.

Mi apre il portone, e la bici non c’entra se non piegata in due: i portoni antichi di Napoli fatti per le carrozze enormi e per i lillipuziani in ginocchio, che entrino di lato, spingendo forte l’anta doppissima della porta di legno massiccio, durante le pestilenze con il gomito.

Entro in un androne calmo.

Non c’è più nessun rumore, anche i raggi di luce sono fermi.

Ascensore formato corridoio: la bici pieghevole entra solo in lungo, arrivati al piano non c’è spazio per ruotare st’aggeggio, devo uscire in retromarcia, strisciando le ruote che girano solo in un verso.

L’ultima rampa va fatta con la bici in braccio, poi arrivo su un terrazzo.

Bici in mano, terrazzo, cielo azzurro, castel Sant’Elmo che ride di me da lontano, due cupole vicine e l’eterno rettangolo stretto e lunghissimo del grattacielo alberghiero che per la prima volta nun sta annanz’ a niente di notabile nella foto del panorama.

Buongiorno, Salvato’, ma stai ancora co’ pigiama? Non ero io che nun m’er fatt’ ancora ‘a doccia?

Scusa ma so’ stato fino a mo a telefono con la mia fidanzata, stamattina so’ successi un po’ di problemi da mettere a posto.

Va bene, dai, non c’è fretta.

Faccio un caffè con la macchinetta napoletana, sta già pronta, però come sai ci vogliono venti minuti per farlo scendere e poi mi sbrigo.

“Venti minuti”. Scientifico proprio.

Allora tu nel frattempo sbrigati e la macchinetta la giro io.

Per i non esperti di macchinetta del caffè napoletana, anche detta cuccuma (quella che usa Eduardo de Filippo for’ ‘o balcone parlando col professore di rimpetto in Questi fantasmi), per ottenere il caffè da codesto meraviglioso aggeggio occorre, una volta che l’acqua all’interno sia arrivata all’ebollizione, capovolgerlo completamente per far sì che la suddetta acqua scenda per gravità attraverso la polvere di caffè, trasformandosi così nel liquido magico che si raccoglie nel contenitore di sotto.

Sì, nel frattempo ascoltati questo disco, è rap scientifico.

Rap scientifico? Non sono un esperto di musica ma questa non l’ho davvero mai sentita, voi mi confermate che esiste, è vero?

Ritmi sincopati intorno a particelle atomiche e composti chimici.

Ah, in tutto ‘sto bailamme mi so’ scordato di raccontarvi dell’impianto fotovoltaico; aspettate mo recupero.

Appena arrivato Salvatore mi fa vedere che sul tetto spiovente ci sono dei bei pannelli per la produzione di energia elettrica, sembrano nuovi. Lui mi dice invece che hanno più di dieci anni e sono probabilmente il primo impianto del genere al centro storico. La cosa era così nuova che la prima volta che chiese l’autorizzazione al Comune gliela bocciarono. Ci alimenta casa sua, quella dei suoi genitori qualche piano più sotto e dà anche energia alla rete elettrica nazionale che lo paga per il servizio svolto. Greta Thunberg qua sarebbe nella casa dei suoi sogni proprio.

Nel frattempo s’accende un’altra sigaretta.

Salvato’ dai, se ti vai a sbrigare, altrimenti mo overamente si fa tardi.

Mentre entra in bagno l’acqua del caffè bolle. Giro l’oggetto cuccuma.

Poi vado a zonzo sui terrazzi a scattare qualche foto delle cupole e del castello.

Una delle cupole è in perfetto stato, con le maioliche verdi e gialle. L’altra è scolorita. Sono le chiese di San Marcellino e Festo e San Severino e Sossio.

Aspetta, ma laggiù ce n’è un’altra altissima e si vede pure la facciata triangolare… è il Duomo!

Salvatore esce dal bagno, il disco continua a cantare ‘sto rap universitario.

Poi si inizia a preparare il kefir al volo. Strizza, filtra, versa, rimette tutto a posto per la prossima volta i fermenti che producono una specie di latte yogurt.

Nel frattempo mi racconta la saga dei parcheggiatori della zona. I residenti hanno il privilegio di fare l’abbonamento per tutto il mese. Poi però anna pava’ pur’ ‘e multe di quando la macchina gli viene spostata, per ottimizzare, in sosta vietata.

Un giorno, da ragazzo, stavo giocando a pallone con i figli, arrivano quelli di Forcella che ci vogliono picchiare e il padre scende, per difenderci, con la mazza. I racconti di chi in un quartiere c’è nato e c’ha sempre abitato, rint’ ‘o stesso palazzo. E l’eterno libro della jungla metropolitana.

Ci pigliamm’ o ccafè. Buono.

Dai che forse ci siamo, si esce di casa.

Sto per aprire la porta dell’ascensore.

Ah, mi so scordato una cosa importante.

Resto sul pianerottolo e fotografo la corda scorrevole, con la carrucola, dei panni. Anche qua ancora ce l’hanno. Piccole vie dei panni, di tutti quanti.

Scendiamo, usciamo dal portone nella luce di questa giornata di sole.

C’è una scalinata con una grande scritta che sale in diagonale sopra un ponte. Ma noi al ponte ci vogliamo passare sotto.

Questo ai tempi dello scudetto del Napoli era tutto azzurro, dentro e fuori, adesso, se ci fai caso, vedi, qua, da sotto, l’azzurro resiste ancora.

Tutta la parte inferiore del ponte è di un azzurro tenuissimo. Il margine, se guardate bene la foto, è ancora tricolore.

Un ricordo vago di questo ponte azzurro carico ce l’ho nella memoria. Adesso è diventato di un colore più vecchio e più elegante. Anche l’immagine del santo che sta qua sotto, lungo il marciapiede di fronte, ha il fondo dello stesso azzurro. Convergenze universali verso il titolo di Campioni d’Italia.

A piazzetta Grande Archivio la chiesa di Santa Maria Stella Maris. I muri tutti scrostati di un finto gotico del Novecento.

C’è un signore che cammina nella stessa direzione nostra. Ci inizia a dare suggerimenti su cosa vedere qui vicino, ci deve aver preso per turisti, evidentemente sembriamo abbastanza curiosi. Tiriamo fuori due o tre frasi in napoletano per convincerlo subliminalmente che siamo della zona.

Davanti al bar seguente Salvatore intravede degli amici da fuori, ci fermiamo. Il caffè grazie ma lo abbiamo preso che sono solo due minuti.

C’è parcheggiata fuori una bici a pedalata assistita. È proprio dell’amico di Salvatore. Lui è curioso di tutte le cose scientifico tecnico ecologiche, lo avete capito, e va a fare il suo primo giro su una bici che ha anche un motore.

Torna entusiasta: Me la devo comprare! Oppure me la affitti qualche volta che ne ho bisogno al volo?

Continuiamo il nostro giro.

In un angolo, sul marciapiede ci sono tre persone che parlano tra loro. Una sta più in alto degli altri. Eh, sarebbe una statua a grandezza naturale, ma appare come più umana in questo istante, con quell’atteggiamento di partecipazione, sapete, quando con le mani intrecciate, a Napoli esprimiamo la sorpresa e un poco di dolore per i fatti gravi che ci stanno raccontando? invocando in un’esclamazione: Uh… e poi due volte esatte il nome di Suo Figlio proprio?

Poi saliamo sul ponte.

E un’altra volta, subito, da un santino adesivo sul vetro di una Cinquecento ultimo modello in un colore trendissimo: “Madonna del Rosario di Pompei, proteggimi”.

Un faccione tutto giallo, mascherato di nero, dipinto, anzi incollato sul muro. Ha un’energia vivissima anche se l’orecchio della carta scollata tradisce più di qualche anno.

Sul muro dall’altro lato della strada, mille sovrapposizioni di scritte di tutti i colori. Facce, simboli, a volte una lettera soltanto. Mi attraggono.

Raccontano a loro modo qualcosa. Ogni centimetro quadrato dei muri del centro storico di Napoli dice una parola, il centimetro a fianco aggiunge la sua e viene fuori un racconto di molti, una specie di Odissea, il coro greco.

Su una saracinesca, dipinto: RiciKlan.

Sai: “riciclare” come atto ecologico ma anche “Klan” come quelli di camorra.

Sospetto che l’autore di questa sia proprio Salvatore perché me ne fa una descrizione precisissima.

Il Museo di Paleontologia col dinosauro, a Largo San Marcellino, oggi è sabato, è chiuso.

Poi un portone di ferro tutto colorato, vivace, con al centro Napoli in rosso.

Questo è di Gola, se guardi in basso a destra c’è scritto “Ti amo”, con un cuore. Era per la sua ragazza, poi mi ricordo che si sono lasciati.

Dal portone del Cortile delle Statue si vede, adesso fa parte dell’Università ma qui fino al ‘700 c’erano i Gesuiti, in fondo, Giambattista Vico un poco afflitto.

La pietra di piperno cilindrica all’angolo del palazzo è dipinta a metà tra un totem e un Picasso.

Poi giriamo verso il lato chiuso di via Giovanni Paladino.

Qua di notte è l’angolo per rapporti “frettolosi” e droghe non altrettanto leggere.

Salvatore, della vita diurna e notturna di questi metri di città dà la sensazione di sapere tutto. La chiesa è aperta.

Qui una volta al mese fanno una messa per una Madonna particolare.

Non è esattamente il suo genere, di questo non ricorda tutti i dettagli, mia nonna ci veniva spesso. Però possiamo entrare e chiedere a qualcuno.

È la chiesa del Gesù Vecchio. Appena varcate la porta vi esplode in faccia tutto il barocco del mondo.

Un signore ci dice che l’undici del mese si fa quella celebrazione che dite.

È la Madonna di don Placido. La statua che sta sopra l’altare maggiore la raffigura. Don Placido di cognome faceva Baccher, era il fratello prete di Gerardo, tra gli organizzatori della congiura dei Baccher, appunto, a favore dei Borbone, durante la rivoluzione del 1799. Questa Madonna gode di grande venerazione, ogni 11 del mese si celebra la Messa solenne.

In mezzo ai mille segni su un altro muro, quando gli chiedo: E questo chi lo avrà fatto? Mi trova in un istante la firma incollata dell’autore con tutti i riferimenti. Io non l’avrei trovata prima di mezz’ora.

Specialità greche. Poi “Bucopertuso”.

Lo sai? gli stessi proprietari hanno poco più avanti un altro locale: si chiama “La fesseria”. Non so se cogli l’assonanza stilistica.

Sto centro storico stamattina pare grondare ormoni da ogni commessura della pietra.

Questo lo hanno fatto come dedica per un ragazzo che è morto qualche anno fa, faceva parte del collettivo della Mensa occupata.

Questo è di uno che oltre che il writer fa anche il DJ. Lo sai l’Hip hop ha quattro specialità: la breakdance, il writing, il Djing ed il rap. Lui ne ha fatto parte.

Poi una specie di animali primitivi semi-umani e metà dinosauri, con gli occhi grandi tragicomici e alcune croci. Sono Cyop e Kaf. Ne avevo visto una processione lunga lunga sul muretto al corso Vittorio Emanuele e mi aveva fatto pensare all’intuizione collettiva del morbo che stava arrivando. Qualcuno sostiene, e io in qualche modo lo capisco, che in fondo è proprio così che lo abbiamo creato, invocandolo. Il mondo diventa come lo immaginiamo, nel profondo: “lo sogniamo” forse è più esatto.

Il locale notturno scuro scuro pure a mezzogiorno ha per vicino un tabernacolo col crocifisso.

Il muro scrostato sopra una porta mostra i mattoni di argilla messi in verticale anzi un poco storti. Ogni cosa in questo punto del mondo segue regole locali, puntiformi, la prima idea che viene è che le usano solo in questo posto.

All’angolo di via Donnaromita c’è una sagoma bellissima di donna. Sembra accennata soltanto e invece poi ci trovi tutte le sfumature del volto. Sembra quasi un fantasma, ha il foulard in testa, dignitosa pensa camminando guardando per terra. Una via di mezzo tra le cose che disegna Banksy e quelle di Ernest Pignon-Ernest.

Dopo diavoli rossi, facce quasi horror, un paio di scheletri, Questo è la firma, guarda, non ti perdere il cappello nella foto, sbuchiamo a piazzetta Nilo.

In tutto non abbiamo fatto che qualche centinaio di metri.

Ah, guarda, ci sono alcuni amici. Mo te li presento.

Ci avviciniamo e ci sono una donna e due signori senegalesi.

Poi Salvatore si ricorda che deve telefonare alla fidanzata. Ti lascio un attimo a parlare con loro, voi raccontategli il vostro centro storico.

Ci sediamo al tavolino del bar. ‘Sta Via dei canti si sta intersecando con il nostro Giro del Mondo. Gli racconto di quello che stiamo facendo stamattina e anche dell’altra idea. Gli chiedo se hanno posti senegalesi da suggerirmi a questo punto.

Verso Piazza Garibaldi e a Forcella trovi la maggiore concentrazione di senegalesi, anche se sono distribuiti dappertutto. Anche i negozi tipici sono in quelle zone. Poi ci sono le moschee ma non sono gestite da senegalesi, in una l’imam è proprio napoletano.

Salvatore lo conoscono bene, almeno uno dei due.

La sera lui sa sempre cosa c’è di bello dove e quando.

Poi arriva un signore a chiedere i soldi per un caffè. Alì allora glielo fa portare sulla panchina qui a fianco.

Stiamo già a chiacchierare da un bel po’ e Salvatore sta sempre nell’angolo a parlare a telefono, fitto fitto.

Dopo mezz’ora saluto i miei due ospiti e gli vado incontro. Lui si scusa ma la telefonata è importante. S’è rotta la macchina della mia fidanzata e forse ha bisogno di aiuto. Allora lo saluto. È un itinerario perfetto in fondo, da una telefonata coniugale a un’altra il cerchio si è chiuso.

Mi ricordo, solo dopo alcuni minuti mentre camminavo in mezzo alla gente, che stamattina qui c’ero venuto pedalando.

Vado a prendere la bici nel posto di partenza. Il cerchio adesso, anche nella testa mia, si è davvero chiuso.

Passeggiata lungo un tracciato proposto da Salvatore Allinoro. Da piazza Arcangelo Scacchi, lungo via del Grande Archivio, via Lucrezia D’Alagno, via Ferri Vecchi, via Arte della Lana, via Bartolomeo Capasso, vico San Marcellino, via Giovanni Paladino, vico Donnaromita, fino a piazzetta Nilo.

Se avete anche voi una linea da camminare preferita a Napoli o dintorni e volete condividerla, scriveteci. Qui trovate i nostri contatti.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

ALBERI NELLA CITTÀ – Un angolo calmo nei giardini della Rotonda Diaz

Un altro albero molto particolare, almeno nel mio ricordo, si trova a via Caracciolo, all’altezza della Rotonda Diaz.

Me lo fece notare un’amica, ormai sono diversi anni. Ci girammo un po’ intorno, poi mi invitò a sedermici sotto.

Salii il gradino della base che formano le radici tutto intorno al tronco, cercando di dare il fastidio minimo. L’aria fresca, immobile, calmano il respiro e il tempo.

È anche questo un Ficus magnolioides, come quello che sta davanti all’ingresso della Biblioteca Nazionale e che andammo a trovare la volta scorsa.

(Dicono che il Buddha si sia illuminato stando seduto, una notte di tempesta, sotto un albero molto simile, dello stesso genere, che chiamiamo Ficus religiosa).

Da allora sono tornato ogni tanto a trovarlo. L’ultima volta da qualche giorno.

È stato un po’ potato nei suoi rami sottili e nelle radici aeree che fa scendere dall’alto per scaricare il peso accumulato crescendo. Rami tagliati stanno ancora a terra, da settimane, non raccolti.

Uno spago lo stringe.

Un tappo di plastica e una bottiglia di birra si rifugiano sulle sue radici, ne prendono la calma dopo la baldoria di qualche sera un po’ confusa.

Qualche lacrima di resina forse la piange, mentre ci osserva con il suo occhio paziente di elefante. Gli fa compagnia, lì vicino, il treno colorato dei bambini con i colori squillanti.

© 2021 Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (4) – Mezzo paese al trucco di scena, poi le danze tradizionali, finte e vere non fa differenza

Eccoci al quarto giorno di questo piccolo diario dal Cilento, non sul mare ma dalle aree interne, da Felitto. Se volete sapere le cose dal primo giorno qui trovate l’inizio.

Domenica 13 gennaio 2019, giorno quattro

I muri della casa, man mano che passano i giorni, si stanno riscaldando, però anche stamattina mi alzo in un clima piuttosto freddo. Alle 8:20 esco dal letto, ore 8:22, ormai lo sapete: accendere fuoco prima di tutto.

Mi accorgo che il pezzo di legno più grosso rimasto da ieri sera nel camino, se ci soffio, in un punto ridiventa rosso. Faccio una fossetta nella cenere vicino, spezzo dei rami di erica secca, ‘u scantamanu, li avvicino a quel punto e soffio di nuovo. Prende fuoco!

Subito un altro po’ di legna piccola, anche di più doppia, la più secca che trovo, e dopo neanche due minuti ho la fiamma viva! Forse sto capendo piano piano come pensa il fuoco.

Mo posso mettere sul gas la macchinetta del caffè. Mi dispiace quasi che accendere questo non richieda altrettanta cura, un po’ di soffio.

Collego il computer a internet, via etere, tramite una scatoletta che mi sono portato. Il segnale non è forte ma funziona abbastanza, lento. Un’occasione per selezionare bene le cose da ascoltare e da dire, la piccola difficoltà come filtro per non affollare i nostri pensieri e quelli degli altri.

Apro uno dei quattro vetri in cui è divisa la porta di casa che dà subito, a piano terra, sulla strada, per guardare fuori e far respirare anche il fuoco.

Alle nove e trentanove sono fuori.

Perdo due minuti a fotografare un altro po’ di gatti dipinti sulle porte. Alle nove e quarantadue sono al Palazzo Migliacci. Chi sta teorizzando le 15 minutes towns, le città in cui tutto è a breve distanza, potrebbe prendere ispirazione in posti come questo. Forse anche per togliere luoghi presso cui recarsi, inessenziali, perdite non di minuti ma di ore.

Al Palazzo stamattina si continuano le riprese del film sulle lotte di liberazione.

Varco il portone e la scena è nuova: c’è mezzo paese in vestiti ottocenteschi, seduto, al trucco.

A tutti fanno un colorito più scuro, da gente che vive molto fuori, all’aria, al sole. A un signore, con la matita nera, stanno mettendo in faccia la barba di qualche giorno. Ci sono le donne con gli scialli, maglie, contro maglie e gonne ampie che nascondono tutto. Gli uomini coi cappelli e i mantelli scuri.

Poi compare un personaggio ancora oltre. Un uomo sulla settantina con la barba, i calzari fatti di cuoio lana e stringhe, sulla spalla lo schioppo, che non sai se è vestito in costume o esce di casa così tutti i giorni. Poi capisco che è uno che viene da fuori e che recitando da brigante passa molto del suo tempo, non solo qui oggi a Felitto.

La prima scena è con Michele e Giulio -quello che a tutte le feste che organizza con la Pro loco lo trovate ad arrostire salsicce dietro il fuoco- che appendono per strada una lampada a petrolio. Bofonchiando qualche protesta, non mi ricordo se contro il governo rivoluzionario o i Borbone, gli passano davanti Donato e Rosi.

Poi alla combriccola di oggi si aggiunge un secondo uomo armato con la barba, e i due formano una coppia formidabile. Ogni minuto che passa, guardandoli, ti scordi di più di vivere due secoli dopo.

Nell’androne del Palazzo la scena è che Marilena va ad aprire e i due si abbracciano e si comunicano notizie terribili e urgenti, per salvare il mondo.

Verso mezzogiorno torno a casa. Finalmente, per la prima volta da quando sono qui, metto a fare il sugo. Sotto l’acqua per la pasta accendo tra poco.

Le riprese alle gole del Calore

Dopo pranzo in macchina verso le gole del Calore.

Forse ne avete sentito parlare, è un posto abbastanza noto, sta in fondo a una discesa all’inizio del paese. Il fiume si è scavato tra le montagne un percorso dove c’entrano giusto giusto lui e un sentiero che gli cammina a fianco, in questi giorni poi ci andiamo, in silenzio, a vedere.

Arrivo nel prato largo che c’è vicino alla vecchia chiusa della centrale idroelettrica in disuso e trovo una specie di accampamento di brigantesse e briganti. Il regista sta spiegando ad un cerchio di donne come si dovrà svolgere la scena di danza. Ci sono anche i suonatori di tammorra, organetto e chitarra coi vestiti di quel tempo.

Donato nel frattempo sta accovacciato per terra, gioca ad accendere il fuoco. Segue l’istinto, Socrate avrebbe detto che sa ascoltare benissimo il suo demone. Con i capelli lunghi armeggia con la legna: a tratti pioviggina e fa freddo, bisogna riscaldare il mondo. Ne viene fuori una perfetta colonna di vapore di fumo. Si rialza soddisfatto dopo avere penato parecchio per accenderlo, con tutta st’umidità che c’è oggi qui intorno; si aggiusta i pantaloni con i polsi, come i bambini che si rimettono in piedi con le mani sporche dopo che hanno finito un gioco.

I fucili di scena messi a capannello. Una signora molto anziana, con le scarpe imbottite, lo scialle e l’ombrello, è ancora curiosa di cose nuove ed è venuta apposta per vedere cosa fanno. Qualcuno inizia a distribuire a tutti del tè caldo.

Poi arrivano due felittesi vestiti da preti. Uno è lo stesso che appendeva la lampada nella scena di stamattina con Michele, il cuoco eterno delle salsicce delle sagre. Inizia a benedire tutti con fare pacioso, sembra il fratone della banda di Robin Hood, e siamo pure in mezzo al bosco.

Si inizia a girare.

Tutte donne e due briganti danzano quasi in cerchio.

Dopo poco la musica prende tutto il posto. La scena si inizia a sfumare col reale o forse sarà il fumo del fuoco.

Donato deve aver colto la variazione: lo vedo, di scatto, muoversi verso il centro della danza: Aggia balla’. Il demone ha parlato a voce alta. Lo fermano dopo qualche secondo ma nelle riprese invece spero che sia venuto.

Il signore a cui stamattina stavano disegnano la barba con la matita, adesso sta con lo schioppo a fare la guardia, concentratissimo.

Poi tra le donne iniziano un gioco: vediamo chi si ricorda ancora l’uso di portare sulla testa il cesto. In due o tre ci riescono, qualcuna anche camminando più di qualche metro. E volete sapere una cosa? Anche quella signora ultranovantenne, che è venuta solo per vedere, prova per un poco quel gioco che da giovane ha sicuramente fatto moltissime volte seriamente.

Le riprese qui sono finite, rompete le righe.

Rosi tira fuori pagnotte e caciocavalli, poggiata sugli spalti di legno, inizia a tagliarne per tutti. Qualcun altro nel frattempo versa il vino rosso. Dopo un po’ inizia a piovigginare ma siamo ormai abbastanza allegri da non curarcene troppo.

Il ballo spontaneo delle donne nell’androne del Museo

Però adesso bisogna andare. C’è da girare altre scene in paese, nel museo della civiltà contadina di cui vi ho raccontato ieri. Si raccoglie insieme tutto e si mette nelle macchine. Appuntamento al centro storico.

Arrivo, parcheggio e inizio a camminare.

Dentro un vicolo del centro incontro di nuovo la signora anziana curiosa, vabbè mo ve lo dico, si chiama zi’ Stefanina, anche se l’ho saputo solo il giorno dopo, inizia a salire la scala ripida e un giovane le chiede se vuole un piccolo aiuto: Grazie ma aggia sagli’ io sula, ‘a si no addevento veziusa.

Che vi devo dire? Forse non si arriva a questa età così svegli e curiosi se non si è capito che ogni giorno bisogna sforzarsi almeno un poco.

Arriviamo nel museo, ve ne avevo già parlato: solo il palazzo vale già la visita, non è rifatto, è rimasto fermo.

Dentro c’è il parroco di Felitto, stavolta nelle riprese ci sarà un prete vero.

Mentre aspettiamo che arrivino tutti, ai Valcalore viene in mente di iniziare a suonare. Tempo tre secondi e le signore iniziano a ballare.

Arriva Rosi, mette piede nell’androne e in coppia con un’altra signora inizia a ballare ancora con le buste in mano.

C’è qualcosa che risuona dentro, adesso, in questo posto, in questo palazzo antico, in tutti, in questo momento. Meno male che è buio e che posso riprendere una panoramica del palazzo girandomi dall’altra parte altrimenti lo vedrebbero che sto diventando serio, troppo.

Forse si potrebbe ripartire, dove le parole non arrivano, dalla musica, nei paesi, per riaccendere il fuoco.

Dopo parecchio tempo saliamo le scale fino al primo piano.

Zia Stefanina si ferma nel corridoio a guardare le foto appese al muro. Quelle persone se le ricorda in vita, o alcuni parenti loro: Questa era la mamma di… e lo racconta a Marilena, una ragazza giovane che abita qui nel centro storico.

Poi va nella stanza dove sono gli strumenti per filare. Li prende e in quel momento smettono di essere oggetti di un altro tempo. Lei li usa ancora quasi ogni giorno.

Le riprese durano ancora, nelle strade del paese, fino a buio.

Il professore Donato dall’uscio di una di queste case di pietra se la prende coi filo borbonici e gli ricorda: Mo cummannamme nuje.

È stata una giornata lunga. finalmente torno a casa un attimo.

Poi esco di nuovo, mamma mia nei paesi dell’Italia interna non ci sta mai riposo. E si finisce come ieri, tutti da Peppe a cena.

Mo ditemi se c’è davvero bisogno delle sagre agostane per visitare un paese e stare insieme.

(Fine quarta parte, continua)

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

ALBERI NELLA CITTÀ – Il Ficus magnolioides nel giardino di Palazzo Reale

È da tanto tempo che penso di andare a cercare, fermarmi un po’ a guardarli, fotografarli, gli alberi “notevoli” che abitano con noi in città. Qualche mattina fa, per qualche congiunzione astrale che non conosco, davvero parto e il primo albero che mi viene in mente di andare a trovare è il grande Ficus che sta davanti all’ingresso della Biblioteca Nazionale, a piazza del Plebiscito, nel giardino di Palazzo Reale.

Vado.

Lo trovo in buona forma mi pare. Fotografarlo è difficile, non entra quasi in nessun modo dentro il formato della macchina.

Il lato della chioma verso il balcone della biblioteca, che qualche volta mi ricordo di aver visto da lassù, lo hanno sagomato in modo che non vada lì a toccare.

Questo albero sta qui dal 1843, da quando hanno sistemato il giardino in questo modo dopo vari rimaneggiamenti del palazzo. È un Ficus Magnolioides. È originario del Queensland, in Australia.

Lo chiamano columnarius perché dai rami ogni tanto stende verso terra una sorta di liana che poi arrivata al suolo si ingrossa fino a diventare un nuovo tronco, una colonna, forse per sostenere il peso dell’espansione orizzontale della chioma. Se lo si lasciassse libero del tutto, forse in questo modo costituirebbe una foresta intera allargandosi, da solo.

Non lontano da lui c’è un secondo esemplare. Le radici hanno forme di anaconda, corrono lungo diversi metri del muretto e lo spingono talmente da inclinarlo.

Eccovi le foto.

© 2021 Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

DIARIO MINIMO DALL’ITALIA INTERNA (3) – Un signore quasi centenario, la panetteria, l’olio campione d’Italia e un film sui “briganti”

Continua il racconto con il terzo giorno del diario dal Cilento interno. Il giorno precedente, se ve lo eravate perso, eccolo.

Sabato 12 gennaio 2019, giorno tre

Stamattina alle dieci ho appuntamento con Rosi e Donato al Bar Impero (il terzo, con il Bar Sport e l’Italia, e credo ultimo, bar di Felitto); mi accompagnano a trovare alcuni anziani del paese.

Alle nove e cinquantasei, a piedi, esco di casa, il vantaggio del piccolo centro.

Nel marmo incastonato in una facciata, al primo piano, trovo scritto:

Ricordo di famiglia del soldato Sabetta Gerardo del 83° Fan. F. C. Morto eroicamente a Malgacucco Valsugana, il dì 1 aprile 1916. Il Tenente Colonnello lo chiamò: Prode militare. Felitto 17/3/1922

È la prima foto che scatto stamattina camminando nelle strade del centro.

C’è il sole anche oggi, dentro un cielo azzurro.

Poi vedo un sacco di panni stesi, in alto, su uno di quei fili che attraversano la strada da una casa a quella della signora di fronte. Allora ci abita più di qualcuno in queste case, allora non dice tutto ‘sto silenzio.

Sopra un arco basso che scavalca una scalinata in discesa, leggo: Vicolo Centrale. Non capisco perché chiamano Centrale un percorso che sembra minore, lo capirò tra qualche giorno, quando il prof. Donato Di Stasi mi porterà a fare un giro per tutto il paese raccontandocene la storia.

Incrocio Angelo, il salumiere conosciuto ieri che sta andando al negozio.

Poi in piazza Matteo De Augustinis, avvocato e giureconsulto, c’è il castello. Ci passo tutte le volte che entro o esco, ma è chiuso, anzi ci abitano, dovrei dire aperto.

Ecco Rosi; e Donato coi suoi cappotto e cappello neri, sarà parente d’o giureconsulto.

Buongiorno! I saluti sempre entusiasti di Rosi. Andiamo a prenderci il caffè.

Qui pagare al bar è difficilissimo, chi sa se stavolta ci riesco, si tratta di avere i riflessi più veloci di generazioni di anime di paesi; secondo me con chi sta alla cassa, come giocando a carte, per mettersi d’accordo si fanno pure dei segni convenzionali.

Un signore legge il giornale seduto al tavolino, dentro. Il televisore sta acceso a stendere sul mondo un velo di rumore di fondo. In silenzio la stufa elettrica fa il suo utilissimo lavoro.

Ci avviamo verso la nostra meta di stamattina e ci raggiunge il professore Donato.

La signora Graziella

Adesso è una casa del centro storico. Molti anni fa questo posto vicino alla chiesa nuova era fuori dal paese. Ci abitano due signori anziani: Graziella e zi’ Luciano Lascaleia.

Sto cercando soprattutto lui perché dicono che essendo della classe 1921 si ricorda tutto. Poco prima che arriviamo, la notizia che stamattina non è in casa rimbalza tra le persone e arriva a Rosi. Starà in giro, facendo una delle sue quotidiane passeggiate qui intorno. Però andiamo lo stesso a trovare la moglie.

La signora Graziella, siamo Rosi, il professor Donato e io, ci apre la sua porta di casa.

In cucina ha lo stesso camino mio felittese. Però lei ci fa un fuoco perfetto, come dovrei fare anch’io ma ancora nun teng’ ‘o curaggio. Perché la fiamma non sta dentro ma fuori, davanti, su una porzione di pavimento fatta con le mattonelle adatte.

Nun tenimo ‘u riscaldamento, stamo vicino ‘u ffuoco. Sorridendo.

Ci chiede se vogliamo il caffè ma lo abbiamo appena preso. Poi ci chiede se allora vulimu nu poco re limoncello e l’ospitalità va accettata sempre.

Scatto una foto a loro tre vicini.

Poi il professor Donato, con la sciarpa che gli scende davanti sui due lati, il cappello aderente, il limoncello sul tavolo al posto del vino e il giornale in mano, per un attimo lo scambio per un prete col breviario. Da ex professore di liceo, anche ex sindaco, la missione sociale che ha dentro per un attimo si vede.

La signora Graziella ha questa casa grande, con un balcone porticato che affaccia su un giardino, i fichi d’india, gli altri tetti di tegole, i comignoli col fumo e le montagne di sfondo.

Passando nelle stanze vedo il telefono fisso grigio che abbiamo usato per secoli, in una vita precedente, lei lo usa ancora, per favore telefonate adesso così vedo se suona davvero. Un comò con tutte le cose e, sopra un tavolo con la tovaglia di bucato, i fusilli fatti a mano da lei che si stanno asciugando.

Lei non vuole rispondere a domande perché un poco si confonde: Chiedete a Luciano, mio marito, lui si ricorda buono. Ci accompagna fino alla porta di casa, poi fino al portone esterno. Ci saluta sorridendo davvero, con il grembiule da cucina, lo scialle di lana e le pantofole rosse.

Zi’ Luciano

Finalmente ho appuntamento, nella piazza principale, con zì’ Luciano, il signor Luciano Lascaleia, uno dei più anziani del paese.

Quando arrivo, lui è già sul posto. Sono un paio di giorni che lo “inseguo” ma lui va in giro in libertà assoluta, ha l’età giusta per permettersi ‘sto lusso.

Buongiorno, siete voi il signor Luciano?

Sì, buongiorno, sono io.

Ah, eccovi, finalmente vi incontro. Allora, vi volevo chiedere un po’ della vostra vita e del paese.

Lui comincia pronto, lo sa che la longevità delle persone del Cilento ormai è un argomento che interessa al mondo.

Seguivo la trasmissione di Mirabella, su Rai tre, ve la ricurdate? E seguo quella duttrina che diciano pe’ televisione: la mattina faccio colazione con un poco di peperoni, verdure cotte, un pezzettino di caciocavallo, niente latte, e ‘nu bicchiere de vino.

Poi mi faccio una passeggiata.

Poi pranzo, e di nuovo esco perché ci vuole un poco di moto per un’oretta per digerire bene. La sera mangio soltanto ‘na frutta, non ceno.

Ogni giorno leggo lu giurnale, per tenere la mente allenata, così mi hanno cunsigliato. Prima leggevo “l’Unità”, ma a un certo punto al paese non arrivava più e mo leggo “La Stampa”.

Classe 1921, novantasette anni.

Sono nato il 13 dicembre, la notte di S. Lucia, perciò mi chiamo Luciano: mia mamma disse: “S’a purtato ‘u nome e ‘nciama ra’ “.

È un’usanza che poi ho capito che qui hanno, festeggiano compleanno e onomastico lo stesso giorno.

Poi mi accenna alla guerra.

So’ stato furtunato, ricu io, picchì di quattro battaglioni che eravamo, duemila uomini, tre sono andati in Russia. Il mio battaglione ci mandarono a Torino e poi in Calabria. Poi sono arrivati gli americani e quindi nun simu cchiù partuti e ni simu salvati. Degli altri, degli amici miei, sulu due o tre per battaglione su’ turnati.

Poi ho fatto il boscaiolo, dopo la guerra si faceva il carbone.

Vedete queste montagne? Le abbiamo tagliate tutte noi.

Man mano col ricordo va avanti nel tempo.

Nella mia vita mi su’ sacrificatu di tutti i culuri.

Alla fine questi fetienti italiani che ci amministrano i nostri denari… so’ na branca de mariuoli, scusate ca parlo accussì, ma te vene ‘a nervatura. Sono stato venticinque anni in Germania, e prendo dei soldi di pensione da lì…

E poi mi racconta delle mille peripezie invece, scoraggianti, con la previdenza italiana.

Quello che vi volevo dire: in Italia dove si tocca tocca ti fregano.

La percezione dello Stato come predatore. In Italia, forse soprattutto al Sud, è questa, troppo spesso, la visione.

Poi verso la fine: Mettetelo ‘stu racconto sopra lu giornale.

Poi la sua idea del mondo dei giornali.

Quando stavo in Germania leggevo “Cronaca Vera”, ma secondo me nunn’ era ‘na vera cronaca, era ‘na specie de romanzo. Ma ‘nu giurnalista che po’ mettere ncoppa lu giurnale, adda inventà pure iru qualche cosa.

Io inizio a dire che provo a non inventare niente, solo a scriverlo al meglio che posso, e lui nel frattempo ride.

Saluto zi’ Luciano. La sua voce diretta, mossa da dentro, una specie di scossa tellurica che trema molto poco per uno che ha visto così tante cose e così grandi, ancora me la ricordo oggi dopo due anni e chi sa ancora per quanto.

Il fornaio

Inizio a camminare. Mi girano nella testa ancora tutte le cose che mi ha detto la persona più anziana con cui ho mai parlato. I passi servono per lasciarle posare.

Poi mi viene in mente che passando da queste parti, lungo la strada nuova, la Strada regionale 488, che in paese prende il nome di via Insorti Ungheresi e, immancabilmente, di via Roma, nella parte più centrale, avevo visto una panetteria. Vado a cercarla, il pane non è un oggetto comune, lo sentiamo che ha del sacro, mi attrae.

Passo davanti alla ferramenta, c’è Giuseppe, il nipote di Rosi, ed entro un secondo: è piena stracolma del grasso nero e dell’arancione di motoseghe e decespugliatori in manutenzione.

La panetteria non ha insegna. Fuori l’unico cartello è “Cedesi attività”.

Entro e si sta benissimo: caldo e profumo buono.

C’è il banco di legno a mezzo metro dalla porta e una signora sorridente dietro.

Guardo in giro, il pane già ce l’ho, l’ho comprato ieri da Angelo, però i dolci mi mancano. Fanno dei biscotti buonissimi alle mandorle. Nel frattempo ci mettiamo a chiacchierare del paese.

Poi arriva il marito e chiedo anche a lui perché c’è scritto Vendesi.

Siamo stanchi. Sono mesi che cerchiamo un collaboratore che porti col furgone il pane ai negozi. Lavoriamo dalle 12 alle 6 della mattina dopo, e poi tocca fare le consegne fuori.

Dice che giovani che vogliono fare ‘sto mestiere, qui non se ne trovano.

Nel frattempo entra un signore col cappello di lana e il giubbotto mimetico pesante. A un certo punto, quando capisce che mi interessano i luoghi, mi consiglia di andare assolutamente sopra una montagna lì vicino, si vede dalla porta, venite a vedere da qui fuori. La conosce bene, come tutte le montagne che ci guardano qui intorno.

Compro i biscotti. Esco sperando che la panetteria non la vendano davvero.*

Dopo un po’ arriva Michele in macchina e mi porta a vedere un’altra cosa, antica e nuova.

Il frantoio e un olio d’oliva pluripremiato

Sono giorni che nelle orecchie sento da Michele questo suono: Marco Rizzo, insieme ad altri nomi. Piano piano poi riuscirò a incontrarli tutti, tranne, purtroppo, uno che risponde a quello di: antonionuvolidettocremino.

Parcheggiamo nel cortile. Esce un giovane con la barba e i capelli tirati indietro in una piccola coda.

È Marco, si muove rapido, non perde tempo, senza dubbi su quello che dice.

In pochi minuti mi mostra e mi spiega tutto il percorso che fanno le olive dagli alberi alle bottiglie. Quelle che sta riempiendo il suo socio adesso andranno in Giappone.

Poi mi invita ad assaggiare i tre tipi di olio d’oliva che produce.

Un po’ di remore ad assaggiare l’olio ce l’ho; come se fosse una cosa troppo densa; un sapore, provato da solo, troppo forte, ma seguo le sue raccomandazioni. Il bicchierino va tenuto prima un po’ tra le mani per riscaldare il contenuto. Conservano l’olio in atmosfera controllata e a bassa temperatura.

Poi guardo come assaggia lui, come un sommelier con il vino.

Provo a imitarlo. Ci riesco male ma il sapore e l’odore di questi tre oli sono così decisi che mi sembra di aver colto qualcosa. Con“Incipit” hanno vinto il premio speciale del Gambero Rosso nel 2018 come miglior olio italiano monocultivar.

Da oggi ho scoperto di cosa sa davvero l’olio di oliva e perché va utilizzato a crudo. Altrimenti è come se compraste il miglior vino e poi prima di berlo lo metteste in una pentola a bollire per qualche minuto.

Nel pomeriggio poi succede una cosa.

Il museo della civiltà contadina

Sto tornando a casa a piedi dentro i vicoli del centro. Una passeggiata in questo centro storico ve la consiglio: è piccolo, senza auto appena iniziano le scale, quasi tutto di pietra, a misura di cammino, e, come ne ho visti pochissimi tra quelli in buone condizioni, non suona finto.

A un certo punto incontro un gruppo di persone, alcune ormai le conosco, che parlano tra loro mentre indicano un portone.

Qui si potrebbe girare la scena…

Dopo qualche minuto capisco che è arrivato, per girare un film amatoriale sui briganti, anzi sulle guerre di liberazione, un gruppetto di persone da fuori.

Vanno in giro per il centro a cercare gli angoli giusti. Mi interessa la cosa, mi accodo a loro.

Entrano nel Museo della civiltà contadina e si apre un altro mondo.

È una casa dentro un bel palazzo. Hanno raccolto qui gli oggetti della vita dei loro nonni.

C’è la cucina in muratura, tutta bianca ricoperta di mattonelle, con gli sportelli di ferro per farci il fuoco dentro. Sopra ci sono poggiate pentole di tutte le dimensioni, appesi al muro mestoli e forchettoni. Verrebbe voglia di cucinare adesso, al volo. È tutto pronto, bisogna fare soltanto un po’ di ordine e rimettere l’acqua per la pasta sul fuoco. C’è anche il contenitore con il beccucchio sottile per l’olio.

Nella stanza a fianco c’è una stadera, ceste di vimini, la madia e tutto quello che serve per fare il pane.

Ancora più dentro c’è il telaio, di legno. Ha i pedali come un organo e la leggerezza della struttura dei cavalletti dei pittori.

Il soggiorno con le foto alle pareti, un tavolino e le teche a vetri. Le chiavi di ferro grandi. Andando in giro per il paese con queste, provando, si aprirebbero tutte le porte chiuse.

Il letto matrimoniale coi corredi. La culla basculante di fianco. Poi sul comò una scatola di ferro un po’ blindata e un poco a ghirigori. Una signora mi spiega che aveva un uso molto particolare. Quando un amore finiva, uno metteva le lettere ricevute dentro questa scatola e la seppelliva. La chiamavano: La tomba dell’amore.

La camicia e i pantaloni, cuciti con cura, belli, sagomati. Il bacile sul trespolo e la brocca. Pronti all’uso.

Poi iniziano a girare le riprese.

Il film

S’è fatto buio e si girano scene notturne coi soldati per le vie del paese, poi nell’androne del palazzo dei Migliacci (i notabili del tempo, quello che adesso ha comprato Rosi, la Casa re i ciento stanze), poi nel museo, con le donne armate a guardia su ogni pianerottolo, con le gonne dell’epoca e gli scialli.

Il buio sfuma i contorni delle cose e tutto sembra stia succedendo adesso, anche i bordi del tempo devono essersi sfumati.

Si finisce tutti a cena da Peppe, un piccolo ristorante pizzeria paninoteca nella parte nuova del paese, in una tavolata di venti persone. Mentre i professori da un lato del tavolo parlano di storia, da quest’altro lato tra attori e comparse si ride molto e forse nascono amori.

A un certo punto il gran finale: arriva il secondo giro di pasta dentro la padella più grande del mondo.

Mammà quante cose in un giorno, vuless’ sape’ chi l’ha detto che ci si annoia, che non c’è niente da fare nei paesi.

Fine terza parte, continua.

Testo e foto di Francesco Paolo Busco (riproduzione riservata)

Note:

* Poi la panetteria, che Rosi mi disse quel giorno: È in vendita da molto tempo, anche io spero che non la vogliano vendere davvero, l’hanno ceduta. Il pane lo fa ancora.