Martedì 28 dicembre, voglia di camminare in libertà.
Solo un’idea come punto fermo dell’itinerario: il presepe “reinventato” dai fratelli Scuotto con nuovi personaggi, perché come loro sostengono da anni, il presepe napoletano è il racconto della nascita di Cristo ma messa a contatto con la realtà del popolo, nel tempo e nei luoghi.
Allora dall’Arenella alla Sanità, a piedi.
Oggi c’è un sacco di gente per strada, la bella giornata, da smaltire i pranzi, le cene e le “reclusioni” di Natale.
Attraverso Antignano, il borgo antico, poi vado al Parco Viviani.
Napoli nunn’è na carta sporca, evidentemente a qualcuno adesso importa. Una nave da crociera in manovra c’entra giusto giusto tra il Jolly Hotel e la terraferma.
Scendendo, una signora anziana in salita col bastone, mi chiede per essere sicura che l’uscita superiore sia aperta, e speriamo che nel frattempo non chiude! ché lo sforzo per lei di arrivarci non è così banale. Io le chiedo per fare pari se l’ingresso in basso, lungo la scalinata di Cupa Vecchia, è aperto pure.
Esco di là, Cupa Vecchia è in buona forma, l’erba non è ad altezza naturale, scendo.
Corso Vittorio Emanuele, poi le Rampe Montemiletto.
Un signore sta a fare qualche lavoro sul terrazzo senza maglietta, si gode il sole. La tavola calda srilankese a piazza Montesanto è chiusa, ma tanto fino all’anno nuovo non si può mangiare per strada all’aperto.
Piazza Dante. Un giretto per librerie. Mentre sto in quella di Tullio Pironti, una ragazza: Avete qualcosa di Fabrizia Ramondino?
Stranamente la risposta è: Purtroppo al momento più niente. Ce l’avevamo fino a pochi giorni fa. Buon segno, avranno venduto Althenopis da mettere sotto l’albero di qualche cliente attento. Comunque se aspettate il 20 gennaio esce dopo anni che non si trovava un suo libro bellissimo, Guerra d’infanzia e di Spagna, quello della scrittrice da leggere per primo secondo me perché racconta, nella sua maniera attentissima, speciale, visionaria a volte, l’infanzia. Althenopis, pubblicato prima, viene subito dopo, perché lì ci sono gli anni seguenti. L’intervista a Petra Krause, l’attivista tedesca che la Ramondino sembra abbia conosciuto, edito da loro, invece ce l’hanno.
Dal secondo Pironti, quello dopo Port’Alba, entro per un libro e ne esco con un altro, Il Nibbio del mare, su Francesco Caracciolo che pure m’intriga.
Però mo ci dobbiamo muovere che si sta facendo ben oltre l’ora di pranzo. Alla Sanità c’è poca gente. Nel cortile di palazzo dello Spagnolo c’è qualche turista che fotografa al volo. Palazzo Sanfelice mi mostra una sovrapposizione di curveinternoesterno che mi incuriosisce.
Santa Maria della Sanità, ‘o Monacone, è aperta, senza folla, molti stavano già fuori a Concettina ai Tre Santi ad aspettare il loro turno di pizza sanante.
Eccolo, sfolgorante da fuori la porta, Favoloso.
Entro e sono da solo. Il paggetto nano scoperto in un affresco settecentesco in questo quartiere, l’hanno soprannominato Peppeniello.
Uno scugnizzo palleggia col mellone, Il fantasma di Mafalda, la Principessa Cicinelli monacata a forza con in grembo la testa dell’amante, la Sirena che tiene prigioniera la sorella del pastore. I ciechi di Bruegel ruciuleano pe’ tutt’ ‘e scale. Il Lupo mannaro in alto, nell’ombra con Maria ‘a Manilonga che dal pozzo cattura i bambini durante le feste di Natale.
Un sacco di altri pastori interessanti.
Io nel frattempo mi inoltro un altro po’ dentro il quartiere. Alla Cantina del Gallo, sotto la scalinata che porta a Materdei, non c’è nessuna fila, il passaporto verde che ho stampato proprio stamattina nella sua veste aggiornata all’ultimissima dose funziona davvero. Davanti a me un tavolo di napoletani che illustrano la città ad amici più nordici, gusta la genovese mentre l’oste gli porta un po’ di brace del forno per le pizze per riscaldarsi i piedi. Il braciere, l’unico riscaldamento che mi ha sempre raccontato mio padre.
Mo mi piglio un bel ripieno al forno.
Voi nel frattempo, magari a piedi, alla Sanità, a vedere il presepe, andateci. È gratuito fino al 9 di gennaio, poi diventa a pagamento, è una ventata di novità come le sa procurare Napoli, pescate nel profondo, è una buona scusa per sgranchire i piedi e vi stuzzica il cervello.
Otto e mezzo del mattino; ormai lo sapete: accendere fuoco, per riscaldare la casa col camino.
Poi cerco i pezzi della macchinetta del caffè. Metto l’acqua, il filtro, la polvere. Accendo anche qui sotto.
Fuori c’è il sole.
I vestiti prima di infilarmeli li metto un po’ sulla spalliera della sedia vicino al camino, per togliergli il freddo accumulato stanotte.
Oggi andiamo in escursione.
Calzo gli scarponi da montagna, tutto il resto dell’abbigliamento è lo stesso di questi giorni perché fa freddo e non c’è da aggiungere niente.
Siamo diretti a visitare la Grotta di Bernardo.
Lungo il fiume Calore c’è il posto dove poco dopo il mille abitava un eremita, non si sa se fosse un frate o un abitante della zona. Per certo è rimasto il rifugio che si era costruito per vivere in mezzo a queste colline.
Esco di casa. Inizio a camminare nell’aria limpida, silenziosa, di queste stradine del centro antico che stamattina hanno le macchie di sole sui muri. Ho appuntamento a casa di Rosi.
Due signori fermi davanti alla bacheca dei necrologi.
Uno indica col bastone quello affisso al centro. Si guardano un momento. Pensano in silenzio. Cercano di ricordare. Poi si scambiano alcune parole: la grande eterna sorpresa che sentiamo per questo evento che mai nessuno di noi ha potuto evitare.
In città non si vede più questo spettacolo; anche se ci sono ancora, poche, le bacheche per queste affissioni, non mi capita mai di vedere che qualcuno si fermi a guardarle. Forse lo fanno ancora solo nei quartieri più affollati di popolo.
Rosi non l’ho mai vista vestita più elegante.
Penso da un po’ di tempo che andare in montagna (anche a vela per mare) sia come andare in chiesa. Lei forse sente lo stesso e allora ci va vestita come è conveniente.
Al balcone esposto al sole ci sono i mantelli neri ed i corsetti bianchi delle comparse del film di ieri sui briganti ad asciugare.
Tante damigiane di vetro verde in fila a bere luce del sole.
Il primo che incontro è il compagno di Rosi, Donato, il pittore.
Buongiorno Dona’. A lui che a quest’ora in genere ha già lavorato ai suoi quadri al piano di sotto, nelle ore in cui il mondo dorme e si vedono più nitidi i nostri sogni veri.
La GrottadiBernardo
Mi hanno detto che si cammina una mezz’ora a partire da Remolino, la località dove c’è il laghetto costruito quando qui per produrre energia elettrica avevano una centrale ad acqua di fiume.
C’è anche Rosita. Anche lei con gli scarponi da montagna, i bastoncini e il cappuccio verde. Iniziamo a camminare verso il fondo della valle. Lungo il ruscello. Di qui scorre una parte dell’acqua del fiume Calore, sui ciottoli, a fianco alle canne.
Rosi saluta una signora che abita sull’altra sponda.
Buongiorno. Poche parole, ad alta voce per la distanza. Tra persone che si conoscono da molti anni.
A Remolino, l’area attrezzata comunale, c’è la giostra vuota dei bambini, un fuoristrada vero e una panchina.
Un signore sta caricando della legna. Manco a dirlo che è amico di Rosi e Donato. Gli diciamo che oggi andiamo per sentieri e ci dà, senza parlare, come il permesso di andare lungo tracce che sono un po’ anche la sua casa.
Sul culmine della piccola diga della vecchia centrale idroelettrica, attenti a camminare dritto, con nel naso e in faccia l’aria che ha l’odore del fiume.
È come saltare un po’ dentro un altro mondo, attraversare un ponte.
Su quest’altro versante il sentiero inizia gradualmente a salire, in mezzo al bosco di lecci e olmi. Col muschio che cresce sulla roccia di calcare. La roccia amica dell’acqua: si scioglie al suo passaggio secolare creando fiumi sotterranei. La aiuta a nascondersi per fuoriuscire altrove, per dissetare piante, animali e uomini lontani dalla fonte.
In cambio a volte ne riceve splendide sculture di stalattiti dentro le grotte.
Si sale, ma restando dentro la culla di questa valle stretta.
Poi si scende un poco.
Grotta di Bernardo, sul cartello di legno scritto coi caratteri dei western italiani. Davanti c’è Donato nella foto. È quello di noi quattro, stamattina, che più sente la somiglianza secondo me con il personaggio dell’anno mille.
Dicono che siamo arrivati ma io non vedo niente.
Me la indicano e compare.
C’è un muro di pietra bianca in mezzo agli alberi, accostato al monte.
Un muro spesso, ben costruito, con una malta grezza, mentre io mi aspettavo un buco di grotta. Ci sono anche altri muri divisori, le finestre e il forno.
Non era un rifugio di fortuna ma una casa solida con le sue difese, costruita utilizzando come una delle pareti la collina di roccia.
Donato ci si muove curioso, lentissimo, con lo sguardo acuto. Ha l’occhio allenato a vedere trame che non tutti colgono.
Mi mostra alcuni disegni sull’intonaco dei muri. Li ha raffigurati anche nei suoi quadri: una specie di pescatore con la fiocina in spalla.
Il fiume scorre una decina di metri più sotto.
C’è anche una zona recintata da un muretto che forse era l’orto. Sta tutto sul fianco scosceso tra la roccia e il fiume.
Poi Rosanna mi racconta la leggenda intorno a quell’uomo.
Un giorno, c’era stata tantissima pioggia e c’era la piena del fiume, allora arrivano alcuni briganti a salvare Bernardo.
Gli calano una corda perché il sentiero di accesso è già sott’acqua.
Gli dicono: Attacca prima tutte le cose di valore!
Lui esegue. E loro tirano su le sue cose.
Poi come ultimo tirano su lui, ma non completamente. Lo lasciano appeso a metà altezza, per sempre.
Questa è la leggenda, mi dice Rosanna, non sappiamo se sia accaduto davvero.
Negli anni successivi molti altri, secondo Donato, hanno utilizzato quel luogo: pastori, gente che voleva stare tranquilla o che aveva qualche conto in sospeso col mondo lì fuori.
Proseguiamo sul nostro percorso che ci dovrebbe ricondurre a casa percorrendo un anello. Il ponticello di Petratetta: in mezzo al fiume due grandi massi a punta, insieme a una struttura leggera di legno, formano un guado per passare il fiume.
Però c’è un imprevisto. Il cane che stamattina si è accodato a noi ad un certo punto, non ha nessuna intenzione di salire su quel ponte. Forse i gradini per lui sono troppo alti. E non ha neppure voglia di farsi prendere in braccio per quel piccolo tratto. Proviamo un po’ a convincerlo ma ten’ ‘a capa tosta. Allora cambiamo percorso, ritorniamo dallo stesso lato da cui siamo venuti per non lasciarlo da solo lontano dal punto in cui ci si era accodato.
A casa di Zi’ Antonietta di Stasi
Oggi ho un altro appuntamento interessante: c’è una signora più che centenaria, che ancora ha voglia di incontrare qualcuno che viene da fuori.
Zì’ Antonietta di Stasi, classe 1916, 103 anni, ha visto due guerre mondiali.
Mi ci porta Vincenzo, il figlio, che avevo conosciuto mentre lo truccavano per fare la comparsa nel film sui briganti.
Arriviamo e c’è questa signora seduta ferma sulla sedia accanto al camino.
Nella stessa stanza c’è la figlia col grembiule, il berretto, la spianatoia di legno davanti, anche lei seduta con le spalle al camino a fare fusilli a mano uno per uno. Mi pare animata da una lena tranquilla. Ha una energia naturale, non lenta, non automatica o veloce, mentre muove le mani usando il ferretto squadrato come un minuscolo mattarello attorno a cui si crea il sottile tubicino della pasta gialla di uova e di olio del fusillo. Respira con calma e muove le mani uguale.
Poi mi dice che ci ha visto stamattina camminare. Era lei che dall’altro lato del fiume aveva salutato Rosi. Era troppo lontano per me per riconoscerla. In un paese qualunque cosa fai, anche camminare tra i monti, qualcuno lo ha visto.
Poi chiedo alla signora sullo sfondo.
Quando siete nata?
Io? ‘e vinticinche gennaru.
Di quale anno?
Millenovecentosedici.
Poi sbaglio completamente la seconda domanda.
Voi che lavoro avete fatto?
Pensa qualche istante.
Aggio zappato… aggio zappuliato… aggio munnatu… aggio fatto tutto!
All’inizio quei primi due verbi mi sembrano una ripetizione, un vezzeggiativo per non far apparire molto importante il lavoro che uno aveva fatto. Poi chiedo.
Che differenza c’è tra zappare e zappuliare?
A zappulià nce vo’ la zappela piccola, ‘a zapparella. Quando iamu a zappa’ nce vo’ una grande.
“Grande” detto scandendo bene, chiaro, con le lettere grandi.
Vincenzo mi spiega la differenza. Il primo verbo è zappare per fare il solco, quello che serve per seminare, il secondo esprime la piccola zappatura che si fa per pulire il terreno dalla specie infestanti attorno alle piante.
Tutte le altre decine di lavori per accudire la casa e crescere i figli non hanno quasi un nome in questo momento, passano sotto silenzio. Ma è il silenzio la risposta, al fuori tema totale della mia domanda a una donna di paese, di umili origini, del secolo scorso, come se il mondo le avesse potuto dare l’opportunità di fare altro che i lavori di casa e per accudire figli, animali e coltivare.
Lavoravate in campagna?
Sì.
Vincenzo mi spiega che vivevano anche in campagna. Quella in paese era solo una stanzetta, insufficiente per ospitare due genitori e otto figli. La stessa cosa che mi aveva già raccontato Rosi della sua famiglia. Le famiglie di contadini abitavano in campagna, nel luogo da cui traevano il loro sostentamento. Le case nel centro storico erano solo un appoggio per sbrigare piccoli affari magari per i signori locali. Forse la storica dimora per difendersi dentro le mura dagli attacchi esterni per un poco.
Secondo voi perché in Cilento si vive così a lungo?
Eh, uh Signore viritte ca nu meritavemo e n’hanno fatto vivere assai.
Che risposta bella.
Bisogna meritarselo?
Esattu!
Detto con una voce diversa, decisa, forte, con la convinzione di una donna molto più giovane.
Qual è ‘a cosa cchiu bella ‘e stu paese? A parte vostro figlio?
È piccolo ma è bello.
E penso che stia rispondendo alla domanda su Felitto. Poi:
È educatu.
Allora sta parlando del figlio.
È serissimo.
Vincenzo ride, un po’ imbarazzato, anche sorpreso.
Ma quindi tra poco è il vostro compleanno?
Vincenzo annuisce.
Ai cento anni abbiamo fatto una grande festa con tutto il paese. Se, sei qui il 25 gennaio vieni a festeggiare con noi.
In sottofondo, mentre parliamo, c’è il suono del ferretto squadrato che rotola sul legno. Va avanti e indietro, quasi il suono di un telaio per tessere invece che lana, grano.
Dico alla signora che ho comprato ieri quello stesso attrezzo ma che non lo so usare. Allora lei mi spiega la cosa più importante, l’ultimo gesto che si deve fare per riuscire, una volta che il fusillo è formato, a sfilarlo senza romperlo, con una piccola rotazione della mano.
Poi mi spiega la ricetta per farli.
Nel frattempo Vincenzo chiede alla madre se ha cenato. Hai preso il latte?
Ci vuole il sugo tirato, di carne. E il formaggio pecorino. Per il pomodoro usiamo le conserve che facciamo noi.
Zia Giuseppina interviene nel discorso.
Prima avevamo pecore, capre, ‘u maiale. Pure due mucche.
Sì, avevamo anche l’asino, aggiunge Vincenzo.
Fino a quindici anni sono stato a lavorare con loro, notte e giorno, senza soldi. Poi mi sono sposato e sono andato a Salerno, sono stato lì trentun anni, facevo il portiere di un palazzo.
Con quei contributi, più quelli di lavoratore agricolo, sono andato in pensione e sono riuscito a farmi la casetta nel centro storico che hai visto. Una stanza è quella che era dei miei genitori, poi ho comprato quelle a fianco. Tutti quelli che sono andati invece all’estero a lavorare, anche i miei fratelli, si sono fatti le case nuove, fuori dal centro storico.
Poi ci sono quelli che dall’estero non sono più tornati, e man mano che vanno avanti le generazioni, quando muore la nonna, qui a Felitto non tornano proprio più.
Solo il mese di agosto c’è molta gente che viene.
Adesso per esempio se vuoi andare a cena fuori dove vai? Stanno tutti chiusi. A Castel San Lorenzo (il paese accanto) invece stanno aperti e sono pieni.
L’unica cosa qui è che d’estate vengono a mangiare i fusilli. Poi vanno a vedere le Gole del Calore, ma poi che fai? Non c’è molto altro.
Anche i napoletani che sono discendenti di persone di Felitto, qui tornano sempre meno.
Vincenzo non vede molte prospettive.
Io ho sette ettari di terreno ma faccio solo l’olio di oliva. Mi costa troppo perché sta a dodici chilometri da qui.
La sorella:
Io ho tre capre. per fare un po’ di formaggio.
Prima avevamo l’asino, e i buoi per arare la terra.
Dopo la guerra stava bene chi aveva un po’ di animali. Si lavorava in campagna ed in cambio si otteneva qualche prodotto.
Da piccola andavo a raccogliere le ghiande ed in cambio mi davano le castagne.
Ora le campagne sono abbandonate. Non c’è nessuno. L’unica cosa buona è che mentre prima c’erano sette, otto famiglie importanti a Felitto e tutti gli altri lavoravano per loro, mio padre per esempio andava a coltivare il grano e gli toccava solo un terzo del raccolto che non era neanche abbondante come adesso, col tempo i ricchi si sono spostati in città e hanno venduto tutti i loro terreni e li abbiamo comprati noi che prima eravamo i poveri. E piano piano così ci siamo ripresi.
Vincenzo di nuovo:
Prima c’era il maiale che ci faceva campare. Con un po’ di lardo sul pane mangiavi. Facevamo tutto a casa: pasta, pane. La pasta andavamo a comprarla una volta all’anno. Mia madre faceva tanti tipi di pasta.
Vabbè, che vogliamo fare?
Andiamo, andiamo.
Andiamo a farci una passeggiatina.
Vincenzo è un tipo che troppo tempo fermo non può stare.
Mi avvicino a zia Antonietta per salutare. E lei scatta in piedi agilissima, rapida. Mi saluta mettendosi quasi sull’attenti. Sarà il rispetto atavico per gli “ospiti importanti”.
Il laboratorio di fusilli
Scendiamo di casa e ci viene in mente a questo punto di andare a visitare il laboratorio di fusilli felittesi. È sera ma stanno ancora aperti.
Entriamo. Ci sono tre donne sedute, col cappello bianco in testa e il camice. La scena non è molto diversa da quella che ho appena visto a casa di zia Giuseppina. Sono sei lavoranti che si alternano su due turni. Dalle 6 alle 13 e dalle 13 alle 20. In più, rispetto a quelli che li fanno a casa, c’è la macchina per impastare insieme acqua uova e farina, l’essiccatoio per velocizzare l’ultima fase della lavorazione e poi la macchina per imbustare sotto vuoto il prodotto prima di partire.
La richiesta c’è, sembra che non riescano a soddisfarle tutte. Il prezzo è undici euro al chilogrammo. Si chiama L’Oro di Felitto, se volete i fusilli felittesi fatti a mano con gli ingredienti sani dei presidi Slowfood direttamente a casa vostra basta contattarli.
A cena da Vincenzo
Vincenzo Gnazzo è il primo felittese che conosco che abita ancora nel centro storico. Dopo la visita a casa della mamma e la visita al laboratorio dei fusilli mi invita a cena a casa sua, in una delle stradine che da giorni percorro per andare da casa verso il resto del mondo.
Dalla casa dove sono io alla sua, a piedi, ci vorrebbe un cronometro perché su un tempo di due minuti i secondi diventano importanti. Entriamo e c’è la moglie che ha già tutto sul fuoco. Pure il camino è acceso, quello che si dice accogliere attorno al focolare. Qui la chiamano la Barese, perché è originaria di Gravina di Puglia. Vincenzo l’aveva incontrata un giorno che stava lì in vacanza.
Mi ha preparato una bella zuppa, un’ottima frittata, e una cosa che all’inizio non so indovinare. Sembrano patate fritte ma non proprio.
È zucca, mi dice Vincenzo, tagliata sottile.
È sfiziosa sotto i denti e ha il gusto del cibo semplice. Un buon vino e poi Vincenzo mi racconta: Per anni ho fatto il portiere in un palazzo di Salerno. Mi hanno sempre voluto bene. Non sono stato mai un dipendente, ero diventato uno di famiglia. Quando sono arrivato, gli abitanti del palazzo a stento si conoscevano, allora io gliel’ho detto, piano piano li ho fatti conoscere tra loro. Insomma ha portato il modello Felitto dentro il palazzo di Salerno.
Anche questa è stata una giornata lunga. È ora di andare.
Pochi minuti, fino a casa, nel silenzio, con pochissime luci da qualche finestra. A piedi.
Pochi giorni fa, grazie ad un amico, ho scoperto un’altra scorciatoia napoletana per soli pedoni, si chiama Rampe Montemiletto.
Si trova già nella mappa del Duca di Noja della fine del ‘700.
Se andate a guardare le due mappe sotto, una del 1775, l’altra di oggi, il tracciato delle linee principali è identico. Potete usare per riferimento l’angolo retto che sta vicino al numero 374 nella carta del Duca di Noja. Il numero 375 sta invece sulla attuale via Ventaglieri, che all’epoca si chiamava Strada del Sangue di Cristo.
Al numero 380 la legenda riporta: Porta Medina, prima nominata Porta pertugio. È piazza Montesanto dove ancora oggi trovate una iscrizione che cita quella antica porta creata dove qualcuno per comodità aveva già praticato un buco nelle mura.
Nel 1775, anno di quella antica mappa, mancava la linea di corso Vittorio Emanuele e di palazzi c’era quasi solo quello dei Principi Tocco della Famiglia dei Montemiletto (al numero 373 della legenda).
Mappa del Duca di Noja (1775)
In pratica se volete andare da piazza Mazzini a piazza Montesanto camminando senza macchine intorno, potete prendere per questa larga, soleggiata scalinata che stava lì, se è vero che il palazzo Tocco di Montemiletto alla Cesarea risale addirittura al ‘600, probabilmente dallo stesso giorno.
Se andate a camminare poco sopra piazza Dante, lungo Salita Pontecorvo, arrivati alle scale subito sotto la chiesa di San Giuseppe delle Scalze, trovate, dal 24 giugno scorso, che hanno un nuovo nome. Adesso si chiamano Rampe Fabrizia Ramondino.
Scrittrice napoletana, classe 1936, impegnata nel sociale, a favore degli “ultimi”, scomparsa nel 2008. Ci ha lasciato un romanzo capolavoro: Althenopis; uno degli scritti autobiografici più coraggiosi che abbia mai incontrato: Il libro dei sogni, e molte altre cose. Da un po’ di tempo sto seguendo le sue tracce in città, allora quella mattina sono curioso e vado a vedere.
Arrivo in anticipo. Ci sono i vigili urbani che stanno portando via col carro attrezzi due o tre automobili parcheggiate sul marciapiede proprio sotto la targa da inaugurare.
La signora che abita lungo la scalinata sembra far parte integrante del murale.
Poi le persone iniziano ad arrivare.
Dall’alto della scala spunta un volto che somiglia moltissimo a quello della protagonista di questa mattina: è la figlia della scrittrice, Livia Patrizi, venuta apposta dalla Germania per questo momento intimo tra Napoli e sua madre.
Dopo un po’ ecco Vera Maone, la fotografa di cui vi avevo parlato in queste pagine. Fa parte anche lei della cerchia di vecchi amici della scrittrice che si sta stringendo ogni minuto che passa alla base di questi gradini. C’è la sorella Annalisa Ramondino, la giornalista Eleonora Puntillo, la professoressa di Letteratura tedesca Valentina Di Rosa, il poeta Salvatore Di Natale, il sociologo Enrico Pugliese, i registi Arturo Cirillo e Leonardo Di Costanzo, l’artista Patrizio Esposito, il fotografo Antonio Biasiucci, lo scrittore Silvio Perrela e molti altri.
Poi arriva Mario Martone. Con lui la Ramondino ha condiviso, tra gli altri progetti, la sceneggiatura del film su Renato Caccioppoli: Morte di un matematico napoletano. In quel film c’era anche la figlia Livia, era la studentessa che fa esclamare a Caccioppoli: Fa piacere vedere che anche le donne hanno un cervello, 30 e lode. In onore di questa ragazza sospendiamo per cinque minuti la seduta. E per la stizza della frase maschilista spezza d’istinto in primo piano il gessetto che tiene tra le mani.
All’ultimo secondo arriva Goffredo Fofi, classe 1937, in treno da Roma, poi a piedi dalla stazione: i sandali, i pantaloni leggeri, la Bic e il taccuino nel taschino della camicia a quadri e il bastone.
Ecco il Sindaco. Si inizia al microfono a ricordare.
Fofi se ne sta sul limite del gruppo di persone.
È lui, fedele ancora oggi all’idea della cultura non come intrattenimento ma come strumento per intervenire nel mondo (bisogna studiare e rompere le scatole), che nel 1977 chiese alla Ramondino di scrivere il suo primo libro, un’inchiesta: Napoli, i disoccupati organizzati. È forse uno dei maggiori artefici di quella carriera letteraria, insieme al padre della scrittrice che un giorno le aveva predestinato: Tu farai la bibliotecaria, c’aveva quasi azzeccato.
Molti altri amici della scrittrice fanno una platea attenta, ordinata, cordiale, commossa senza darlo troppo a vedere.
Prende la parola anche la rappresentante dei Sahrawi: il popolo del Sahara, della cui causa indipendentista dal Marocco, insieme a Martone e Patrizio Esposito, la scrittrice si era occupata in un suo piccolo libro molto curato: Polisario.
Si scopre la targa.
La figlia si avvicina per toccarla.
Una nipote, Federica Manfredi, ci mette accanto dei fiori.
Stamattina sono venuti anche alcuni dei “bambini di Fabrizia”, quelli che negli anni ’60 la scrittrice aveva accudito in uno dei suoi progetti di scuola alternativa alla periferia della città, dentro casa sua, a Torre Caracciolo, dove abitava in quegli anni. Oggi si incontrano per la prima volta con la figlia ufficiale.
Salvatore Garofalo, Livia Patrizi, Anna Garofalo
Poi Fofi e Di Natale, l’intellettuale fuori dal coro e il poeta vernacolare, faccia a faccia, non sento cosa si dicono ma li vedo impegnati in una specie di scenetta da commedia dell’arte.
Qualche foto anche per i giornali.
Finita la cerimonia molti restano un po’ tra di loro a parlare.
Foto di Livia Patrizi
Foto di Livia Patrizi
Annalisa Ramondino e Sandra Pugliese
Il giorno dopo, una piccola sorpresa spiacevole. Qualcuno nella notte ha coperto la targa di vernice.
Il commento più diffuso è: Del tutto incomprensibile.
A me viene in mente invece che prima della cerimonia, quando portavano via le auto, Elonora Puntillo aveva osservato: Però non è bello quello che stanno facendo, di portare via col carro attrezzi le macchine, sarebbe stato meglio avvertire nei giorni precedenti di non parcheggiare.
Non c’è molto di incomprensibile sotto il sole, neppure la nostra poca volontà di capire.
La targa è stata ripulita dopo poche ore. E quel piccolo dispetto e le frasi di commento: incomprensibile, credo che a Fabrizia Ramondino, che aveva grande dimestichezza con tutte le categorie del popolo dei napoletani, da lassù, l’avranno fatta sorridere.
In questo nostro viaggio in cerca dell’Islanda a Napoli abbiamo trovato che una grande parte dei contatti tra noi e quell’isola dell’estremo nord del mondo passa attraverso l’importazione del merluzzo nordico. Siamo andati a parlare con un ristoratore appassionatissimo della materia, e lui poi ci ha dato l’indirizzo di un’antica famiglia di piccoli importatori locali che conservano ancora la cultura di come il baccalà va lavorato, da come arriva dalle aziende islandesi fino al negozio al dettaglio, da qualche anno anche fino al piatto del loro ristorante.La lavorazione era l’ultimo anello della catena di congiunzione tra Islanda e Napoli via mare e allora siamo andati a vedere un giorno quello che fanno.
Sono Luigi, Nunzia e Luigi, tre cugini con lo stesso cognome che portano avanti la tradizione di famiglia, ditta F.lli Esposito, ad Acerra, di importazione e vendita di baccalà e stoccafisso dai paesi nordici.
Il primo Luigi, il maggiore, di pochi anni, (a sinistra nella foto) si occupa della distribuzione e del ristorante, Nunzia del lato amministrativo economico, il secondo Luigi, della lavorazione.
Siamo ancora nell’ingresso del capannone e già mi iniziano a spiegare con abbondanza di informazioni e passione.
Il più giovane dei due Luigi, quello col berretto e gli abiti da lavoro: Sono stato in Islanda alcune volte, è brava gente, sono molto accoglienti, gli piace la convivialità, stare insieme a tavola.
Attualmente producono solo baccalà, cioè il merluzzo sotto sale. Le strutture di legno per mettere ad essiccare all’aria il pesce e farne invece stoccafisso le hanno smantellate circa vent’anni fa, perché la Norvegia ha un clima più favorevole, più ventilato e asciutto, per quel tipo di lavorazione rispetto a loro.
Poi scopro che gli islandesi pescano anche d’inverno. Vi immaginate in mezzo a quel mare nordico, con il sole sempre bassissimo, e quel freddo? Invece il Gadus morhua (il merluzzo nordico, diverso dal merluzzo delle acque del Mediterraneo, il nasello) con le sue migrazioni verso i fiordi per la riproduzione li porta a dover lavorare anche nella stagione rigida. Così mi racconta: Fanno due periodi di pesca: ottobre-febbraio e giugno-agosto e ogni azienda di pesca ha la sua quota che non può essere superata.
Rispetto a dieci anni fa i produttori di baccalà sono diminuiti circa della metà. Molti produttori, con le nuove generazioni, si sono spostati su altri prodotti: il pesce fresco, o sul pesce da surgelare. Anche magari lo stesso merluzzo ma fresco, che vendono nei mercati dei Paesi limitrofi come la Danimarca.
Loro il merluzzo salato non lo hanno mai consumato molto, lo mangiano fresco.
Eh, me ne sono accorto durante l’intervista alle due calciatrici islandesi della volta scorsa, vi ricordate? Il baccalà e lo stoccafisso non sapevano quasi cosa fossero. Per capirlo c’avevo messo mezz’ora.
In Islanda il pescelo sanno cucinare bene ma in maniera molto diversa da noi. Salato, il baccalà, lo vengono a mangiare quando vengono in Italia.
Con i loro battelli supermoderni (hanno investito molto in Islanda per questo) riescono a fare la lavorazione del merluzzo appena pescato, fino alla messa sotto sale, già a bordo. Questo aumenta molto la qualità del prodotto.
Nel periodo in cui le femmine depongono le uova i pesci più grassi si pescano vicino alla costa, nei fiordi.
E io che avevo ipotizzato che gli islandesi avessero incominciato a salarlo per consumarlo d’inverno quando magari evitavano di uscire in mare.
No, quelli pescano anche d’inverno, quelli so’ vichinghi, continua Luigi.
Sono stato l’ultima volta lì nel novembre del 2015, in tre giorni non sono mai uscito dall’albergo.
Ho provato ma c’era un’umidità nell’aria che anche se non pioveva tornavi bagnato. Noi qua se c’è il sole usciamo altrimenti magari aspettiamo un giorno migliore. Là no, so’ abituati. Pensa che negli uffici hanno tutto: letto, generi alimentari; perché con le condizioni climatiche non sanno mai se potranno tornare a casa a dormire. Vivono in un modo molto diverso da noi.
Mio padre c’è stato tante volte, io soltanto due.Però ci incontriamo spesso con i produttori. Sono quindici anni che c’è la fiera internazionale del pesce a Bruxelles e lì vengono tutti, per fare accordi commerciali. Adesso la replicano anche in Spagna, a Barcellona, e in Asia, ma quella di Bruxelles resta sempre la fiera più importante.
Poi Luigi il maggiore:
Abbiamo cominciato da quattro generazioni, dal mio bisnonno. Importando e poi facendo la lavorazione, a Sant’Anastasia. Lo andava a prendere a Napoli, al porto, nelle cui celle frigorifere passava buona parte del baccalà diretto al meridione d’Italia.
Adesso passa tutto per Rotterdam dove ci sono grandi capannoni frigoriferi e poi da lì viene spedito via camion.
Poi mio nonno si accorse, andandolo a portare da Sant’Anastasia nei paesi limitrofi col carretto trainato da cavalli, che quando utilizzava l’acqua delle fontanelle pubbliche intorno ad Acerra, l’acqua del Serino, per tenerlo fresco soprattuto nei mesi più caldi, il pesce si riprendeva del tutto, veniva spugnato molto meglio, e quindi si spostò qui ad Acerra.
Da tre anni hanno anche un ristorante, in piazza Castello.
Il punto di vendita originario della nostra famiglia stava nel centro storico. Gli autotreni scaricavano sotto al castello e poi mio nonno, in quelle ore, affittava tutte le Ape, i “laparielli”, dei contadini di Acerra per farsi portare il pesce nei vicoli fino al negozio, dove i camion non sarebbero riusciti ad entrare.
Poi dovevamo ammollarlo e tagliarlo per il consumo al dettaglio.
Luigi il minore:
Una volta è venuto qui da noi il figlio di un grande produttore norvegese di stoccafisso (il merluzzo essiccato invece che salato) per imparare la lavorazione che c’è dopo l’essiccazione. È stato qui con noi a lavorare perché loro con la loro attività arrivano a conoscere il processo solo fino all’essiccazione. Usciva anche con noi col furgone a vedere come veniva venduto.
L’altro Luigi:
Noi alla fine dedichiamo una grande cura al prodotto. Loro arrivano solo fino alla salatura o all’essiccazione. La lavorazione è articolata, soprattutto per lo stoccafisso.
Quello che vorremmo è che, come è accaduto per il pizzaiuolo napoletano, la cui arte è stata addirittura riconosciuta “patrimonio culturale dell’umanità”, anche per gli artigiani del baccalà e dello stoccafisso venisse riconosciuta la cura artigianale che c’è dietro.
Anche rispetto alla lavorazione che fanno nel nord Italia qui al sud è molto diverso.Loro per esempio non reidratano lo stoccafisso. Iniziano a lavorarlo secco con la battitura, per fare lo stoccafisso mantecato, con latte e sale. Noi invece lo reidratiamo fino a raggiungere l’aspetto del pesce quasi come se fosse fresco. A volte vengono clienti dal nord a mangiare lo stoccafisso e si meravigliano che quello sia lo stesso pesce che mangiano a casa loro.
Poi iniziano a mostrarmi la lavorazione.
Ci tengono prima a farmi vedere come si lavora lo stoccafisso, il pesce essiccato che viene non dall’Islanda ma dagli altri Paesi nordici, per esempio la Norvegia.
Questo è lo stoccafisso come arriva qui da noi.
Si spugna per due giorni. Poi viene aperto con il coltello. La roncola.
All’inizio si usava ancora la roncola contadina e i ceppi di legno. Le norme ufficiali iniziarono a prevedere taglieri in plastica e una serie di norme che erano quasi impossibili da seguire, non puoi tagliare sulla plastica, il coltello rimbalza. Abbiamo poi ottenuto la PAT: Prodotto Agricolo Tradizionale e quindi abbiamo potuto di nuovo usare i nostri ceppi di legno.
Adesso i ceppi sono registrati e controllati periodicamente. In genere sono di noce o di quercia, e li levighiamo una volta al mese.
Questa fase di apertura del pesce in due si chiama sguarratura. È una fase delicata perché non si deve rompere la carne. Se si rompe devi solo farlo a pezzi piccoli. E per i napoletani lo stoccafisso a pezzi è di seconda qualità anche se il pesce era di qualità ottima.
Poi viene rimesso in acqua concalce ed il bicarbonato farmaceutico, per disinfettarlo e sbiancarlo al colore originario. Poi viene tagliato ulteriormente in due parti: stocco e coronello. E viene rimesso in acqua per circa due settimane.
Alla fine della lavorazione il peso aumenta di quattro volte rispetto al pesce essiccato di partenza.
Poi mi fa vedere la lavorazione del baccalà, il taglio alla napoletana e quello alla casertana. Diviso in felle e mussillo.
Ecco come arriva. Sulla scatola di cartone c’è il marchio dell’Islanda, ecco il legame di oggi con l’isola che stiamo cercando.
Devi essere bravo a far uscire il taglio alto sia alla pancetta (la fella), che corrisponde alla pancia del pesce, che al mussillo, la parte dorsale. Ogni singolo pesce ha la linea giusta lungo la quale dividerlo.
Adesso ti mostro il taglio alla casertana. Questo pesce qui, più grande, viene utilizzato più nella zona di Caserta.
Da adesso si fa silenzio.
Il coltello sale e scende a ritmi regolari. Battendo ogni volta un colpo sul tronco di legno. Dall’inizio del taglio fino a che non è finito del tutto.
Forse questo taglio a mano, penso, rispetta in qualche modo l’animale di cui stiamo parlando. Il silenzio serve a ricordarselo, che non c’è un oggetto su quel ceppo, anche il taglio manuale a stancarsi, per non esagerare oltre l’umano.
Lo ha tagliato in parti regolari secondo linee parallele e ortogonali.
Poi mi mostra il taglio alla napoletana.
Luigi il maggiore: I napoletani nun so’ fessi, vogliono un taglio ancora più selezionato dei casertani.
Per alcuni secondi anche adesso si sta tutti in silenzio.
Luigi esegue un taglio in meno parti, e quella centrale adesso forma un triangolo. È il mussillo di baccalà a cor’ e sorice.
Con questo tipo di taglio lasciamo più carne anche sulle pancette perché i napoletani sono ghiotti molto anche di baccalà fritto, che si fa con quelle. Mentre il mussillo (la parte triangolare) viene fatto o in casseruola o scaldato.
A Napoli non riesci a vendere se non con questo taglio.
Adesso con i ristoratori magari, di volta in volta, ci accordiamo sul tipo di taglio e sul tipo di salagione che preferiscono. Facciamo le vasche di spugnamento personalizzate per ogni cliente. C’è chi lo vuole con quattro giorni di acqua, chi con cinque, chi già pronto per essere cucinato.
La fase di spugnamento è delicata: se lo spugni poco è salato, se lo spugni troppo poi si perde facilmente, se lo maneggi troppo si inquina.
Prima eravamo noi che cercavamo di farci ascoltare dai cuochi, adesso cerchiamo noi di ascoltare loro.
Luigi il maggiore: Mio nonno diceva: “Il baccalà si prepara, non si cucina”. Intendeva che la lavorazione parte da prima della cucina, con l’ammollamento e il taglio.
È un prodotto particolare.
Diceva anche: “‘O baccalà è meglio r’o pesce”. Sembra una frase senza senso invece spiega come questo pesce diventi, con il trattamento sotto sale o essiccato, in qualche modo qualcosa di diverso: segue percorsi diversi anche nei mercati, dove non sono i pescivendoli a venderlo, ma i baccalajuoli.
Ma per quanto tempo deve rimanere sotto sale?
Il baccalà deve stare sotto sale, prima di arrivare qui, almeno tre mesi.
In passato, per un prodotto eccellente, c’erano stagionature molto più lunghe: anche un anno, un anno e mezzo. Adesso il gusto è cambiato: il cliente vuole il pesce bianco, prima era il contrario: il colore giallino della stagionatura lunga era considerato più pregiato; oggi purtroppo viene preso da alcuni clienti come indizio di pesce vecchio, mentre invece non è così.
Per questo, per il tipo di trattamento, sono pochi i posti in cui mangi il vero baccalà.
Poi, oltre i tagli che ti ho fatto vedere, c’è il baccalà già a filetti, eccolo.
È più comodo da usare in cucina. Oggi molti preferiscono questo, perché è già spinato e ha uno spessore uniforme. Però se vuoi mangiare il baccalà di qualità alta devi partire solo dalla divisione che ti ho mostrato prima, alla casertana o alla napoletana e continuare il lavoro al momento in cui lo stai cucinando.
Poi mi mostra una linea leggermente più chiara che corre sul lato della pelle del pesce.
Vedi questa striatura? È quella che ci assicura che si tratta di Gadus morhua, il merluzzo nordico, e non di altre specie imparentate.
Il pesce maschio è un po’ più tenace, quello femmina più morbido. Il merluzzo che preferiamo noi italiani è quello del nord dell’Islanda, lì c’è il migliore nutrimento per il merluzzo. Quello delle coste meridionali lo vendono preferibilmente in Portogallo, perché i portoghesi hanno una cultura della cucina di quel pesce ancora più diffusa della nostra, hanno moltissimi modi di servirlo e quindi per ogni tipo di merluzzo hanno un modo di cucinarlo. Invece noi italiani per gli islandesi siamo dei “clienti scomodi”, molto esigenti.
Poi arriva il primo Luigi con un secchiello di plastica trasparente. Dentro si vedono dei pezzi piccoli di quel pesce bianco.
Ecco il famoso prodotto dei poveri: ‘a murzell’ ‘e baccalà, sono i pezzetti che restano durante il taglio.
Poi capisco perché hanno pensato di mettere su anche il ristorante.
Il fatto è che se fai i conti, il baccalà sfilettato dovrebbe essere venduto a prezzi altissimi per i costi di lavorazione e per lo sfrido. Allora per evitare di fare i prezzi troppo alti e non andare a discapito della qualità, la via migliore è quella di includere alcune fasi. Ecco perché sviluppiamo il rapporto con gli chef dei locali o ha senso addirittura mettere su un ristorante.
Negli anni il consumo di questo pesce è andato calando progressivamente mi dicono. Prima nel negozio per non rimanere senza baccalà nel periodo di Natale dovevi comprarlo con molto anticipo, anche ad agosto. Adesso non è più così.
C’è stato un periodo in cui si è lavorato al ribasso: si sono verificati anche casi in cui è stato immesso sul mercato pesce di provenienza dubbia, dai TIR che “scomparivano”, e lavorato e venduto al ribasso per liberarsi rapidamente della merce.Questo ha contribuito a far allontanare anche un po’ la clientela.
Fino ad una ventina di anni fa il mercoledì di Quaresima qui ad Acerra si vendeva più baccalà che a Natale, perché non si poteva mangiare carne.
Ecco il pesce per i paesi dell’interno che aveva intuito l’arcivescovo di Upsala come ci avevano raccontato la volta scorsa.
Oggi c’è la ristorazione che lo ha rivalutato, e si mangia tutti i giorni, mentre abbiamo perso i grandi quantitativi in Quaresima e a Natale.
A volte al ristorante a un cliente a cui è piaciuto consigliamo la ricetta e poi loro vengono a comprarlo al negozio per cucinarlo a casa. È una bel modo di recuperare la cultura del consumo di questo pesce.
Luigi il secondo:
Ci vuole passione per fare questo mestiere, perché è molto lavorato. E anche l’odore che ti porti appresso… è un “marchio di fabbrica”.
Quali sono i vostri clienti tipici?
Vengono dappertutto. Quelli che si trovano a passare nelle vicinanze per lavoro, oggi, grazie a internet, ci trovano anche se non ci conoscevano prima.
Oggi se lavori bene non conta più dove ti trovi.
Un po’ di tempo fa si è trovata a passare una signora abruzzese. Aveva cominciato dicendo: Il baccalà non lo conosco molto, non lo mangio mai perché da noi non si trova. È uscita dal ristorante comprando il prodotto per cucinarselo anche a casa al ritorno.
Come nasce l’idea dell’Accademia del Baccalajuolo che avete creato (presidente Toti Lange, con cui avevamo parlato la volta scorsa)?
Nunzia: Già zio Mario, circa quindici anni fa aveva creato l’Accademia del baccalà. Prendendo anche spunto da quella che c’era ancora prima ad Ancona. L’Accademia è utile per dare il giusto valore a questo prodotto, per organizzare eventi, per promuovere la cultura che c’è dietro.
Luigi il maggiore: Prima c’erano 100-150 ammollitori in tutta la Campania, oggi siamo rimasti una decina.
L’altro Luigi: È un lavoro artigianale, se non verrà ben valorizzato tenderà a scomparire. In Islanda questo tipo di problema lo hanno avuto, nella pesca, prima di noi. Per una ventina d’anni i giovani avevano abbandonato questo lavoro. Hanno iniziato ad andare in giro per il mondo a fare altri mestieri. Poi hanno visto che da loro si viveva bene, in un ambiente più rilassato e sono piano piano tornati.
Ringrazio i miei ospiti di oggi. Sono stati gentilissimi e molto appassionati di raccontarmi il mondo di questo prodotto che unisce Campania e Islanda.
Uscendo c’è una vecchia foto con decine di pesci appesi fuori al loro negozio, 300 lire il prezzo esposto.
Poi fotografo loro tre davanti al logo dell’azienda di famiglia. Cercano di far evolvere il loro mestiere col ristorante, parlando con i cuochi.
Quanto torno a casa dopo questa mattinata di immersione totale nella lavorazione del baccalà, mi accorgo che i miei vestiti anche si sono intrisi dell’argomento. Ho acquisito anch’io, come diceva Luigi, un po’ del marchio di fabbrica del baccalajuolo; al telefono, nei giorni precedenti, mi aveva avvertito. I viaggi sono fatti anche di questo.
(Fine decima parte, se volete iniziare il giro del mondo dal principio lo trovate qui,continua).
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