“Quando ho iniziato la mia carriera di fotografa il gesto che più ricordo era che mi spingevano. Polizia e Carabinieri quando a Palermo arrivavo sul luogo in cui era avvenuto qualche fatto di cronaca nera; forse perché donna e giovane, evidentemente non ero credibile, avranno pensato: ma questa che viene a fare qua, a giocare? E mi spingevano via”.
Poi evidentemente hanno smesso di spingerla, perché le sue sono tra le foto più “forti” e significative della Palermo degli anni ’70-’80.
È l’incontro con Letizia Battaglia, cui ha preso parte anche l’Assessore alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, Nino Daniele, che si è svolto ieri presso il Palazzo delle Arti di Napoli – PAN.
Letizia Battaglia è a Napoli nell’ambito della seconda edizione di “Imbavagliati”, Festival di giornalismo civile (PAN, dal 18 al 24 settembre), che ospita una sua personale fotografica curata dal fotoreporter Stefano Renna con la collaborazione di Giulia Mariani.
“Ho cominciato a fotografare perché quando mi presentavo nelle sedi dei giornali, avevo iniziato a scrivere articoli e li andavo a proporre, mi chiedevano: E le foto le hai?. Così ho cominciato con una macchinetta che mi ero procurata. La Leica “che non avrei altrimenti potuto permettermi, l’ho ricevuta in premio in Germania quando mi hanno attribuito l’ “Erich Salomon Preis” (nel 2007, premio vinto prima di lei, tra gli altri, da Sebastiao Salgado, Donald McCullin, Renè Burri ndr). Una Leica digitale; è così che ho iniziato a fotografare in digitale”.
Quella che si vede qui è una donna semplice, schietta. Porta al collo anche incontrando Napoli una reflex digitale piccola con un obiettivo molto compatto: “Per me vivere è fotografare sono la stessa cosa, io vivo come fotografo e fotografo come vivo, in maniera magari un po’ disordinata”.
Ad un certo punto dal fondo della sala gremita si vede affacciarsi una figura dai capelli e barba bianchi, occhiali. Resta lì qualche minuto perché non c’è più posto. Poi dal tavolo dei relatori lo riconoscono, è Mimmo Jodice, e lo invitano a sedersi in prima fila: un altro pezzo fondamentale di fotografia “civile” del sud Italia è in sala.
Un incontro tra visioni acute.
“Occorre spogliarsi di ogni supponenza, occorre essere semplici per fotografare” racconta ancora la Battaglia, che agli aspiranti fotografi presenti in sala rivolge un avvertimento: “Sappiate che di fotografia di reportage non si diventa ricchi; poi in Italia occorrerebbe una modifica delle leggi: rendere più semplice fotografare, per esempio poter fotografare i bambini, oggi se lo fai ti chiedono un risarcimento economico pesante”.
Letizia Battaglia è nata a Palermo il 5 marzo 1935, ha vissuto anche a Milano, Parigi, Berlino, ma è tornata a Palermo. “Quando stavo a Palermo volevo partire, poi quando stavo fuori mi mancava Palermo”.
Va ancora in giro a fotografare la sua città meravigliandosi dei contrasti enormi: “Una volta passeggiavo verso piazza Marina e sentivo uscire dalla villa Garibaldi un bellissimo odore di piante, di non so che fiori, poi dall’altro lato mi arrivava contemporaneamente la puzza dei cumuli di immondizia. Ecco, Palermo forse è questi contrasti forti”.
Ha deciso di tornare e di restare a Palermo ma ogni tanto ha bisogno di partire: “Per prendermi quelle carezze che la mia città non mi dà. non so perché ma Palermo per me è così”.
Poi conclude: ”Non so se avete notato ma stasera una parola non l’ho mai pronunciata: mafia”.
Le sue foto sono lì, alle pareti del PAN. Foto in bianco e nero, di palermitani, da vedere: lasciano poco scampo.
Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)
Napoli dal mare? E allora andiamo a vedere, stamattina, in un piccolo gommone, la costa da Pozzuoli fino alla capitale.
Ci
porta un amico che è nato a Posillipo, il padre faceva il pescatore,
aveva una barca di dodici metri e un chiosco a Mergellina: una vita
inzuppata nell’acqua salata.
Da ragazzo gli dava una mano, nel pomeriggio, a calare la rete, di notte poi il padre andava col socio pescatore a tirarla su: sua madre invece a lui a fare quello a quell’ora non lo ha mai autorizzato. Adesso lavora nelle telecomunicazioni, dentro lo stabilimento panoramico per operai creato da quel genio di umanità che era Adriano Olivetti.
Stamattina abbiamo appuntamento alle dieci, vicino all’arco della porta di Pozzuoli sotto il ponte che va al Rione Terra. Parto presto come tutte le volte che mi sta a cuore e che qualcun altro è coinvolto. Pure la Cumana ha dato una mano, l’ho dovuta rincorrere dentro la stazione che stava addirittura per partire. Dentro c’è un sacco di gente direzione sole. Si vede dalle scarpe, dai vestiti corti con un sacco di spacchi e dalle borse delle donne un poco troppo gonfie per passeggiare. Scendo a Gerolomini e vedo le terme di Pozzuoli dall’ingresso laterale.
Passeggio con calma verso la porta antica. Mi faccio un giro a visitare la chiesa di Gesù e Maria; fuori c’è un signore anziano. Mentre gironzolo mi comincia a parlare e mi spiega un sacco di cose. Quando stiamo per uscire faccio per dargli qualche moneta ma lui resta sorpreso, non gli devo nulla: uno che fa le cose per gli altri solo perché gli piace.
Ma iniziamo la navigazione.
Il gommone sta dentro un piccolissimo porto, vicino al rudere mai finito di cemento che sorge dove alla fine del ‘600 era sorto un convento dei frati Cappuccini, poi uno dei ristoranti più famosi di Pozzuoli: “Vicienzo a mare”. Col bradisismo fu abbandonato e ne fu autorizzata dal Comune la ricostruzione come centro polifunzionale, ma il Demanio Marittimo lo dichiarò illegale. Oggi sta lì in posizione privilegiata ad impreziosire il paesaggio.
Il motore è perfetto, parte al secondo colpo.
Uscendo da questo piccolo anfratto già si vede la gente sugli scogli. Identica ai gabbiani, sta lì a prendersi il sole e l’aria, non tanto per fare il bagno, almeno per ora.
Prua verso est, direzione Napoli. La costa per adesso è quasi tutta di accumuli artificiali: pietre grosse che si ammassano vicine facendo finta di essere uno scoglio. Sopra ogni tanto c’è un puntino umano, anzi due o tre puntini messi uno a fianco all’altro. Dalla strada non si vedono, io non li ho mai visti, eppure ci sono, lungo tutto questo litorale, puntati verso il cielo, tra la terra e l’acqua per raccogliere un poco di energia solare.
Poi c’è il pontile lungo un chilometro, quello di Bagnoli. Ci passiamo sotto. A vederlo da vicino sembra di avvicinarsi sotto la murata di una nave dei pirati, un uncino pende appeso a una catena, come la mano del capitano cattivo. Un altro pontile subito dopo. Alla punta c’è un uomo. Allargando lo sguardo la linea prospettica è una: parte dall’interno, ci sta la fabbrica con le ciminiere, una, due, tutte su una linea, spuntano dal verde e da muri screpolati, scavalca barriere diventando linea di binari sopra una fila obliqua di mille pilastri verticali e arriva fino a qua, fino a questo ragazzo, in piedi, sull’ultimo pezzo di balcone che regge in mano un’altra linea sottile da cui parte un filo trasparente che finisce in acqua. Tutto ‘sto casino, tutte ‘ste costruzioni complicate grigie costose inquinanti, per poi ritornare umili sottili trasparenti a mare.
Poco
dopo c’è un terzo pontile, più basso, qui non si può passare sotto a
meno che stamattina non c’avete un sommergibile. Ai lati si vedono
ancora appesi i parabordi per far attraccare le navi, stanno messi in
croce, sembrano enormi morbidi ideogrammi giapponesi. E anche qua c’è un
puntino, con la maglietta rossa, con la canna antenna per captare
qualcosa da sotto la superficie.
Poi
spuntano sull’acqua i giovani dell’ILVA. Vogano su tre barche da
canottaggio, si allenano. La fabbrica l’hanno chiusa e smantellata negli
anni ’90 eccetto poche cose di archeologia industriale, il circolo
invece è ancora vivo, e continua a remare. La prima barca a vela, oggi
ne vedremo poche.
Ed ecco Nisida. Un pezzo deve essersi staccato un giorno, uno spicchio sottile e altissimo, lo chiamano lo Scoglio di Ponente ma potevano chiamarlo Faraglione.
Nisida è un vulcano con al centro l’acqua, un vulcano di mare. Dentro c’è la barca della Polizia Penitenziaria, oggi è il 2 giugno, non si entra neppure con le canoe, due li vediamo uscire quando passiamo.
Allora
andiamo verso terra, per passare sotto il ponte che collega quest’isola
a Bagnoli. Avvicinandoci ci vengono incontro quelli che in barca
cominciano ad uscire. I pontili galleggianti che allestiscono qui
d’estate sono già pieni, ed a quest’ora i motoscafisti girano la chiave,
rotta su Procida, tutti sincronizzati. Se avete visto la tangenziale
alle otto della mattina allora è come se ci foste stati.
Il
mare per noi col gommoncino sembra quasi agitato, ogni tanto dobbiamo
stare attenti a prendere bene le onde: oggi non c’è vento, le fanno i
motoscafi.
A metà ponte si trova un arco basso. Per farlo non hanno usato blocchi sagomati a cuneo ma mattoni sottilissimi, magri e tantissimi in modo che nessuno di loro si accorgesse che stava curvando. Ci passiamo comodi e siamo oltre Nisida, prima di Trentaremi.
Un pescatore sta fermo nella barca più piccola del mondo. Sembra una di quelle che usano nei ristoranti come ornamento, per fare scena con dentro le reti e i gusci di conchiglie. Lui l’ha prelevata e l’ha messa in acqua, pure il motore è piccolo e sembra occupare metà dell’imbarcazione.
In alto si vedono i pini del parco Virgiliano, sotto una spiaggia con sopra le persone. Una galleria dal mare verso l’interno, scavata dentro la montagna gialla e col rivestimento in cemento, con l’impianto elettrico e una balaustra di ferro a chiudere. Chi sa al Virgiliano cosa ci sta sotto.
Siamo a
Trentaremi, quasi alla Gaiola. Compare un gruppo folto di canoe. Sono
pure in tanti ma non danno fastidio. Sono piccoli e si guadagnano
onestamente, a braccia, ogni metro di panorama.
Navigano
davanti a tante aperture nella roccia di tufo, alte, squadrate.
Appartenevano alle strutture della villa Pausilypon. Quella costruita da
un ricco romano e che era così bella che dopo la sua morte passò
addirittura all’Imperatore.
Alla Gaiola un arco congiunge i due isolotti. È così sottile che sembra disegnato. Sotto ci entra esattamente la chiesa di Santa Maria del Faro.
Dopo un po’ dall’acqua sorge una casa vecchia, sembra una costruzione abusiva. No, un momento però, ha i muri romani. Altro che casa abusiva, è ancora un pezzo della villa dell’Imperatore. Lo chiamano Palazzo degli Spiriti.
In basso c’è
una finestra murata. Dentro c’è un buco e mentre passiamo vediamo
entrare dei ragazzi. Su questo palazzo ci sono varie leggende: alcune la
legano alle arti stregonesche di Virgilio mago, altre a una zecca
clandestina di falsari turchi che per tenere lontani i curiosi
appendevano teli bianchi alle aperture come lenzuola di fantasmi.
Sullo Scoglione c’è la gente sulle sedie sdraio. E c’è pure una barca gialla, attraccata allo scoglio, che fa da ristorazione: “Chiosca Carolina” (il nome è una licenza poetica, tutto al femminile).
I lettini di alcuni stabilimenti famosi, sulla costa di tufo, sono così in pendenza che per dormirci bisogna aggrapparsi. Parecchi sono vuoti: qualcuno si sarà addormentato sul serio.
Ecco villa Rosebery,
una delle tre residenze del Presidente della Repubblica Italiana. Ha
l’attracco riservato dietro la scogliera e un uomo sta di guardia lungo
il muro grigio. Sembra di risentire la storia antica dopo pochi metri:
come quella di Pausilypon, anche questa villa, costruita da qualcun
altro, finisce in mano al comandante in capo. Evidentemente lungo questa
costa c’è così tanta bellezza che chiunque può ci viene ad abitare.
Passando oltre incrociamo una barca di quelle che si affittano a Santa Lucia, la riconosciamo dai colori e dal numero 1, si chiama “Miez’ juorno”. A bordo ci sono solo due persone, sembrano marito e moglie forestieri avventurosi in barchetta a percorrere tutto il golfo.
Per passare davanti a questa scogliera in sicurezza, dice la nostra guida, poiché se si sta all’interno dello scoglio di Pietra Salata il fondo è basso , bisogna rispettare una regola segreta: navigare tenendo allineati nella visuale quella cupola enorme laggiù e il grattacielo che spunta dietro: il Jolly Hotel e S. Francesco di Paola.
Si vedono ancora persone su ogni scogliera, piccola o lunga, sotto ogni palazzo. Sono frequentissimi e pochi, solo due o tre per volta, quelli che sotto casa hanno la discesa a mare personale: padre e mamma col neonato in braccio appena fuori da un cancello altissimo, una coppia di signore prende il sole alla fine di un pontile chiuso, un signore bello rotondo sta indeciso sopra una scaletta che finisce in acqua.
Siamo
a Riva Fiorita. Qui girano la famosa soap opera napoletana, e
stamattina abbiamo un perfetto posto all’aria ma da pochi minuti si è
velato il sole.
Un cantiere navale sta dentro una grotta con la stessa forma dell’antro della Sibilla cumana. Ha due ingressi, lontani, collegati da un vano lungo, tutto dentro la collina. Fuori ad ognuno c’è lo scivolo per far salire e scendere le barche.
Poi arriviamo nel posto di oggi, quello che aveva dato l’idea a tutta questa escursione. Volevamo vedere la fontanella, anzi la sorgente che con un tubo porta l’acqua minerale a chi naviga, direttamente sulle barche, senza che scendete. Dentro il porto privato di villa Lauro ci sono già quattro o cinque barche, ed ecco la sorgente. Prendo l’acqua dentro la borraccia e sento che diventa fredda man mano che si riempie. È fresca, ha il sapore leggermente frizzante, pochissimo, solo un accenno, sembra la nonna della Ferrarelle, che ha perso lo smalto giovanile ma è molto più sottile.
Ci allontaniamo tre metri dalla banchina e buttiamo l’ancora dentro l’acqua bassa. Arriva una gozzo di legno che porta due turiste a bordo. Uno dei marinai scende a prendere l’acqua anche lui. Se non lo sai questa fontanina neppure la vedi: è solo un tubo, nuovo di acciaio inox. La lastra di marmo c’è ma la scritta è volata. I gabbiani la conoscono, uno atterra per bere. Ogni volta fa una sorsata col becco e poi alza il collo per farla scendere.
E finalmente, fermi all’ancora, dentro questo porto piccolissimo e tranquillo, addentiamo il panino con le polpette al sugo. Il signore del chiosco Carolina quando l’abbiamo comprato non ci poteva pensare che non ci volevamo pure il contorno: “Peperoni, funghi, neppure melanzane?”
Dentro
villa Lauro il signore della barca a fianco, mentre i figli e la moglie
stanno a prendersi il sole, sta immerso in acqua fino all’addome e
raccoglie la cima dell’ancora con infinita calma, saggio, si vede
proprio che lui qui c’è venuto solo per fare questo.
Un
pontile corto, squadrato, familiare e dietro una scalinata nota, S.
Pietro ai due frati, quella che abbiamo fatto a piedi poche settimane fa
scendendo da via Manzoni lungo Salita Villanova oggi la guardiamo
dall’altro lato.
Un altro cantiere navale, sembra in funzione, o forse sono solo barche che stanno a deposito invernale, sta scavato nel tufo. Dovrebbe essere il “Cantiere Navale Marina di Posillipo” di cui avevamo visto l’insegna lungo la strada omonima, scendendo a piedi dopo Villanova e sembrava del tutto chiuso, morto, finito.
Il nostro amico a un certo punto fa segno verso la costa verso un palazzo giallo, poco più in alto del livello del mare, sulla linea obliqua di via Posillipo. “Li abitavo io. Scendevo da casa passando dentro il palazzo di un mio amico e arrivavo sulla spiaggia; scendere per il palazzo delle monache era pericoloso, se ti acchiappavano ti facevano nuovo.
Da lì a nuoto fino a villa Lauro, giocavamo a “scannapopolo” per tutta una giornata, un misto di calcio e pallanuoto: a calcio quando eri sulla spiaggia, poi pallanuoto nell’acqua in mezzo, e di nuovo calcio quando eri sull’altra sabbia da quell’altro lato. Chi era stanco cedeva il posto a un compagno. “Scannapopolo” perché c’era una sola regola: era che qualunque cosa si poteva fare”.
Poi un po’ più avanti, davanti a villa Martinelli: “Qua, lo vedi? mettevano le porte galleggianti. Potevi giocare a pallanuoto con chi c’era. Una volta stavo tirando a porta, aspettavo il momento che il portiere scendesse dopo ch’era salito per parare il colpo. Io aspettavo e lui non scendeva mai, aspettavo ancora, ma lui era più forte”. Era Mario Scotti Galletta, il portiere della Nazionale.
Palazzo
Donn’Anna, il palazzo che da terra non siamo mai riusciti ad entrare.
Dal balcone all’angolo Raffaele La Capria, lo scrittore, diceva che si
tuffava direttamente in acqua, era il balcone di casa. La nostra guida
di oggi dentro il palazzo ci teneva la barca. “Sul lato destro
guardando verso terra c’è quell’apertura. Lì si entrava o si entra e
dentro c’era uno spazio enorme, la sabbia e decine di barche”.
Poi: “Lo vedi quel palazzo rosso? Mio fratello aveva la fidanzata che abitava lì, la veniva a prendere con la barca da quella scaletta”. Uah bellissimo, Venezia col Vesuvio, ci viene da pensare.
Sono storie che mischiano acqua e terra, poveri e ricchi, lungo una linea poco definita, mista, un bagnasciuga di coabitazione.
Più avanti c’è il Circolo Posillipo, stamattina ci sono i soci anche loro a prendere il sole sopra la scogliera e i figli alla nostra destra, poco lontano, che si allenano con l’istruttore ad andare a vela su barche piccole e veloci girando attorno alle boe.
Altri pochi metri e c’è largo Sermoneta, e il porto piccolissimo. Posillipo è disseminata di questi piccoli ridossi. Dentro ci sono le famiglie sulla spiaggia con gli ombrelloni e i ragazzi che saltano tuffi. Saluto la nostra guida di oggi, lancio le scarpe a terra e metto il piede sulla banchina di pietra.
I ragazzi giocano a prendersi in giro e una ragazzina risponde a un altro, sveglia, tranquilla, aguzza: “Sono dei Quartieri”.
La sensazione, tornando a casa, è di avere navigato lungo una linea porosa, lungo una spugna di tufo, metà acqua metà solida; come la salsedine, che non è liquida ma neppure sale.
Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)
Lungo questo viaggio sui luoghi del geniale matematico raccontati in questi mesi volevamo parlare con qualcuno che Renato Caccioppoli lo avesse conosciuto davvero, lo avesse incontrato di persona, ci avesse parlato, probabilmente soprattutto ascoltato. Allora stamattina abbiamo appuntamento al Dipartimento di Matematica ed Applicazioni “Renato Caccioppoli “, a Monte Sant’Angelo, Università Federico II, con Salvatore Rionero, professore emerito di Fisica Matematica.
Entro
in questo edificio moderno grigio e giallo, con i pavimenti lucidissimi
verde di linoleum. Arrivo con molto anticipo e aspetto. Alle 10.59, non
riesco ad aspettare quell’altro minuto, sono alla porta e busso.
Buongiorno professore.
Buongiorno, prego. Prima di cominciare le devo far leggere questo.
E
mi porge un libricino dentro il quale, tra altri interventi in un
convegno di alcuni anni fa sul professor Caccioppoli, c’è il suo.
Racconta alcune cose, e del suo esame di Analisi Algebrica (oggi si chiama Analisi I) alla facoltà di Matematica di questa stessa università che si trovava all’epoca a via Mezzocannone.
Si capitava, ad anni alterni, con lui o con il professor Miranda: quell’anno agli studenti di Analisi Algebrica toccava lui, il professore mito, severissimo agli esami.
Durante
gli esami di Caccioppoli non volava una mosca, c’era un’atmosfera
tesissima. Lui si accendeva una sigaretta, magari andava avanti e
indietro lungo la lavagna, ogni tanto si sollevava i capelli sulla
fronte con la mano. Oppure stava seduto a fianco alla cattedra, ci
poggiava la testa pensando, poi dopo un po’ la alzava per vedere a che
punto fosse dell’esercizio il candidato di turno.
Lo
studente Rionero che, è la prima precisazione che ha tenuto a farmi,
non ha seguito il suo corso ma che stamattina mi dice ancora: “il suo libro lo conoscevo quasi meglio di lui”, viene chiamato dopo alcuni candidati che erano stati bocciati al primo esercizio: il calcolo della derivata di una funzione.
La domanda non cambiava, stava lì alla lavagna fino a che qualcuno quella derivata non riusciva, senza errori, a farla.
(Per
chiarirvi la cosa: mi hanno raccontato – se chiedete agli studenti di
quell’epoca, anzi ormai quasi ai loro figli soltanto, molti a Napoli
hanno aneddoti su quel momento – di uno studente che mentre era seduto
aspettando il suo turno sapeva perfettamente svolgere l’esercizio che
vedeva scritto lì davanti, poi una volta alla lavagna, per l’emozione
che dava quel professore, si era scordato tutto).
Eseguo
il calcolo passo per passo, per non sbagliare, mentre sento che il
professor Caccioppoli inizia a dare qualche segno di impazienza.
Completo l’esercizio senza errori, però quando mi giro vedo che la sua
espressione non è delle migliori.
Seconda domanda: dimostrazione di un teorema (il teorema di Weierstrass,
il ricordo è talmente vivo che secondo me se gli chiediamo le parole
esatte, una per una, che avevano detto lui e il professore, ci scrive un
testo perfetto).
Questa volta lo studente Rionero parla spedito, con sicurezza, veloce. E l’espressione di Caccioppoli inizia a cambiare.
Poi gli consente addirittura di parlare di argomenti al di fuori del programma.
Alla
fine della sua esposizione il nostro candidato si gira per la terza
volta e trova Caccioppoli sorridente, con gli occhi illuminati, che gli
porge il libretto con sopra scritto “30 e lode”.
Copio esattamente da quel libricino la sua frase che mi ha appena ripetuto quasi uguale: “Quella stretta di mano e l’applauso scoppiato nell’aula mi hanno indicato la strada che potevo percorrere e costituiscono uno dei più bei ricordi della mia vita”.
Questo era uno degli esami di Caccioppoli.
Poi mi racconta il suo secondo esame sostenuto con quello stesso professore, Analisi Infinitesimale (oggi sarebbe Analisi II), con la stessa precisione nel ricordo.
Insomma credo che lei abbia capito da quello che le sto raccontando che Caccioppoli agli esami bisognava sfidarlo.
E mi viene in mente che quel professore, nipote di Bakunin, una delle cose che più amava nella vita, e cercava di coltivare in sé e negli altri, era la libertà e l’onestà intellettuale. Ecco perché forse a sfidarlo, se uno non barava, non si veniva mai giudicati male.
Magari trattava i candidati con freddezza ma solo sulle cose formali, poi quando intravedeva che qualcuno aveva davvero qualcosa da dire non saliva in cattedra e usava la sua posizione ma anzi era felice di parlare quasi da pari a pari.
Forse è questo anche il motivo per il quale, quando quel primo esercizio non si riusciva a svolgere con la dovuta sicurezza, in un tempo opportuno, senza errori, e ci si trovava, girandosi, il professore di fronte con in mano già il proprio libretto, in silenzio, lo si prendeva e si andava via senza replicare.
Continua a raccontare il professore.
Il
peggio era quando, durante la seduta, arrivava qualche assistente o
libero docente ad ascoltare. Deve sapere infatti che agli esami e alle
lezioni venivano ad assistere non solo gli allievi ma anche professori.
In quelle occasioni il professor Caccioppoli iniziava un poco più a
scherzare.
Una volta, questo l’ho ascoltato proprio io di persona, un po’ demoralizzato dall’esito dei primi esami, disse al suo assistente don Savino Coronato: “Don Savì, e questi sono quelli che dovrebbero insegnare ai nostri figli? Meno male che noi figli non ne teniamo; vero don Savì?”
Se vi ricordate che don Savino era un prete non vi sfugge la battuta un poco imbarazzante.
Ma
il motivo per cui le aule in cui il professore Caccioppoli teneva esami
o lezione erano sempre gremite non era certamente per le battute, le
faccio un esempio: mettiamo che io sia un professore molto accurato e
che tenga una lezione in cui spiego perfettamente, passaggio per
passaggio, senza saltare nulla, un certo argomento; molto probabilmente
dopo un paio d’ore la mia platea si sarà annoiata. Invece il professor
Caccioppoli aveva un dono: lui sapeva andare al nocciolo dell’argomento,
sapeva far vedere oltre i passaggi e le formule, ecco perché riusciva a
tenere la platea sospesa, interessata, attenta, e perché lo andavano ad
ascoltare anche persone che non erano studenti.
Va bene, per non farvi rimanere troppo col fiato sospeso, vi dico che a quel secondo esame Rionero pure prese trenta.
Poi
continua coi ricordi. Sta cercando di farci capire ancora, di disegnare
più chiaramente che può quella figura sottile, di spiegarci qualcosa di
non semplice da afferrare.
Vede, se lei mi incontra per strada, cosa pensa? Che sono una persona normale, come gli altri. Bene, io sono Accademico dei Lincei come era lui, ho più pubblicazioni di quante non ne avesse fatte lui -con questo, attenzione, non voglio assolutamente dire che le mie pubblicazioni sono migliori delle sue, intendiamoci- però se lei incontrava Caccioppoli si rendeva istantaneamente conto di avere davanti una persona al di sopra del normale, un genio.
Dopo un poco il professor
Rionero sente che mi ha raccontato abbastanza di suo, senza che gli
facessi domande; credo che Caccioppoli faccia questo effetto in molti:
ha mosso molto in profondo le persone e allora tutti ne parlano con
grande piacere, con urgenza a tratti. E mi chiede di iniziare a fargli
le domande che avevo in mente.
Guardo sul mio
quaderno e leggo una domanda che non si dovrebbe fare, non come prima
almeno. Però se l’ho scritta per prima pure questo avrà un motivo,
allora gliela faccio.
Professore adesso
comincio da questo, lo so che è al contrario, dalla fine, ma è la prima
cosa che mi è affiorata nel pensiero. Lei che cosa si ricorda dei
funerali del professore?
Vedo il viso del professore che si ferma.
Si ferma il respiro per qualche momento.
Ho sbagliato domanda.
Mi dispiace.
Mi ha già risposto. Sono passati sessant’anni da quel giorno di maggio e questo signore stamattina si commuove.
Poi si attacca a qualche parola per tirare fuori la voce.
Non
so se lei si ricorda, dentro palazzo Cellamare, dove abitava
Caccioppoli, dopo il cancello, c’è un viale. Quel giorno era tutto pieno
di persone, c’erano professori da tutta Italia.
Lungo
quel viale, in un angolo, quella mattina ho visto, tra i tanti altri,
due dei più importanti matematici italiani asciugarsi le lacrime.
È stata una cosa terribile, che ha rivoluzionato tutto il mondo matematico di allora.
Un
altro ricordo è di qualche giorno prima: stavo all’angolo di via Chiaia
con piazza Trieste e Trento, davanti a quel bar famosissimo, come si
chiama… il Gambrinus, sì, ecco.
Stavo lì ad aspettare la mia fidanzata e vedo arrivare, scendendo da via Chiaia, il professore.
Camminava
a fatica, non era uno spettacolo bellissimo. Qualche tempo prima,
cadendo, si era rotto un braccio, non stava più tanto bene in salute.
Allora mi avvicinai con molta deferenza e gli chiesi: “Professore come
sta?”
Mi diede la mano e mi disse: “Rionero, come vuole che io stia?”.
Dopo due o tre giorni avemmo la tristissima notizia. È l’ultimo ricordo che ho di lui.
Siamo andati a cercare sulle pagine del giornale che frequentava di persona, quasi tutte le sere, nella redazione di Napoli. Ecco, se volete, il racconto di quel giorno: “L’Unità” 10 maggio 1959.
Sei studenti vollero portarlo da palazzo Cellamare, per via Chiaia, fino a piazza Vittoria. Togliatti inviò un telegramma.
I libri personali di Caccioppoli
Ha aggiunto parecchi tasselli il professor Rionero alla nostra ricostruzione, lo ringraziamo molto e andiamo a vedere un luogo dove un altro pezzetto di Caccioppoli pure rimane.
Si trova proprio qui sotto, al piano terra, dove c’è la Biblioteca “Carlo Miranda”. In un armadio di ferro con la porta a vetri. Dentro ci sono i libri che usava personalmente Renato Caccioppoli.
Molti
hanno copertine rivestite in tela, con il titolo a lettere dorate.
Apriamo uno dei libri di Analisi scritti da lui per i corsi. Una prima
edizione ha i caratteri in corsivo, tutti.
Ci sono
libri di autori stranieri, in francese e in tedesco. Ce lo aveva
raccontato poco fa il professor Rionero, i rapporti con il mondo
anglofono erano limitatissimi: si ricordi che ai tempi del fascismo l’Inghilterra era “la perfida Albione”.
C’è un libro del suo maestro, Mauro Picone, che si intitola: “Calcolo”.
Tocchiamo tutto il meno possibile. Qualcun altro li ha aperti; meglio non invadere troppo quei suoi gesti.
Professor Carlo Sbordone
Dopo
tanti luoghi cercati in questo viaggio a puntate, oggi continuiamo alla
ricerca più dei racconti delle persone e andiamo a parlare con un altro
matematico napoletano che non ha conosciuto direttamente Caccioppoli,
perché troppo giovane, però ne è un cultore, il professor Carlo
Sbordone.
Lo andiamo a trovare nella sede dell’Accademia Pontaniana, a via Mezzocannone; c’eravamo stati, in questa nostra ricerca, il primo giorno. È stato per sei anni presidente di quest’Accademia che fu diretta, prima donna, dalla zia del professor Caccioppoli, Maria Bakunin.
Ci inizia a raccontare delle origini del dipartimento. Si ricorda a memoria l’anno di nascita e pure di iscrizione all’università di parecchi professori suoi docenti. Sembra uno storico dei matematici.
Il professor Picone
riuscì a costituire una scuola di bravissimi matematici e molto
precoci: Caccioppoli del 1904, il più anziano, Gianfranco Cimmino del
1908, Giuseppe Scorza Dragoni del 1908 pure lui, mentre parla scrive questi numeri su un foglio di carta,
e poi Carlo Miranda che era del 1912, tutti precocissimi: il professore
Miranda si iscrisse all’università a soli 15 anni, il professor Cimmino
pure si laureò prestissimo.
Il professore
Picone oltre a essere un matematico molto produttivo era anche molto
concreto. Riuscì a farsi dare nel 1927 dal Banco di Napoli la somma di
cinquantamila lire (all’epoca era una cifra considerevole) per
impiantare a Napoli, credo proprio in questo palazzo, il centro di
calcolo elettronico, si chiamava “Istituto per le applicazioni del
calcolo”. Poi nel ’27-’28 se lo portò a Roma, con gran parte dei suoi
assistenti, questa fu una sfortuna per noi.
Uno dei pochi che rimasero a Napoli fu proprio Caccioppoli.
Siamo seduti dentro una saletta dell’Accademia, si chiama sala Benedetto Croce.
al posto dove adesso vedete fotografato il professore probabilmente
sedeva proprio Croce, forse dove sto seduto io in questo momento s’è
seduto Caccioppoli qualche volta convocato da lui.
Forse gli aveva detto quello che adesso ci racconta il professore.
Il
professore Caccioppoli nel dopoguerra entrò a far parte di un gruppo
ristretto, dieci persone, dei più assidui sostenitori della rinascita di
quest’Accademia.
Deve sapere che Benedetto
Croce aveva deciso di nominare sua zia Maria Bakunin presidente
dell’Accademia. Allora il nipote, che per sua natura non era uno che si
occupasse di cose troppo pratiche, lo sappiamo tutti, era un grande
teorico, per ricambiare aveva accettato di entrare in quel piccolo
gruppo.
Il professor Sbordone insegna Analisi Matematica, la
stessa materia che insegnava Caccioppoli, e allora gli chiediamo se ha
in qualche modo ricevuto influenza dagli studi nei campi aperti da lui.
Vede,
Caccioppoli ha avuto la fortuna di nascere in un tempo in cui ci si
poteva occupare di diversi campi della Matematica ad un livello
avanzato. Oggi siamo ad un livello talmente specializzato che sarebbe
impossibile affrontarne più di due. Lui ne ha affrontati, con questo
intendo dire che ha dato risultati di valore, in almeno 7 o 8 ed è stato
comunque ai suoi tempi una grande eccezione.
Lui
dava dei risultati molto importanti, però talvolta erano difficili da
capire anche per i giovani assistenti. Allora c’era il professor Miranda
che traduceva. Caccioppoli esponeva la teoria, Miranda capiva, oppure a
volte tornava da Caccioppoli e diceva: “Renà ch’è scritt ccà?”, per
farsi spiegare meglio.
Due degli argomenti
di cui si è occupato portano ancora il suo nome: le “Disuguaglianze di
Caccioppoli” e gli “Insiemi di Caccioppoli”.
Gli
“Insiemi di Caccioppoli” sono insiemi il cui bordo è così irregolare,
che le funzioni che lo descrivono sono difficilmente gestibili da un
punto di vista matematico, però sono molto importanti. Hanno avuto un
ruolo notevole nella ricostruzione per esempio delle immagini. Per fare i
film a colori si è dovuti intervenire su queste strutture che sono gli
“Insiemi di Caccioppoli”.
Io invece ho
lavorato sulle “Disuguaglianze di Caccioppoli” che riguardano il
problema della continuità delle soluzioni di problemi con dati
discontinui.
Il professor Sbordone è stato referente scientifico del film “Morte di un matematico napoletano“, di Mario Martone, anzi mi dice oggi che sta personalmente anche in una piccola scena.
Ad un certo punto nel film ci dovevano essere due Caccioppoli, erano due Carlo, Carlo Cecchi e Carlo io. Uno alla lavagna, di spalle, scrive delle formule, e quello sono io, mentre l’altro fa un gesto di rifiuto con la mano come per dire: “Basta, queste cose non mi interessano più”.
L’ultima
domanda che gli pongo è su come trovare il luogo dove riposa Renato
Caccioppoli. Sapevo che era uno di quelli che lo sanno.
Mi ha fatto proprio un disegno su un foglio di carta.
Entra, segue la strada, una prima curva, una seconda e qui, ecco, in questo punto trova una piccola cappella di famiglia.
In alto c’è scritto “Caccioppoli”.
Poi uscendo mi dice: Sa, oggi abbiamo una delle lezioni per i ragazzi dei licei per allenarli alle “Olimpiadi di Matematica” delle scuole superiori. Sono curioso e andiamo insieme a vedere quell’aula magna dove, vi ricordate? eravamo già stati insieme nella primissima puntata di questo viaggio. Quel giorno avevo fotografato una sala vuota, l’unica presenza umana era il ritratto di Maria Bakunin. Adesso dentro quei banchi ci sono almeno cinquanta studenti liceali. Alla lavagna c’è un professore giovane, forse un assistente, che sta spiegando con una bella calma, a una platea che ascolta tranquillamente. Oltre tutti questi bei discorsi che facciamo, la tradizione scientifica, questo anche è un bel segno, anche dentro queste sale, sta continuando.
L’ultimo luogo
Andiamo a cercare il luogo ultimo, su questo pianeta, del professore.
Ritrovo il foglio con quel disegno, me lo riguardo e parto.
Quando
arrivo lassù mi accorgo che non mi ero fatto spiegare abbastanza in
dettaglio quale fosse l’ingresso preciso, perché come saprete qui sopra
di cimiteri ce ne stanno almeno quattro.
Poi, dopo un po’ di ricerche, trovo l’ufficio giusto. Al computer trovano rapidamente il posto esatto.
Cimitero di Santa Maria del Pianto, curva zona quattro.
È un bel cancello, all’ombra di alberi, dentro un piccolissimo slargo.
La strada scende, come gli altri. Dopo pochissimi metri un cartello di ferro: Totò, Enrico Caruso.
A
un bivio c’è una piccola bottega dei marmi, l’indicazione si ripete,
per Totò girare a destra. Siamo qui, a questo punto andiamo a vedere.
Una
cappella come le altre intorno. Solo ci sono un po’ più fiori della
media. Guardo dentro dalla porta chiusa. Ci sono le foto che conosciamo
tutti. È proprio lui. A destra della porta c’è scritta nel marmo tutta “la Livella”.
Siamo scesi troppo lungo la collina, è meglio se risalgo.
Eccola finalmente: Caccioppoli
scritto in alto. Guardo dentro cercando di dare il minimo disturbo.
Cerco due volte tra i nomi che leggo ma non sono quelli che ricordo. C’è
la bottega di prima, vedo se lo sanno.
Sta lì vedete, e indica una seconda cappella con Caccioppoli scritto che sta a sei metri.
Mentre mi avvicino vedo che la porta è aperta. Esce un ragazzo che stava pulendo, chiedo di entrare un momento.
Leggo “Renato Caccioppoli” in alto a sinistra, e poi solo due date.
Resto soltanto a guardare.
Di fronte c’è la madre, il padre.
La prima fotografia mi viene mossa.
Il
signore dei marmi si avvicina, la cosa diventa più delicata visto che
era aperto. Mi chiede chi siamo. Poi è talmente gentile che telefona
agli eredi e ci danno anche il permesso di pubblicare le foto che vi
stiamo mostrando.
Forse il professore ha un poco in simpatia questo nostro viaggio. Prima ci ha preso un po’ in giro, come suo solito. Ci ha fatto andare avanti e indietro, ncoppo e sotto, alla fine però si è fatto trovare, e ha lasciato, proprio in quel momento, quella porta aperta.
Forse voleva che vedessimo prima il Principe della risata, e solo alla fine il matematico comunista “anarchico”.
Una cosa dell’intervista al professor Rionero e al professor Sbordone però non ve l’ho ancora detta.
Alla fine avevo chiesto a entrambi, in giorni diversi, in due posti tra di loro lontani, un’ultima cosa.
Professore secondo lei che cosa aveva Caccioppoli di diverso dagli altri?
Mi hanno risposto con le quasi identiche parole: Sa, lui vedeva cose che noi non vedevamo, che non saremmo riusciti a vedere senza di lui, questa è la verità.
Poi, forse, quel venerdì 8 maggio 1959, quello che riusciva così bene a vedere era stato troppo grande da sopportare anche per lui.
Questo articolo lo pubblichiamo il giorno prima di quell’anniversario. Vi vogliamo dare il tempo di pensarci.
Poi
magari c’è un matematico bravissimo che in ventiquattr’ore mette
insieme tutta la teoria, costruisce una macchina del tempo, e riesce a
cambiare la sorte.
(Fine ultima parte, se volete ricominciare dalla prima parte il link è questo).
Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)
Una sera del 1938, insieme con Sara Mancuso, sua
futura moglie, il professor Caccioppoli si trova in un locale, alcuni
sostengono fosse la birreria Lowenbrau a piazza Municipio, altri Il Grottino,
un ristorante verso Mergellina. Anche le versioni di quello che accadde
sono un po’ diverse tra di loro ma il succo è sostanzialmente uguale.
Secondo Ermanno Rea il posto era la birreria e successe questo.
Dentro
la birreria c’è un gruppetto di militari fascisti che a un certo punto
iniziano un canto fastidioso per le orecchie di Caccioppoli: Faccetta nera.
Cantano
sempre più ad alto volume, poi addirittura a squarciagola. Coprendo le
note, diverse, che il pianista del locale stava già suonando. Anzi
imponendogli di suonare le note giuste per accompagnare la loro canzone.
Fascisti,
che cantano una canzone “oscena”, disturbando un onesto lavoratore
intento al suo mestiere. Non ci poteva mai stare il professore. Allora,
finita quella esibizione, Caccioppoli si alza, si avvicina al pianista.
Gli chiede se lo può sostituire. Lui che al pianoforte era molto bravo
inizia a suonare una canzoncina facilissima, orecchiabile, francese: la Marsigliese. Anche lui sempre più ad alto volume.
Quando
finisce nessuno applaude. Hanno capito tutti che c’è tensione. Ma a lui
la tensione non basta, vuole la scintilla della rivoluzione.
Allora
si alza e inizia a spiegare cosa rappresenta quella canzone francese,
che la libertà è un grande valore e che in Italia, grazie a Mussolini,
non se ne può più godere.
Non gli aveva dato
scelta insomma Caccioppoli ai militari, che magari volevano pure fare
finta di niente, che magari manco la capivano quella canzone in
francese. Si alzano, gli tappano la bocca con un fazzoletto, e se lo
portano via, insieme a Sara.
La birreria Lowenbrau
Rea nel suo libro, Mistero napoletano, dice che di quel posto non ce n’è più traccia, che è scomparso del tutto. Stava, dicono, attaccata al Grand Hotel de Londres.
L’albergo di cui a piazza Municipio potete leggere ancora, sul palazzo
che sta a sinistra guardando il mare, solamente il nome. Noi avevamo
provato a cercare quella birreria sul posto, in articoli di giornale, in
vecchie foto di quella piazza, e senza esito avevamo smesso.
Una
sera sto andando a Chiaia con la Metropolitana. Scendo alla fermata di
piazza Municipio. Poi per uscire sbaglio direzione, appena passo il
cancelletto automatico so che sto allungando.
Poi per un attimo mi ricordo di Caccioppoli e che questa era la sua zona. Allora cammino con una certa attenzione.
Devo andare verso via Toledo e passo davanti all’edificio che era del Grand Hotel de Londres.
Lungo il marciapiede c’è una porta a vetri, chiusa, con le tende aperte. Dentro c’è appena appena un po’ di luce accesa.
Mi affaccio un attimo a guardare.
Sui muri mi pare di vedere dipinte delle figure strane. Uomini col cappello tirolese, i calzoni corti, donne con il grembiule.
Fotografo un paio di volte; ingrandisco la foto nel visore: boccali di birra enormi nelle mani. Eccola la birreria Lowenbrau, non s’era mai mossa, solo che stava talmente attaccata alla porta dell’albergo che non ero ancora riuscito a vederla.
L’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi
Per salvarlo da conseguenze serie la famiglia decise di farlo dichiarare, falsamente, pazzo. A lui quest’idea non piacque mai.
Al posto del carcere, del confino, forse peggio, gli valse diversi mesi di clinica psichiatrica, prima al Leonardo Bianchi e poi a Villa Fleurent.
Andiamo a vedere cosa resta anche di quelle.
Stanno una di fronte all’altra su calata Capodichino, in alto, verso la fine.
Salgo da Piazza Carlo Terzo. Aspetto un poco alla fermata su calata Capodichino.
Vabbe’
dai, quasi quasi inizio a camminare, po’ se vere, nel caso passa un
autobus lo pigliamo al volo. La zona sembra interessante.
Dal momento in cui ho guardato l’Ospedale dei poveri del regno
dal suo lato sinistro ho avuto la sensazione istantanea, forte, di
stare al di là di una specie di confine. Sarà un confine dentro la mia
testa, ché in questa zona della città, in questa ala del palazzo, raramente sono venuto a vedere.
Le
case qui sono vecchie, gli anni ’50, anzi l’immediato dopo guerra
infinito della nostra Napoli capitale. Consumate dai bombardamenti,
appena finiti solo dagli anni ’40.
Case coi
balconi pieni di panni. Un aereo in atterraggio a Capodichino passa
nella fessura tra due palazzi. Chi sa la gente, nelle case, come lo
sente.
Sono quasi in cima, un’inferriata altissima e dietro un cartello blu: “Presidio Psichiatrico Leonardo Bianchi”, eccoci arrivati.
C’è un ingresso deserto, un viale per auto, senza nessuno dentro.
A
sinistra al di là del muro, un edificio neoclassico molto maltrattato,
nelle finestre i vetri colorati hanno mischiato tutti i colori.
Dettagli
di ferro battuto raffinati e tettoie di lamiera, panni stesi e antenne
della televisione. Più avanti delle enormi sfere ornamentali di pietra
sopra la balaustra avvolta nelle reti per non far cadere i calcinacci.
Un antico splendore in frantumi.
C’è un primo
cancello ma proseguo oltre: partiamo dalla fine. Una madonna dentro una
casetta di vetro: la luce la illumina dal fondo, forte.
C’è un secondo cancello, entro e c’è un giardino antico.
Ancora
non ho visto nessuno eccetto un uomo che parlava al cellulare. Un
colombo è il primo essere che vive. Spunta da un buco nella parete di
una finestra murata. È un colombaio, i buchi sono tanti e messi ad
uguale distanza di quadrato. Sta fermo, non si muove.
Pare tutto fermo qua dentro, l’erba è la cosa più veloce che si muove.
L’edificio
era giallo. Adesso l’intonaco è crollato. L’hanno mimato col grigio del
cemento. Era la cosa più costosa che hanno trovato.
Una finestra di legno a quadretti, elegantissima, scrostata, e a fianco un altro colombaio.
Un’altra
antenna, poi un condizionatore. Un buco nel muro con una forma a caso,
fatto in un posto a caso, serve a far entrare e uscire cavi per tutte le
utenze.
Oltre c’è scritto “Assistenza domiciliare, terapia del dolore e cure palliative”. Di metodi palliativi qua pare che ne facciano continuamente uso per risolvere tutte le cose.
Un
pino altissimo sembra ben curato. Poi c’è un albero di agrumi e un
campo che ricorda qualcosa di un orto, prima di un altro padiglione
chiuso.
Torniamo indietro. Che posto strano.
Entro nel cancello che avevo superato.
Ecco,
c’è un custode adesso. Ci chiede dove andiamo. Gli spieghiamo i motivi
per i quali siamo qui e ci dice di parlare con qualcuno.
Lo cerchiamo ma la porta è chiusa. Poi chiediamo, lo chiamano e compare.
Finalmente gli chiediamo del professor Caccioppoli. Conosce la storia.
Ha
una grazia questo posto, anzi un’eleganza, che non ci aspettavamo. La
scala principale, oltre il portone d’ingresso, ha ancora un fascino
particolare.
In cima, al centro, c’è la statua di Leonardo Bianchi, che è la cosa meglio conservata che qua dentro abbiamo visto.
Al muro un cartello separava gli uomini dalle donne, come all’ospedale dei poveri, e pure in altri terribili posti.
Ci
siamo fatti un’idea. Volevamo vedere almeno un poco cosa aveva visto il
professore quel giorno che si era dovuto fingere pazzo perché una buona
parte d’Italia aveva perso la ragione.
A dire il
vero avevo dei dubbi se venire a vedere, che fosse troppo triste questo
posto. E invece quest’architettura elegante non dà quell’impressione.
Però io l’ho visto oggi, senza dentro nessuno ed ho visto solo la parte
di fronte, quella per i visitatori. Se guardate sulla cartina questo era
un complesso molto vasto, c’era spazio chi sa per quante altre visioni.
Esco e mi fermo un attimo in un negozio sulla strada appena fuori dal cancello principale.
Faccio
due chiacchiere con il proprietario. Lui si ricorda di quando i degenti
uscivano sulla strada, gli era concesso in certi modi. Se ne ricorda i
nomi, o i soprannomi.
Villa Fleurent
Caccioppoli era stato ricoverato lì un mese, poi lo avevano trasferito in una clinica privata, che sta esattamente di fronte.
E allora questa mattinata folle continua un altro poco. Attraverso calata Capodichino e vado a Villa Fleurent che adesso è una scuola.
Della vecchia villa sembra non sia rimasto niente. Entriamo e chiediamo al bidello. Lui ci indica un altro signore che lavora qui da oltre trent’anni. Molto gentilmente ci porta in giro e prova a raccontarci. È un edificio moderno, di cemento.
Poi
oltre alcuni corridoi c’è una sala molto grande. Sulla sinistra c’è
qualche foto che testimonia di quando questa era una clinica. Proprio al
centro ci sono i posti a sedere e il palco di un piccolo teatro.
Lo
sappiamo che non è questo il luogo, lo sappiamo. Ma per un attimo ci
sembra di vedere Caccioppoli pianista che, come raccontano, quasi ogni
giorno, radunati tutti gli ospiti di quel posto, suonava al pianoforte a
coda che s’era fatto portare, cantando l’inno della Marsigliese, la rivoluzione della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità francese.
Indomabile quel signore, nipote di un anarchico famoso.
E pensavamo che questa storia fosse un buon momento raccontarvela oggi.
Nelle prime due parti di questo viaggio alla ricerca dei luoghi del professor Caccioppoli, geniale matematico, e non solo, della Napoli degli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, siamo andati a vedere la sua stanza nel dipartimento di Matematica dell’università Federico II e la sua prima casa, quella dove è nato. Oggi andiamo a cercare gli altri due appartamenti in cui ha vissuto, un ristorante da lui molto frequentato e un cinema particolare.
Viale Calascione n°16
Dopo la villa di Capodimonte, la famiglia Caccioppoli si sposta sulla collina più antica della città, a Pizzofalcone.
Lungo via Monte di Dio, andando verso il belvedere di Monte Echia, sulla destra, trovate una piccola deviazione. Sembra solo un arco in un palazzo, poi se ci guardate dentro solo un vicolo stretto, quasi un ingresso privato e un poco buio. Sul muro, proprio all’inizio, c’è affissa una poesia, si intitola ‘O duje centesime, è dedicata a questa piccola strada. Il titolo ricorda di quando da qui, al modico prezzo di due centesimi di lire, si poteva scendere a via Cappella Vecchia, cioè passavate in un minuto dal popolo del Pallonetto alla zona di Chiaia. Mo lungo quella scalinata, a monte e a valle, ci sono due cancelli: non basta più pagare, per passare dovete proprio dimostrare, chiavi alla mano, che ca ncoppe ci abitate.
Svoltiamo sotto l’arco. Nella penombra, davanti a noi, cammina una signora elegante, con un vestito tutto arancione. Ci pare allora di essere sulla strada giusta, perché il professore di eleganza ne aveva da vendere e pure di piccole stranezze nel vestire, diciamo: di sicuro era particolare.
Man mano che si va avanti la luce
aumenta. In fondo c’è un piccolo slargo, un poco affollato stamattina da
un sacco di scooter e un paio di macchine. Al centro c’è una panchina
che gira in tondo proteggendo una pianta. Poi, due metri più avanti,
l’eplosione: si apre moltissimo lo spazio e la luce, si vedono la punta
di Posillipo e il mare. A limitare lo sguardo c’è soltanto questo
cancello annanz’ e a sinistra una lunghissima balconata di un palazzo
signorile con le colonne e le statue.
Ma
ricordiamoci perché eravamo venuti, ah sì, per cercare la casa di Renato
Caccioppoli fino al matrimonio con Sara Mancuso, al Municipio del
Vomero, avvenuto il 28 giugno 1939. Qui abitava con i genitori ed il
fratello Ugo, al numero 16, eccolo.
È il palazzo
rosso che corre sul lato corto di questa piccola piazza. Passiamo il
portone altissimo: la guardiola del portiere è di quelle napoletane
rimaste cristallizzate nel tempo; nel ‘700 poteva pure essere uguale. A
volte penso che i portieri dei palazzi di questa città siano dei
soggetti molto particolari. Sanno molte cose di chi ci abita, stanno lì
fermi dentro quelle piccole vetrine e vedono l’umanità che si muove;
sembra di vedere Napoli: conosce tutto di noi, osserva senza parlare,
ferma, mentre ci vede agitare.
Mi affaccio nel vano ma il portiere non si vede, allora chiamo.
Dopo pochissimo compare: buongiorno,
sto cercando la casa dove abitava Caccioppoli il famoso matematico
napoletano. So che il numero civico è questo, mi potrebbe dire più
esattamente dove?
Sì, abitava qui. La casa è quella al primo piano, dall’esterno vedete tutta la fila di balconi.
Allora esco di nuovo per fotografare.
Metà
dei balconi sono in rosso e metà stanno nell’edificio a fianco, vedete,
quello con i muri gialli, ma è la stessa abitazione.
Poi
torniamo dentro e il portiere mi mostra che anche dal cortile interno, i
balconi del primo piano, proprio sopra la guardiola, sono tutti balconi
da cui da ragazzo Caccioppoli si poteva affacciare. Questa casa sta in
un vicolo antico, sottile, in parte oscuro, però guarda lontano, è
aperto verso l’orizzonte, il largo, le possibilità che portano il cielo e
il profondo del mare. Forse, a furia di vedersi tutti i giorni, hanno
cominciato ad assomigliarsi lei e il professore, napoletano, matematico
dall’intuizione aperta e pianista del profondo romantico.
La scalinata verso Chiaia
Mentre
me ne vado, poi, prima di andare verso Monte di Dio, torno un attimo a
rivedere il panorama dall’alto della scala chiusa a chiave. Scatto una
foto e sono solo, tolgo l’occhio dalla macchina fotografica e ho a
fianco un giovane. Ha le chiavi del cancello, apre. È troppo
un’occasione; senza neppure pensare gli chiedo se posso andare insieme a
lui a fare questo piccolo viaggio. Questa scala non è lunghissima però è
la connessione tra due parti molto diverse dello stesso corpo: la
collina un poco isolata, dove è nata la città vecchia, Palepolis, e il quartiere molto animato e chic dei negozi di Chiaia.
Molto gentilmente mi invita a passare. È fatta di due o tre rampe, lunghe. La prima alla luce, coi gradini di marmo, scoperta, vista mare; poi diventa più semplice, di cemento grigio e scende tra il verde delle piante. Mentre guardo e fotografo ci mettiamo a parlare. Gli racconto la storia della mia venuta qui di stamattina e…”sì, sì quella al primo piano, dove abitava Caccioppoli, quella è casa mia”.
Che
combinazione: il cancello era chiuso e non c’era nessuno, poi appare un
ragazzo che abita esattamente in quella casa, ha l’età che aveva
Caccioppoli quando ci abitava, e ci invita a passare.
Tre minuti e la scalinata finisce su vico Santa Maria a Cappella Vecchia, siamo nel quartiere Chiaia, pochi metri e c’è piazza dei Martiri.
Il ristorante Umberto
Stamattina
siamo fortunati perché la seconda casa che stiamo cercando oggi sta
proprio qua vicino, in un palazzo famosissimo di Napoli, a via Chiaia,
palazzo Cellamare. Però m’è venuto in mente che da queste parti
dev’esserci pure uno dei ristoranti più frequentati dal professore, si
chiamava Umberto ed esiste ancora. Non mi ricordo l’indirizzo
preciso ma l’insegna, allora vado in giro a memoria per i vicoletti; ed
eccolo qui, in via Alabardieri.
Umberto, ristorante pizzeria dal 1916.
Nella
parete esterna del locale c’è uno schermo incassato dietro un vetro,
allora mi fermo un attimo a guardare. Dopo pochi secondi, nel video,
compare proprio lui, Caccioppoli, il professore. Sta in una foto molto
nota a chi lo cerca: lui al centro di un tavolo lungo, e intorno altre
quattro persone, amici, professori, e don Savino Coronato, il prete suo
assistente prediletto, col quale oltre che all’università e al
ristorante, andavano, due appassionati di musica, ad ascoltare i
concerti al teatro S. Carlo.
Allora entro e chiedo.
Mi accoglie molto cordialmente Massimo, l’erede della tradizione familiare.
Io
all’epoca ero troppo piccolo, di persona non l’ho mai incontrato, però
mi ricordo di quello che mi raccontavano mio zio e mio padre.
Mi
dicevano che a volte veniva in compagnia ma anche molto spesso, a
pranzo, da solo. In quelle occasioni era molto riservato, un po’ schivo,
silenzioso, e scriveva molto. I due tavoli a cui più frequentemente
sedeva erano questi, adesso te li faccio vedere.
Sono, andando verso l’interno del locale, il primo, a destra, piccolo, e poi proprio in fondo, un tavolo lungo, per tante persone. È esattamente quello della foto che sta nel video fuori. In quella foto, alle spalle di Caccioppoli, si vede uno specchio grande, con un’enorme réclame della birra Peroni. Quel tavolo lungo oggi mette molta allegria; sopra ci sono piatti colorati e dietro, al posto dello specchio, c’è un quadro con dentro ballerini con gli stessi colori. Anche se il locale, ci dice Massimo, è un po’ cambiato, il pavimento è quello degli anni ’50, fatto con i pezzetti di marmo di tanti colori. Poi continua a ricordare: mi dicevano che chiedeva pietanze semplici, o la pizza; non era un grande mangione.
Gli chiedo se può apparecchiare il tavolo dove Caccioppoli stava quando era da solo. Lui apparecchia con una certa cura, inizialmente per due. Fotografo, poi gli chiedo di lasciare un unico piatto.
Riguardando le due foto sembra di vedere il passaggio da quando magari c’era venuto con la moglie Sara Mancuso e poi, quando lei lo aveva lasciato, invece era da solo.
Lo ringrazio delle spiegazioni e dei ricordi ed esco. In pochi metri abbiamo trovato un sacco di pezzi della Napoli di quegli anni e di quel signore.
Il cinema Alhambra
A
trecento metri da qui c’è un altro posto che ha visto spesso
protagonista il professore. In via Nisco, una traversa di via dei Mille,
c’era un cinema, si chiamava Alhambra. Caccioppoli, insieme ad altri, aveva fondato il Circolo del Cinema, e una volta alla settimana si tenevano le proiezioni.
Ermanno Rea ci fa ancora una volta da guida, e dice: il
luogo dove ogni domenica mattina centinaia di napoletani andavano a
compiere una specie di rito purificatorio, tra discussioni e dibattiti.
[…] Le proiezioni venivano presentate generalmente da Renato Caccioppoli
[…] d’una arguzia mai fine a se stessa, la quale ci accompagnava per
mano in fondo alla malinconica comicità di Buster Keaton oppure in fondo
agli occhi di ghiaccio di Ivan il Terribile, ma sempre alla ricerca
soprattutto di noi stessi.
Andiamo a cercare
anche questo luogo, e però vi dobbiamo dire che non siamo riusciti
subito a trovarlo, ci sono voluti alcuni giorni.
Abbiamo
chiesto un po’ ai negozianti della zona. Qualcuno si ricordava del
cinema, ma non esattamente il portone. Poi dentro ad un articolo
finalmente lo abbiamo trovato. Siamo andati a vedere se poteva davvero
essere, se quel palazzo avesse davvero tutto lo spazio per ospitare
tante persone. Siamo entrati ed effettivamente il locale è molto grande,
largo e profondo. Mentre ci camminavamo dentro cercavamo di immaginare
come fosse in quegli anni, dove fosse lo schermo, se per caso si
sentisse ancora qualche eco delle voci di quelle persone. Sta ancora lì,
in via Nisco, potete andare a vederlo anche voi, è facilissimo
trovarlo, solo ricordatevi che dovete cercare non più la scritta Alhambra ma il marchio di Upim.
Palazzo Cellamare
Mo andiamo a cercare l’ultimo pezzetto di storia di oggi: la sua ultima casa, a palazzo Cellamare.
A via Chiaia, salendo, sopra il cinema Metropolitan,
vedete un palazzo antico, rosa scambiato. La parte inferiore sembra una
fortezza, un castello; quella oltre il primo piano invece è di un
palazzo raffinato, con i merli ornamentali, un po’ tarlato.
È uno dei palazzi più storici di questa città. La parte fortezza serviva per difendersi dagli attacchi dei corsari (si trovava fuori della città, non lontano dalla spiaggia, la chiaia, dal mare) e dei napoletani durante la rivoluzione di Masaniello e durante la peste del 1656. Trovate scritto dappertutto che ha ospitato Torquato Tasso, Giambattista Basile, Goethe, Giacomo Casanova e Caravaggio.
Nobiltà
decaduta, eleganza consumata, e pensando questo mi pare identico allo
stile di Caccioppoli. Anche lui indossava camicie cucite su misura,
soprabito di grande fattura, ma ben stropicciati, troppo utilizzati,
senza curarsi di quello che possono pensare. La cosa più interessante è
che in molti poi lo imitavano, se è vero quello che vi stiamo per dire.
Caccioppoli passava quasi tutte le sere alla redazione napoletana del l’Unità,
che si trovava a fianco alla Galleria Umberto, all’Angiporto Galleria,
oggi piazzetta Matilde Serao, ed evidentemente parecchi redattori di
quel giornale subivano il suo fascino perché ad un certo punto pure i
vertici comunisti ebbero da ridire. Franco Prattico, ex giornalista de l’Unità ci racconta questo:
“Vestivamo
alla Caccioppoli: camicia aperta, maglietta dolcevita. Finché persino
un tipo anticonformista come Giorgio Amendola non si ritenne in dovere
di intervenire: fummo obbligati a mettere la cravatta”.
Rena’ ma tu si’ marxista?
gli chiedevano. E lui non rispondeva mai. Forse qualche buon motivo per
rimanere sempre indipendente, vicinissimo, dentro, ma con la forza dei
propri pensieri, non c’era bisogno di raccontarlo a parole.
Ma
torniamo a palazzo Cellamare. Se trovate il primo cancello aperto,
quello che lascia accedere a una curva in salita, riuscite ad arrivare a
quell’altro varco, monumentale. Stamattina ci arrivo, inizio a
guardare, scatto una foto. Scattando guardo in alto e vedo, a fianco al
portale, un piccolo cartello, di plastica, con una freccia rivolta verso
destra e la scritta: Portiere. E mentre la leggo mi affiora,
comm’è piccirillo sto cartello, un piccolo presentimento nero. Giro lo
sguardo seguendo la freccia e c’è una signora fuori ad una porta, ad una
decina di metri, che mi guarda aspettando.
Buongiorno signora, è lei la portiera?
Sì, buongiorno, sono io.
Scrivo
per un giornale napoletano, sto cercando i luoghi dove ha vissuto il
famoso matematico Caccioppoli. So che abitava qui, oltre il cancello, in
una casa a piano terra oltre il cortile di sinistra del palazzo, non è
che si potrebbe entrare?
Credo di no.
Ah. E mo che dico? Neppure un attimo? solo per fotografare, fino ad un certo punto, non nell’abitazione?
Direi di no.
Non
è che per caso mi potrebbe far parlare con chi abita in quella casa,
per citofono, oppure le lascio il mio recapito. Io so che lui abitava in
una casa che affaccia nel cortile che si trova entrando sulla sinistra,
ma non conosco l’interno.
Non credo.
Vabbuò, difesa impenetrabile, portiere fortissimo, tre a zero; però, siete testimoni, c’abbiamo provato a farvi entrare. Nel frattempo ho capito una cosa: mai avere presentimenti perché poi si avverano.
Vabbè,
non ci hanno fatto entrare però di questo posto teniamo qualche
fotografia di alcuni mesi fa e questo ricordo scritto da Ermanno Rea
sempre dentro Mistero napoletano, il suo libro bellissimo, di un giorno particolare.
Era il pomeriggio del 13 giugno 1940, il giorno in cui Parigi, sotto la pressione dei nazisti, cade:
“[…] C’erano, inoltre, tre o quattro imprecisati amici, e c’era Mario Palermo,
una delle più solari figure di galantuomo e di antifascista della
Napoli di quegli anni. Piangeva a dirotto, l’allampanato avvocato,
piangeva senza ritegno davanti a tutti, che lo guardavano a loro volta
trattenendo il respiro, prigionieri di un’emozione di cui riusciva
difficile individuare gli stessi confini. Era a Castelcapuano, in
Tribunale, quando aveva appreso la notizia: si era messo subito a
correre, dirigendo istintivamente i passi in direzione di palazzo
Cellammare: in quale altro posto avrebbe potuto piangere Parigi se non
là, accanto a Renato? […] a un certo punto Renato Caccioppoli
alzò in maniera imprevista il coperchio del pianoforte e, in piedi, con
la sola mano destra, accennò al motivo della Marsigliese: pochissime
note soltanto, ma senza ritmo, sfibrate, simili a un flebile sospiro”.
Ma
di riunioni in questa stessa casa in momenti storici importanti ci
racconta anche Maurizio Valenzi, comunista, senatore, pittore, sindaco
di Napoli.
L’11 giugno 1946, erano passati nove giorni dall’esito del “referendum
sulla scelta “Monarchia o Repubblica”[…] (che) aveva visto a Napoli […]
la vittoria schiacciante dei monarchici. Perciò quando in via Medina
[…] la Federazione comunista issò le bandiere rossa e tricolore, la
rabbia dei manifestanti monarchici esplose in un vero e proprio assalto a
mano armata. Dopo ore di fuoco (che fecero 7 morti ed un centinaio di
feriti) la polizia di Romita intervenne con le armi e mise fine alla
sommossa […] Sedato il tumulto, a notte inoltrata, assieme a Mario
Palermo ed Emilio Sereni ci recammo a casa di Renato ove si erano dati
appuntamento per un incontro urgente diversi uomini politici. Caccioppoli […] aveva partecipato attivamente alle lotte per la Repubblica (teneva comizi nelle vie della città, ndr). Perciò la scelta della sua casa per quell’incontro non era casuale. Così lo conobbi.
Poi
non dite che era solo un matematico, o che era semplicemente un
eccentrico che andava in giro con un gallo al guinzaglio, perché lo
vedete che anima grande forse è una definizione molto migliore.
Ermanno Rea: “Il caso Piegari”, ed. Feltrinelli, 2014.
Romano Gatto, Laura Toti Rigatelli: “Renato Caccioppoli. Tra mito e storia”, ed. Morgana, 2009.
“Renato Caccioppoli: hanno detto di lui”, a
cura di Francesco Chiacchio, Flavia Giannetti, Carlo Nitsch. Università
degli studi di Napoli Federico II, Accademia Pontaniana, COINOR, 2009
“Caccioppoli intimo”, nota di Luciano Carbone e Maria Talamo. Rend. Acc. Sc. fis. mat. Napoli Vol. LXXVII, (2010) pp. 63-108.
Tullio Saldaneri: “Il Gruppo Gramsci”, ed. Homo Scrivens, 2015.
Esther Basile: “Il giacobino di Monte di Dio”, ed. Homo Scrivens, 2017.
Antonio Fiore: “Quei «vecchi cinema Paradiso»: a Chiaia valevano l’abito da sera”, Corriere del Mezzogiorno, 15 aprile 2013.
Maurizio Valenzi: “Confesso che mi sono divertito”, ed. Tullio Pironti, 2007.
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