INCONTRI – Vera Maone, una fotografa molto attenta alle cose umane

4 febbraio 2020

Ogni tanto mi capita, andando in giro per questa città, una specie di colpo di fulmine.

M’è successo di nuovo qualche sera fa. Allo Spazio NEA, in via Costantinopoli, c’era un incontro intitolato: “Fotografi sulla fotografia”.

Arrivo e la sala è piena. In piedi, sul fondo, dal lato dei relatori, c’è una signora dai capelli bianchi, gli occhiali, vestita di grigio, con intorno al collo un foulard azzurro.

Dopo poco l’intervistatore inizia a porle le domande: si apre un mondo di ricordi, e soprattutto di cose umane. Alla fine della serata penso che mi piacerebbe incontrarla questa signora, non so nemmeno esattamente il motivo, credo sia la sua energia forte, positiva.

E allora eccoci qui stamattina, a cercare, parlando con lei, di esplorare oltre.

L’appuntamento è in un bar vicino alla funicolare centrale. Poco prima mi telefona dicendomi che sta un po’ in ritardo, mi toccherà aspettare. Ma arriva dopo pochissimi minuti, scende al volo dalla macchina: mi sono fatta dare un passaggio da mio marito per fare prima. Poi si avvia avanti, apre la porta del bar e saluta, tutti quanti. Deve essere un posto per lei familiare.

Ci sediamo e iniziamo a chiacchierare. Non lo so neppure io ancora esattamente che direzione far prendere a questa conversazione, perché intuisco che le direzioni potrebbero essere molte: lei ha qualche ricordo diretto del professor Caccioppoli, il matematico napoletano famoso che mi affascina molto (ve ne avevamo parlato su questo sito in questa serie); è una fotografa, e pure lì in quell’ambiente conosce tutti, poi è proprio una persona che ha condotto delle “battaglie” in prima persona nel sociale. Allora invece di prendere una direzione, sto fermo all’incrocio, aspetto, mentre iniziamo a parlare.

Foto di Vera Maone, da: “Dell’amicizia”

La prima cosa che le dico è che mi era piaciuta molto la frase di Pablo Picasso che aveva citato l’altra sera, in quell’altro incontro: “ci vuole molto tempo per diventare giovani”, a proposito del fatto che lei a fotografare aveva iniziato dopo la pensione.

Ha l’occhio allenato della professoressa secondo me questa signora. Quando trascorri anni vedendoti passare davanti dietro i banchi intere generazioni, centinaia e centinaia di piccole persone, per ore e ore, secondo me sei più allenato di uno psicanalista a capire al volo che tipo di essere umano hai di fronte. È lei che mi chiede quanti anni ho, io non glielo chiedo direttamente ma me lo fa sapere a un certo punto della conversazione, lo trovate più avanti.

Poi mi inizia a parlare degli anni da insegnante.

Erano gli anni in cui si era fatta la riforma della scuola media. Avevano eliminato la distinzione tra “scuola di avviamento al lavoro” e quella con la quale poi invece si poteva accedere a tutti i tipi di studi superiori, avevano creato la scuola media unica. Però molti insegnanti continuavano nella loro testa a ragionare con i vecchi criteri, non consideravano che adesso la platea era diversa, erano arrivati anche molti alunni da famiglie di condizioni economiche più modeste e bisognava tenere conto delle loro esigenze specifiche e del loro livello di istruzione. Insomma era un momento molto interessante per stare nella scuola e io ci volevo essere.

Ecco, lo vedete? Come fa uno mo, ditemelo voi, a sentire una frase come questa, ripetuta ogni volta perché evidentemente è un concetto centrale, a non farsi folgorare?

Ho lavorato bene in quegli anni. Insegnavo a Mugnano e per alcuni anni non ho chiesto il trasferimento, mi volevo radicare. Avevo delle classi con delle ragazze molto agguerrite. Sollecitavo la loro capacità critica, ma stando anche attenta a non metterle contro i loro genitori. Non potevano uscire… la vita di quei tempi nei piccoli centri.

Foto di Vera Maone, da: “Coppie”

Una volta successe una cosa bella: io cercavo, quando potevo, di portare i miei studenti fuori, a conoscere il loro stesso paese. Per farlo usavo il mio giorno libero, però il preside, che mi teneva qua, e si porta per un momento l’indice alla gola, ogni volta in quel giorno mi metteva supplenza per cinque ore: io le facevo e poi la settimana successiva chiedevo di nuovo; prima o poi il permesso me lo doveva dare.

Con me non ce la faceva perché io invece di arrabbiarmi ero impeccabile. Tutti gli aspetti, anche formali, i registri, la programmazione, io ci credevo proprio che dovesse essere fatto tutto in maniera precisa, e che fosse utile che rimanesse traccia scritta di quello che si era fatto.

Be’, insomma, un giorno le ragazze (chi sa perché parla solo al femminile? Ho provato a chiederle se aveva classi solo femminili ma o non mi ha sentito o non voleva sentire) arrivano a scuola e non trovano i banchi. La prima cosa che pensano è di andare dal sindaco. Io gli consiglio di andare prima dal preside e magari da lui poi farsi accompagnare. Il preside le caccia, e loro dal sindaco ci vanno, e poi anche alle sede del Partito Comunista Italiano. Lì incontrano un giovane attivista che le appoggia. Anzi nelle successive elezioni imposta tutta la sua campagna elettorale, partendo da quel fatto, sulle magagne che c’erano sotto: l’edificio pubblico per la scuola era in costruzione, con i lavori fermi, e il Comune pagava il fitto per tenere scuola in un edificio proprietà di un assessore. Morale della favola: diventa il più giovane sindaco di Mugnano.

L’associazione culturale

Ma di battaglie e di costruzione di cose, Vera Maone ne ha fatte molte altre. A Bagnoli, ai tempi di Bassolino sindaco, fonda, insieme ad altri, un’associazione: “Laboratorio Città Nuova”.

L’idea era quella di integrare il lavoro delle istituzioni, mettere altri tasselli dove il Comune non riusciva ad arrivare.

Costruimmo una biblioteca pubblica, esiste ancora, si chiama: “Giancarlo Mazzacurati”. Facemmo le cose per bene, almeno spero. Rossana Rossanda avrebbe voluto darci tutti i suoi libri, non avevamo spazio sufficiente per l’intera biblioteca ma per una parte sì, e c’è ancora il fondo intitolato a lei.

A lavorarci eravamo tutti volontari. Avevamo anche dei giovani che ci aiutavano; a qualcuno facemmo fare corsi per bibliotecari. Uno ci fece tutta la catalogazione per bene, mise anche on line i riferimenti di tutti i volumi; tanto che una volta ci scrisse uno studente da Firenze: aveva trovato nella nostra biblioteca un libro che non trovava altrove. Gli spedimmo, gratis, le fotocopie.

Poi quando la Provincia chiuse il suo sito, tutte le pagine internet della nostra sezione, che erano incorporate in quello, sono andate perdute: tanto lavoro buttato via.

L’idea che ci guidava era di mettere in piedi e radicare progetti virtuosi e poi di vedere se poteva aiutarci nella gestione lo stesso Comune, perché da soli, col solo volontariato, non avremmo potuto garantirne per sempre l’amministrazione. Ci mandarono alcuni Lavoratori Socialmente Utili, ma non intendendosi loro di libri la cosa è un po’ caduta. Hanno rifatto pure tutta la catalogazione, con altri criteri.

Devo dire, dopo un po’ di anni ho smesso di occuparmene: non puoi passare tutta la vita a combattere contro i mulini a vento.

Ci sarà un vento, dalle nostre parti, particolarmente intenso.

Comunque in quella biblioteca di cose belle ne sono successe.

Una volta venne una signora, riportava un libro che le era piaciuto, era: “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”. “Però”, mi disse, (c’ero io lì quel giorno): “sto cercando un altro libro, che mi ricordo, alle scuole medie, la professoressa ce ne aveva letto una parte: parlava di un uomo innamorato di una certa Laura che però poi muore”.

Sono cose dell’altro mondo, capisci? Cercava il “Canzoniere” di Petrarca, le era rimasta scolpita per tanti anni nella memoria quella lettura di alcuni brani ascoltata a scuola.

Vera ricorda di molti anni fa che un’altra signora si era appassionata a un libro bello, ma lei stessa non ha dimenticato quella storia.

Nella stessa biblioteca organizzavamo molti incontri. Renata Pepicelli fece da noi interviste alle donne che lavoravano all’Italsider per un programma di Radio Tre Rai.

Foto di Vera Maone, da: “Italsider”

Vera Maone è figlia di Francesco Maone, nato a Savelli, in provincia di Crotone, dirigente della Federazione napoletana del PCI di allora. Mio padre era professore di italiano e latino al Liceo Cuoco, nel partito aveva scelto come campo d’azione le lotte contadine nella provincia di Matera. All’epoca i comunisti venivano discriminati già solo per esserlo: mio padre, per esempio, non lo nominavano mai a fine anno per gli esami di Stato.

Morì giovane, nel ’52, durante un comizio ebbe una emorragia cerebrale. Rimanemmo in difficoltà: cinque figli piccoli e mia madre.

Mi ricordo che ci portava a casa di altre persone del Partito. Imparai a casa di Maurizio Valenzi (l’ex sindaco di Napoli) a cantare in francese l’inno dell’Internazionale.

Gli anni ’50

E allora le chiedo se si ricorda di alcuni dei personaggi di quel mondo.

Il Professor Caccioppoli me lo ricordo bene fisicamente, come se fosse ora. Non l’ho mai conosciuto direttamente ma lo vedevo spesso: per i canoni borghesi dell’epoca si sarebbe definito “trasandato”. Un uomo dinoccolato, magro, col ciuffo. Pure Francesca Spada ho conosciuto, e Renzo Lapiccirella, suo marito, ancora meglio perché dopo la morte di Francesca sposò un’amica di mio marito.

Francesca era una donna molto affascinante, fuori regola, erano tutti innamorati di lei, pure Ermanno Rea.

Valenzi, Caccioppoli, Lapiccirella, Francesca Spada: in pratica questa signora è come se avesse vissuto, in età da adolescente, dentro “Mistero napoletano”, il bellissimo libro di Ermanno Rea sulla Napoli degli anni ’50.

Ma Caccioppoli, visto che te lo ricordi così bene, ma assomigliava davvero a com’è nel film di Martone (“Morte di un matematico napoletano”, ndr) sui suoi ultimi giorni? È una curiosità che tengo da un sacco di tempo. No, lui era magro, proprio per niente.

Poi prende spunto da questi ricordi per una considerazione generale. Devi sapere che succede una cosa rispetto a quei tempi: il tipo di gente che animava quell’epoca, soprattutto a sinistra, la generazione che è venuta dopo, secondo me l’ha deformata. L’atmosfera, il clima, i valori e anche la figura morale delle persone che venivano fuori dalla guerra, dalla Resistenza, che spesso erano entrate nel PCI, sono completamente diversi da quelli che vengono rappresentati oggi, assolutamente. Persone di integrità morale incredibile, dal totale disinteresse personale… non esisteva l’idea di fare carriera politica: esisteva la scelta ideale di lavorare per la giustizia sociale, per migliorare la società. Per esempio Renzo Lapiccirella, che di formazione era uno psichiatra, si è dedicato anima e corpo al partito comunista. Anche mio padre. Non si sapeva ancora nulla di quello che faceva Stalin in Unione sovietica. L’impegno era genuino ed encomiabile.

Gli inizi da fotografa

Le domande sulla fotografia, davanti a tutti questi ricordi interessanti, sono rimaste sullo sfondo. Però adesso magari provo a fargliele.

L’altra sera, a “Fotografi per la fotografia”, quando hai proiettato le immagini del tuo primo lavoro fotografico, sono rimasto colpito da tutte queste foto aeree. Sembravano fatte col drone, se non fosse che allora neppure esisteva. Mi hanno incuriosito, era una prospettiva raramente vista a Napoli, dall’alto.

Lo sai? La stessa cosa me la disse Mimmo Jodice quando le vide.

Ma non lo avevo pensato di proposito quando le scattai. Ero più inconsapevole. Vedevo soltanto che l’inquadratura che avevo in mente non riuscivo ad ottenerla dal livello del suolo.

Allora citofonavo alle persone, chiedevo se potevo entrare per scattare una foto. Poi c’è da dire che una donna con la macchina fotografica non desta sospetti e allora mi aprivano e mi facevano salire. Così sono venute fuori ad esempio le foto di piazza del Gesù e di piazza Dante.

C’era anche un motivo pratico, avevo un’attrezzatura costosa: a fotografare per strada, a quei tempi, mi sentivo meno sicura.

Ma tu a fotografare a che età hai iniziato? Nell’ ’88 o ’89, sono del ’36, fatti il conto.

Questa signora ha inaugurato una nuova stagione a cinquantadue o cinquantatré anni suonati. Già per questo mi pare un bellissimo esempio di una che dentro la testa non ha barriere inutili.

Avevo iniziato a studiare un po’ la tecnica, però avevo un linguaggio elementare.

Non ho capito, in che senso?

Sai, la sensazione era che avevo un bagaglio di umanità, di esperienze. Sono stata una che ha cercato sempre di investire molto nelle amicizie, nei rapporti umani; non mi arrendevo, mi muovevo, curavo i rapporti, andavo e vado a trovare le persone. Insomma era come se avessi molte cose da raccontare con la fotografia, però possedevo un linguaggio da scuola elementare.

Quello che mi ha aiutato molto sono stati ad esempio la mia amica Cecilia Battimelli e poi Mimmo Jodice che all’epoca insegnava fotografia all’Accademia di Belle Arti. Io chiesi un anno di fare l’uditrice. Mi mettevo all’ultimo banco e non portavo mai a far vedere le mie foto al professore perché non volevo rubare tempo agli studenti ufficiali.

Jodice proiettava le foto di grandi maestri e le “leggeva”, le interpretava; è da quello, credo, che ho imparato molto.

All’inizio nelle mie foto ci volevo mettere tutto, poi lì ho capito che invece bisogna togliere tutto e lasciare solo l’essenziale.

Foto di Vera Maone, da: “Coppie”

L’altra sera dicevi che tra i fotografi che hai guardato con più attenzione c’era Cartier-Bresson. In una sua intervista lui cita “Lo zen e l’arte del tiro con l’arco”, il libro di un professore di filosofia tedesco che impara, dopo anni di pratica, la visione buddhista del Giappone.

Lo zen è una cosa molto interessante. Una volta sono stata in Giappone: seguivo mio marito quando andava alle conferenze per lavoro, così sono riuscita a viaggiare molto. Ho visto lì un giardino zen e devo dire che è un’esperienza. Poi un giorno mi invitarono ad assistere alla cerimonia del tè.

C’erano alcune signore, e la maestra che insegnava loro.

Ognuna condusse dall’inizio alla fine tutta la cerimonia. Io osservavo. Poi per ultima la maestra la fa di nuovo e il tè lo offre a me.

Prima di andare credevo che fosse una cerimonia con un senso profondo di rituale, poi, osservando, mi parve che cercavano l’essenzialità in ogni gesto. Non uno di più, non uno di meno. Entravano facendo scorrere con la mano destra la porta di carta, la richiudevano dietro di loro con la sinistra senza girarsi.

Sembrava un cammino di perfezionamento interiore, una sorta di esercizio spirituale, completamente diverso da una cosa formale. Perché la disciplina che richiedeva la cerimonia era un modo per raggiungere un obiettivo prima di tutto interno.

Alla fine ho espresso alla maestra questa mia idea. Mi disse: “Hai capito, sei la prima occidentale che me lo dice”. Non avevo strumenti, non avevo studiato, però c’avevo azzeccato.

Sembra la stessa storia del linguaggio elementare e della sensibilità umana sottile.

Se vuoi, quel tipo di percorso dello zen, lo puoi fare in vari campi: il tè, il tiro con l’arco, anche forse con la fotografia: raggiungere l’essenziale.

Una volta venne a Napoli quel famoso monaco, come si chiama? Thich Nhat Hanh, sì, lui. Incontrava le scuole e io ci andai. Mi ricordo che prima c’erano delle monache che facevano una specie di litania. Mi dissi: vabbè sono venuta fino a qui, a questo punto partecipo, e pure io cantai. Mi accorsi che piano piano la mia mente si svuotava dai pensieri. Fu un’esperienza interessante devo dire.

Siamo stati quasi due ore dentro questo bar, ce ne siamo praticamente impossessati. Mentre parlavamo è entrata anche una coppia di persone: la salutano, “Ah, eccoti, da un po’ di tempo ci domandavamo dove fossi”. Saranno assidui frequentatori dello stesso bar tutti quanti. Poi lei dice: Loro due sono tra quelli che venivano ai “Lunedì della fotografia”.

Perché questa signora di cose ne ha fatte tante: è stata nel direttivo del “Circolo del Cinema“, quello che anni prima aveva fondato Renato Caccioppoli, e poi si inventò (a metà anni ’90) questi lunedì in cui invitava a parlare i fotografi napoletani. Ecco perché ancora adesso li conosco tutti: sono bravi, bravissimi, forse l’unico limite è che sono tutti mondi tra loro separati. Io avrei voluto fare a Napoli una piccola Magnum (l’agenzia fotografica più famosa del mondo, ndr) ma con loro non mi è stato possibile.

Adesso alle conferenze di fotografia a Napoli invece intervistano lei.

Ha pubblicato diversi libri fotografici, tre sono confluiti in uno che si intitola: ”Trilogia degli affetti”. Sono: “Madri Figlie”, “Dell’amicizia”, “Coppie”, edizioni Intra Moenia.

Ne aveva mostrato parecchie foto quella sera in cui l’ho incontrata per la prima volta, e mi avevano colpito molto. Sapete perché? Perché come le disse un suo amico fotografo, Antonio Biasiucci, quella volta che doveva consegnare le foto scattate all’Italsider: “Stai tranquilla, non hai fatto foto spettacolari, e c’è un filo conduttore e uno stile”. Capite? “Brava: non hai fatto foto spettacolari”.

Le sue foto le trovate sul suo sito, io ne ho scelte alcune da “Madri Figlie”. Lei aveva detto: “Credo ci siano diverse fasi: c’è la nascita della bambina, poi l’adolescenza, quando diventano piccole donne che somigliano molto alle madri, poi c’è il tempo in cui le figlie vanno a trovare le madri ma hanno sempre meno da dirsi, e alla fine sono le figlie che si occupano delle madri anziane”. L’ho trascritto ma guardatelo dentro le sue foto: lì si vede proprio.

Un’ultimissima cosa: quando ci alziamo dal tavolino del bar, con la coda dell’occhio vedo che lei prende le tazzine e le porge al barista dall’altra parte del bancone.

Intervista a Vera Maone, di Francesco Paolo Busco (foto di Vera Maone)

(tutti i diritti riservati)

INCONTRI – Storie dell’altro Mondo (2/2): i racconti della nostra napoletana a Cuba negli anni di Fidel Castro

13 aprile 2019

Stamattina ritorniamo dalla nostra “corrispondente da Cuba”, Alessandra Riccio (il cui primo racconto trovate in questo articolo), per sentire da lei un altro pezzetto della vita di ogni giorno nella rivoluzione permanente di Cuba.

Quando arrivo la macchinetta del caffè sta sul fornello pronta. Dopo due minuti che parliamo accende sotto. Ormai c’è un piccolo patto non scritto, lei fa il caffè e io porto dei piccoli dolci.

La volta scorsa, forse ve lo ricordate, le avevo posto una sola domanda. Poi ero rimasto quasi sempre in silenzio perché il flusso delle parole aveva un respiro perfetto.

Oggi inizia con una precisazione. Poi da lì tutta una sequenza, in fila, di ricordi.

Una precisazione

La scorsa volta hai scritto che io a Cuba sono stata sei anni, ma ti riferivi solo agli anni come corrispondente dell’Unità.

Se però consideri che da quel primo giorno che ti ho raccontato, nel ’76, all’ ’87, quando sono andata come corrispondente, io a Cuba c’ero tornata sempre, vedi che gli anni sono sedici, molti più di sei.

Dovete capire che lei è una ex professoressa, quindi il piglio di precisione e di “stai attento, controlla sempre ciò che dici, altrimenti ti boccio” non si può mai perdere completamente, secondo me se ce ne facciamo una ragione subito è meglio per tutti.

Quel primo soggiorno come borsista per me è stato fondamentale perché la maggior parte dei contatti, delle amicizie, li ho stretti allora.

Poi, tornando come corrispondente del giornale mi toccava invece andare di più a chiedere per vie ufficiali, per esempio ai Ministeri. Cosa che in realtà, a pensarci, ho fatto poco: non mi è mai piaciuto né ci ho contato molto.

Nel frattempo invece magari alcuni intellettuali che avevo conosciuto nel ’76 avevano ottenuto cariche ufficiali e quindi avevo un contatto già stretto. Ma non per tutti è stato così: alcuni per esempio nell’87, quando sono tornata, erano un po’ maltrattati o stavano riabilitandosi pian piano.

Perché la storia degli intellettuali cubani è sempre stata piuttosto complessa. Sia per i rapporti tra loro e le istituzioni, sia perché alcuni di loro molto presto hanno cominciato a turbarsi dopo che si erano illusi di diventare molto famosi. Perché dobbiamo ricordarci che nei primi anni soprattutto, quella rivoluzione è stata il fenomeno mediatico più brillante del mondo.

La cosa era già affascinante di per sé, poi fai conto che c’era tutta una schiera di uomini bellissimi, virili, a fare da protagonisti: Che Guevara, Fidel ma anche tanti altri.

Hanno addirittura influenzato la moda nel mondo: quello stile militaresco, che prima di loro era detestato, all’improvviso diventa la moda.

Se uno pensa che Cuba, come gli Stati Uniti, praticamente la seconda guerra mondiale non l’ha sofferta; cioè mentre noi stavamo con le pezze, a Cuba c’era la televisione, le macchinone americane, i frigoriferi a due porte. e che quindi la moda maschile a Cuba prima della rivoluzione prevedeva i capelli impomatati ed il baffetto, insomma l’eleganza classica anni ’40, si può capire come quella rivoluzione cambia tutto da un giorno all’altro anche a livello estetico, e lo esportano in buona parte del globo.

Lo sai, una volta, in Italia l’ho vista una di quelle macchinone, una Buick. Mastodontica, blu elettrico, enorme. Solo a giudicare dal peso, dalle dimensioni del motore e dal rombo, penso che non facesse più di tre chilometri con un litro di petrolio.

Eh si, pure io quando stavo lì avevo una macchina strana: un ex ambasciatore se la toglieva e io la comprai, era una Ford Mercury, lo “squalo bianco”.

L’ho tenuta poco, poi ho comprato una Lada perché là il problema è che i pezzi di ricambio se sono Lada li trovi, altrimenti devi andare fino in Messico a comprarli.

E ma allora tutte quelle automobili americane anni ’50 che ancora si vedono a Cuba come fanno? Mah, nella maggior parte dei casi quello che vedi da fuori è americano, ma dentro sono qualunque cosa.

L’automobile di lusso con l’autista

A proposito di automobili mi fai venire in mente una cosa.

Un giorno andai con Cortázar allo studio di questo pittore molto famoso, René Portocarrero. E al ritorno lui poi ci fece accompagnare, guarda, sembra assurdo, con la sua Cadillac nera, tutta foderata di pelle, dal suo autista nero.

Ti sto parlando degli anni ’76, ’77… questo Portocarrero viveva da una vita con il suo compagno, ed era pittore ufficiale della rivoluzione, quindi non è che fosse uno che viveva nascosto. Però aveva mantenuto la sua Cadillac e pure l’autista. E qui una grande risata buona. …sembrava pazzesco.

E comm’ a fatt? Mi scappa a me di getto pensando alla rivoluzione di tutti compagni, di niente privilegi e di una certa avversione per le coppie omosessuali.

La differenza era che questi erano due signori anziani, che non si potevano muovere… Su questo la rivoluzione si dimostrò estremamente comprensiva.

Uno pensa che la rivoluzione cubana sia una cosa univoca, stringata, semplice, e invece c’era spazio pure per cose come questa apparentemente completamente all’opposto.

E non pensare che fosse un privilegio accordatogli perché era il pittore ufficiale perché per esempio ho conosciuto bene Dulce Maria Loynaz che era una poetessa, di una grandissima famiglia proprietaria di piantagioni di zucchero, che invece non era favorevole alla rivoluzione e che lo stesso viveva, da sola, in un villone nel Vedado che ti avrei voluto fare un film, una cosa tipo “Viale del tramonto”. Ma nessuno l’ha mai cacciata.

Ma allora mi stai dicendo che questa rivoluzione era flessibile… umana.

Soprattutto umana mi ripete lei.

E ma scusa, nessuno diceva niente? Non dicevano: “Perché a lei tutta quella villa?

Sì, come no.

In questi casi c’erano tutta una serie di strutture, per esempio i Comitati della rivoluzione, una sorta delle nostre Circoscrizioni fai conto.

Quando qualcuno metteva in risalto per esempio qualche privilegio ne discutevano fra loro.

Allora poteva essere che il presidente del Comitato fosse già una persona sensata e diceva: “compagni questa signora ha vissuto tutta una vita in quella casa, non se n’è andata, per quanto avversa alla rivoluzione è una cubana… perché non la dobbiamo lasciare dove sta?” E tutto finiva lì.

Oppure si andava, di grado in grado, sempre più in alto fino ad arrivare ad una soluzione.

Si potevano creare comunque situazioni spiacevoli.

Per esempio con gli scrittori c’è stato molto questo: altri scrittori che dicevano: “ah, ma quel libro lì è controrivoluzionario”.

Anche perché ci sono stati molti momenti in cui Cuba ha dovuto difendersi, capisci? Allora tutto quello che, vuoi o non vuoi, per tua volontà o no, finiva per costituire un attacco alla rivoluzione, bisognava tenerlo a distanza.

Il piano “Peter Pan”

Io cito sempre una frase di un mio carissimo amico che diceva: “è un peccato quando una rivoluzione perde un suo intellettuale, ma è ancora più un peccato quando un intellettuale perde la sua rivoluzione”.

La sua storia personale è interessante. Era cubano ma io non l’ho conosciuto a Cuba perché era uno di quelli che erano andati via all’inizio della rivoluzione a causa di un piano degli Stati Uniti che è uno degli esempi di quelle che oggi chiameremmo “fake news”. Il piano “Peter Pan”.

Gli Stati Uniti diffusero la notizia, fake news appunto, che con la rivoluzione Cuba avrebbe tolto la patria potestà ai genitori e avrebbe mandato tutti i ragazzini a indottrinarsi in Unione Sovietica. E la Chiesa Cattolica anche fu in prima fila a sostenere questa tesi.

Allora molti genitori, prima che succedesse, diedero il consenso a far partire i bambini per gli Stati Uniti, per salvarli da questo.

Lui, si chiamava Julio Miranda, fu uno dei ragazzini che partirono. Andò in un collegio di Gesuiti, poi fece il seminario, ed è diventato Gesuita.

Era un ragazzo intelligentissimo, un eccellente critico letterario, amante del cinema, poeta.

Poi, arrivato in Spagna, ha capito che non era cosa, e ha cominciato a spretarsi, a ragionare con la sua testa. Io l’ho conosciuto quando è arrivato in Venezuela. È stato anche in Italia, mio lettore all’università di Salerno. Insomma, aveva scritto un libro di critica molto bello, in cui, parlando di un intellettuale, aveva scritto quella frase che ti ho detto.

E quella frase la cito spesso perché l’ho visto accadere molte volte.

Sono stati molti quelli che hanno perso la loro rivoluzione perché lusingatissimi dall’esterno.

Io gli dicevo sempre: “sentite ma voi lo sapete che siete gli unici, scrittorucoli, scrittorelli, scrittorini, che ve ne andate via da Cuba e vi offrono ponti d’oro: contratti, case editrici, la pubblicità, tutto? A nessun altro intellettuale al mondo gli succede questo”.

Li chiamavano da tutto il mondo, perché dovunque nel mondo gli intellettuali ad un certo punto hanno iniziato a dire: “nessuno ci deve condizionare, in niente, viva la libertà”, contro la rivoluzione di Cuba.

Zoe Valdés

Un esempio di questo l’ho visto accadere molto bene, personalmente.

Una mia amica giovanissima, Zoe Valdés, che fino ad allora non aveva pubblicato quasi niente, andò a Parigi con un contratto con le edizioni Actes Sud, una campagna pubblicitaria strepitosa. È diventata ricca in un baleno, ed ha iniziato a scrivere un libro dietro l’altro.

Perdendo però tutto.

È come se perdessero l’anima, ecco, perché “hanno perso la loro rivoluzione”, che è una visione del mondo che va oltre.

E poi perché la natura a Cuba è fortissima, è dominante, e quindi lontano da Cuba si è spezzato quel rapporto… Da aggiungere che spesso anche una grande nostalgia ci mette il suo.

Naturalmente oltre che pubblicando libri, pubblicavano anche continuamente notizie negative su Cuba: “il lager, il dittatore Castro, l’orrore di Cuba…”

È quasi una clausola del contratto: “tu vieni, noi ti accogliamo, però devi raccontare questo”.

In questo caso io la conoscevo benissimo, è avvenuto tutto sotto i miei occhi, posso riconoscere tutte le bugie che ha detto. So che quando diceva che era maltrattata, che poverina doveva trovare il cibo nell’immondizia, erano tutte bugie. E come lei hanno fatto in molti.

Quelli che sono andati all’estero e non hanno fatto questo, sono andati per una qualche ragione precisa, per esempio si sono innamorati di una straniera, poi si sono sposati ecc. però, guarda caso, quelli lì non sono quasi mai diventati famosi.

Norberto Fuentes

Un altro esempio.

Un giorno stavo ad una conferenza e un uomo seduto a fianco a me ad un certo punto mi fa: “ehi Alessandra non mi riconosci?”.

Era Norberto Fuentes, uno scrittore cubano che in gioventù aveva scritto un libro molto bello, una serie di racconti eroici su episodi della guerra rivoluzionaria.

Poi era stato coinvolto in una vicenda giudiziaria molto pesante riguardante alcuni alti ufficiali dell’esercito.

Venne fuori che questi, non per arricchirsi personalmente ma per finanziare le truppe al loro comando, avevano organizzato il narcotraffico. Erano ufficiali che in precedenza erano stati insigniti di onorificenze dal Partito Comunista Cubano anche perché erano andati a sostenere la guerriglia in Angola. Questo processo sfociò in tre condanne a morte.

Fuentes era stato coinvolto però non andò in prigione.

Bene, quel giorno probabilmente si avvicinò a me perché se io avessi scritto un articolo su di lui, raccontando in Europa i pettegolezzi della vicenda, sarebbe diventato intoccabile. Ma io non lo feci, proprio perché sapevo che in quel caso i pettegolezzi sarebbero andati ad influenzare un piano ben più importante, riguardante Cuba in generale.

Poi lui pensò bene di rivolgersi a García Márquez.

Márquez diceva sempre al governo cubano: “non fate prigionieri politici, non fate condanne a morte”. Secondo me però non capiva che gli attacchi alla rivoluzione erano fortissimi.

Ad esempio per quella vicenda di narcotraffico gli Stati Uniti processarono Raúl Castro, in contumacia, in Florida, perché essendo il capo dell’esercito secondo loro non poteva non sapere. Quando Raúl Castro invece non c’entrava niente. E allora tu che fai, non ti difendi?

Quel processo ai generali a Cuba, trasmesso tutto in televisione, non me lo scorderò mai. Fu un altro bello scoppolone dato a quei poveri cubani.

Perché gli Stati Uniti avevano lanciato la guerra al narcotraffico per cui quello non era, come spesso fanno, un argomento di giustizia o umanitario, ma un argomento per invadere il Paese.

Per questo quegli ufficiali furono giudicati a Cuba “Traditori della patria”, perché il rischio che fecero correre al Paese fu altissimo.

Bene, per ritornare a quella frase, cosa ha scritto Fuentes da che, con l’aiuto di Garcia Márquez, se n’è andato negli USA? “La vita intima di Fidel Castro”, un libro di pettegolezzi. Ce l’ho qui ma non sono neppure riuscita a leggerlo, è una cosa insostenibile.

Garcia Márquez

Ma tu Garcia Márquez lo hai mai incontrato?

Sì, l’ho anche intervistato.

Ovviamente per l’Unità?

No, veramente lo intervistai per un giornale napoletano che si chiamava “L’Araba Fenice”.

Quando finì la borsa di studio a Cuba andai in Messico col corrispondente dell’Unità e la sua famiglia perché il partito comunista messicano era stato dichiarato finalmente legale, ti sto parlando credo del 1978.

Andammo e c’era tutta una delegazione cubana. Tornavo da quegli otto mesi a Cuba con le idee anche un po’ confuse, e visto che si sapeva che Garcia Márquez era a favore della rivoluzione cubana, gli dissi che mi sarebbe piaciuto intervistare questo Márquez, che non era ancora premio Nobel.

Mi ricevette in un albergo a città del Messico e mi raccontò un sacco di cose che io pubblicai su quest’ “Araba Fenice”, il che ti dimostra che non ho mai saputo vendere la merce. E stavolta è proprio di se stessa che sorride.

Pure a Maradona, appena arrivato a Napoli, per lo stesso giornale, feci un’intervista.

Poi, sempre a proposito di artisti e rivoluzione, c’avevo tanti altri amici che magari sono dovuti stare zitti e buoni per un po’ di tempo, però poi hanno avuto tutti, poco a poco, il loro riscatto: un premio nazionale di letteratura o cose del genere. Scrittori che non hanno perso la loro rivoluzione.

Ma mi spieghi un poco questa cosa del veto sull’omosessualità a Cuba?

Riguardo alla questione dell’omosessualità ad un certo momento venne promulgata una disposizione contro alcune categorie: quelli che non volevano lavorare, chi aveva comportamenti antisociali, chi non voleva fare il servizio militare che era obbligatorio ecc. e tra questi c’erano pure gli omosessuali. Questa cosa, cioè metterli in campi di lavoro, è durata meno di due anni però lo stigma c’è stato sempre, come d’altronde c’è stato da noi, esattamente tale e quale, come negli Stati Uniti, ovunque.

Però un sistema statale rigido, che diventa sempre più rigido per difendersi, poi commette errori.

Fidel Castro

Poi la domanda che prima o poi doveva uscire: ma tu Fidel Castro lo hai conosciuto?

Personalmente no.

L’ho visto cento volte, qualche volta anche nel suo studio, seduti come stiamo adesso, anzi più vicino ancora perché facevo da interprete, una volta, ad esempio, per Cossutta.

Che tipo era?

La risposta è istantanea, secca, tranquilla: meraviglioso.

Una persona gentilissima, cortesissima. Anche se per esempio, come nel mio caso, facevi l’interprete, non è che non ti guardava, che non ti considerasse proprio. Anzi ti chiedeva, si interessava alla tua persona, ti parlava al di là della funzione che svolgevi in quel determinato momento. Era curioso di tutto, che fosse una persona fuori dall’ordinario te ne rendevi conto subito.

Quando ero corrispondente io andavo sempre a sentirlo quando teneva un discorso perché ti faceva capire un sacco di cose. Se per esempio parlava all’inaugurazione di una fabbrica di cemento, lui spiegava le motivazioni, perché, per come…

Aveva una straordinaria visione globale, del mondo. E poi una conoscenza perfetta anche della vita quotidiana del popolo di Cuba.

Una volta, mi ricordo, c’era scarsità di acqua. I cubani fanno due docce al giorno e non una cosa veloce, zac, fatto, ma una cosa con calma, cantando sotto lo scroscio. E allora per forza l’acqua non può mai bastare. Allora lui un giorno, mi ricordo, in un intervento disse: “ma non potete misurarvi un poco con quest’acqua, che se no da dove la pigliamo?”

Un’altra volta fece un’altra richiesta al suo popolo: “io lo so che ci sono persone che magari per lavoro viaggiano, vanno all’estero, ma è proprio necessario che poi al ritorno portate ai vostri figli dei regali grandi? Quelli poi vanno a scuola, i compagni li vedono e dicono: perché io quella cosa non ce l’ho e tu ce l’hai?“.

I dettagli che fanno il mondo.

Quando cadde l’Unione Sovietica la preoccupazione di Fidel era: e ora quelle armi nucleari in mano a chi saranno?

Odiò Gorbaciov. E quando venne a Cuba, in maniera elegante ma glie ne disse quattro.

E sai quale fu il primo viaggio che fece Mandela dopo la sua scarcerazione? Venne a Cuba come prima cosa.

Poi guarda per un attimo un punto nell’aria che io non vedo:

Un giorno il terzo mondo farà capire al mondo chi è stato Fidel Castro, e che speranza è stato per tutta questa gente.

Poi c’è silenzio, nessuno di noi due dice più niente.

Certo mica poteva fare tutto. Mi ricordo sempre, e sorride un attimo, che dicevano sempre: lascia che lo sappia Fidel Castro”.

Nel senso che lui avrebbe subito risolto. Però questo certo non andava bene, non è che si poteva aspettare che risolvesse tutto una persona sola.

Ora cambia argomento: lo sai che quest’anno si festeggiano, a novembre, i cinquecento anni della città dell’Avana?

Anche se adesso è cambiata molto, illuminata, pulita, in giro circolano auto nuove, c’è gente che si arricchisce.

La psicosi dell’informatore

Ma la proprietà privata come ha funzionato?

Guarda la proprietà privata c’è in un piccolo settore, nel turismo, anche nella coltivazione della terra. Ad un certo punto hanno detto: vediamo se questa terra riuscite a gestirvela da soli.

E comunque in realtà, un poco c’è sempre stata. Per esempio ti si spezzava un’unghia e allora l’amica ti diceva: vai da quella vicina che lei fa le unghie. Oppure c’era quella che faceva le torte. In maniera non ufficiale però, senza nessuna ricevuta fiscale.

La sensazione è che loro sapessero tutto però non intervenivano fino a quando la cosa non superava una certa proporzione.

Loro le cose le sanno. Perché lo Stato lì è presente. Poi c’è chi lo sente come una presenza soffocante, e a chi invece piace.

Però capisco che questo argomento sia stato sempre un punto delicato del quadro. La psicosi dell’informatore è esistita e probabilmente in certi momenti e in certi posti è stata fondata.

In proposito mi ricordo che prima di partire per la borsa di studio andai a parlare con Rossana Rossanda che è stata il mio mito del giornalismo, di tutto, e lei mi disse:

Senti cara, tu non parlare mai al chiuso nelle case ma vai per esempio in un parco, in uno spazio aperto. Non parlare al chiuso perché è spiato”, cioè mi voleva dire: ci sono le cimici.

E allora quando sono andata lì ero sicura che c’erano spie da tutte le parti.

Per un attimo mi pare di stare davanti al corrispondente femminile di Robert Redford dentro “I tre giorni del Condor”.

Questo lo diceva lei ma non era vero.

Ah ok, allora davanti ho ancora la signora napoletana che conosco.

Tieni conto che all’epoca c’era il caso Padilla in corso, un caso complicatissimo, che magari ti spiego la prossima volta, ma in sintesi questo scrittore fu accusato di essere un controrivoluzionario.

Bene, io abitavo proprio a fianco a Padilla. Quella foto che hai pubblicato la volta scorsa di me e di quella mia amica sovietica, è scattata a pochi metri dalla sua casa.

Allora una volta Padilla mi diede delle lettere da portare alle figlie che stavano a Madrid e se ci fosse stato tutto questo spionaggio mi avrebbero almeno fermato. Perché avrebbe potuto scrivere in una lettera in cui lanciava qualche accusa: “mi tengono prigioniero, mi hanno torturato”, che ne so, invece non mi hanno detto assolutamente niente.

Quello fu un caso emblematico, complicatissimo. Non hai idea di cosa successe: una grande parte degli intellettuali soprattutto europei si bisticciarono con la rivoluzione cubana, tranne Cortázar e Garcia Márquez.

Allora questo argomento vasto ricordatevelo che glielo chiediamo la prossima volta.

Sono stato ad ascoltare per circa due ore, e non sono riuscito neppure a dirvi tutto: la moka, pure se era solo da due tazze, di caffè ne contiene molto.

Intervista ad Alessandra Riccio, a cura di Francesco Paolo Busco

INCONTRI – Storie dell’altro Mondo (1/2): una napoletana nella Cuba degli anni ’70

14 marzo 2019

Di Cuba non si parla molto. Per la maggior parte di noi sta lì in un angolino della memoria a fianco alle immagini del Che che guarda verso il futuro con il basco in testa, a quella di lui morto che somiglia al Cristo di Mantegna, alle case colorate e alle automobili americane anni ’50.

C’è capitato invece di conoscere una signora, napoletana, che a Cuba ha vissuto per sei anni, dal 1987 al 1993 e stava lì, all’Avana, come corrispondente di un giornale: L’Unità. Cofondatrice insieme ad altri e poi condirettrice insieme a Gianni Minà della rivista Latinoamerica, professoressa associata di Lingua e Letterature Ispanoamericane all’università di Napoli l’Orientale, autrice nel 2011 di Racconti di Cuba, da sempre attenta alle vicende ed alla letteratura del continente americano su cui tiene un blog.

La rivista “Latinoamerica”

L’abbiamo incontrata per caso alla proiezione di un film recentissimo sugli avvenimenti di Santiago del Cile ai tempi del colpo di stato di Pinochet contro il governo di Salvador Allende: Santiago, Italia.

Prima della proiezione prende la parola questa signora col caschetto di capelli bianchi. La cosa più bella è che non urla concetti astratti, parla con calma ma profondamente. Dentro le sue parole l’intenzione suona vera, e allora ci viene subito l’idea di andarla a cercare nei prossimi giorni.

Mi ricordo solo il cognome, poi la vedo sui social, in una foto di quella serata, e allora riesco a rintracciarla. Le scrivo, poi le telefono.

Ho appuntamento in una mattinata di sole pieno, dopo due giorni di vento di grecale: l’aria è limpida e colorata d’inverno. Arrivo in bicicletta e la metto nel cortile.

Mi accoglie nel soggiorno. Intorno sento la presenza di quadri molto belli, ma non ho il tempo di osservare: ha troppe cose da dire.

Ero curioso di sapere da qualcuno circa i miei dubbi su quello stato strapieno di petrolio, il Venezuela, sotto attacco in questi giorni. Mi ha accolto a casa sua per rispondere ai miei dubbi.

Poi mi viene l’idea che il Sud America sia un mondo così carico di belle energie e così poco raccontato dalle nostre parti che le ho chiesto se, quando vuole, mi racconta di Cuba, io sto solo a sentire.

Alessandra Riccio

Eccovi il suo primo racconto.

Oggi ho una domanda sola, le dico: vorrei ascoltare del tuo primo giorno a Cuba.

Non mi risponde subito, ha un’altra cosa grande da dire.

La lingua spagnola, devi sapere, anzi il castigliano, perché nella penisola iberica di lingue ce ne sono molte (il catalano, il basco, il gallego) è stata un modo di unire un continente.

Perché con le caravelle di Cristoforo Colombo quelle lingue, in Sud America, sbarcarono tutte. Però poiché le disposizioni ufficiali da Madrid erano in castigliano, fu questa la lingua che prese il posto centrale, la lingua ufficiale, quella per comunicare al di fuori dei singoli gruppi linguistici particolari. Ecco perché sono contentissima che il prossimo salone del libro di Torino abbia messo questa lingua al centro, ed un libro bellissimo, di Julio Cortázar: “Rayuela” .

All’inizio non avevo capito esattamente perché mi avesse detto tutto questo. Poi piano piano mi è stato chiaro che conteneva due grandi ragioni: la prima è che questa lingua sempre un poco bistrattata, considerata di serie B rispetto per esempio all’inglese e al francese, per una volta sarà al centro dell’attenzione; la seconda è che al centro ci sarà uno dei libri e degli autori da lei preferiti. Insomma, finalmente il mondo parla un poco, di nuovo, di loro.

Una borsa di studio

Va bene, ma tu volevi sapere del mio primo giorno a Cuba.

Allora… io avevo vinto una borsa di studio del Ministero degli Esteri italiano, perché all’epoca c’era un istituto Italo Latino Americano, voluto da Fanfani (esiste ancora ma si è ridotto moltissimo) per gli scambi commerciali e culturali tra i due paesi.

E allora, era la fine di settembre del ’77, o forse del ’78, parto per questi otto mesi nella capitale cubana.

Era una mia passione perché in quegli anni del boom della letteratura latinoamericana, avevo letto alcuni romanzi per me molto importanti. Uno è proprio “Rayuela” (in Italia si chiama: “Il gioco del mondo”), un grande libro sentimentale, bellissimo, e poi avevo letto “Paradiso”, di Josè Lezama Lima, uno scrittore cubano.

Questo secondo libro per me era stato proprio rivelatore, meraviglioso, tanto che avevo scritto all’ autore e lui mi aveva risposto un paio di volte. Allora volevo conoscerlo.

Quindi andavo a Cuba soprattutto per questo scrittore e per un altro, di cui avevo tradotto un libro, che è Alejo Carpentier. Un grandissimo, anche questo, scrittore cubano. Perché, sai, all’epoca esisteva la “Editori Riuniti” che era la casa editrice del partito comunista e che quindi aveva questo sguardo su quelle cose del mondo. Era una delle cose che facevano parte di quella che, come diceva Rossana Rossanda, “era una grande costruzione”. Solo dopo molto tempo ho capito cosa volesse dire lei con quelle parole: il partito comunista era un insieme di tante cose, tra le quali tu potevi trovare quella che ti corrispondeva.

Insomma piglio e vado.

All’epoca non esisteva nessun volo diretto, però ti devo dire che, contrariamente ai racconti dei viaggi di molti, per esempio dei primi viaggi di Garcia Marquez, che per arrivare a l’Avana dovevano fare percorsi da giro del mondo, io fui molto fortunata.

Mi pagai un viaggio in sole due tratte: Roma-Madrid, Madrid-l’Avana, con uno scalo intermedio alle isole Azzorre.

All’atterraggio su quelle isole mi svegliai e mi sembrava un sogno: vedevo le palme, in mezzo a questo oceano Atlantico, sembrava l’avventura dei più famosi scrittori. A quei tempi gli aerei non erano affollati come oggi: era quasi tutto vuoto, per questo potevo dormire sdraiata su tutta la fila di sedili. Poi, mi ricordo, un signore messicano, seduto in una fila dietro la mia, mi offrì dello champagne. Insomma, mi pareva di vivere in un romanzo.

Atterrati a Cuba, quando si apre la porta dell’aereo ed esco dal portello l’impatto è forte: appena lasci l’aria condizionata dell’aereo è come entrare in una sauna, caldo umido, e poi il tropico lo senti anche perché ha proprio un odore.

Scendo la scaletta, non c’è nessuno shuttle di collegamento, vado a piedi, in questo piccolo aeroporto scassatissimo, verso lo scalo e, in alto, leggo una scritta enorme:

“Aeroporto Josè Martì, Cuba, territorio libre en America”

In quel momento dici: allora è vero; capisci?… era emozionante.

Due coinquiline sovietiche

All’aeroporto mi viene a prendere una signora del Ministero degli Esteri cubano, a me e ad un signore di un paese dell’Est che non ricordo.

Accompagniamo prima lui all’Hotel Nacional. Devi sapere che quell’albergo è un posto mitico: l’albergo dei grandi scrittori di passaggio per Cuba.

Non me lo dice ma le devono essere passati nella testa almeno dieci libri che ne parlano. (Ma lei è sintetica. Si, questo è un mio problema: di una cosa voglio sempre estrarre il succo, non mi piace sbrodolare le cose).

Poi la signora mi accompagna in una strada carina, con tanti alberi, dove c’è una villetta un poco sgarrupata pure questa, come quasi tutto. Quando c’è stata la rivoluzione a Cuba molti ricchi sono andati via, verso gli Stati Uniti, lasciando le loro case. Allora il governo le ha nazionalizzate. Era una di quelle case.

Alla finestra, affacciate, c’erano delle ragazze giamaicane che avevano appeso alle grate degli slip e delle magliette ad asciugare. Era una casa di sole donne, ed era lì che sarei dovuta stare, in una stanza insieme a due ragazze sovietiche.

Te la immagini tu una donna di trentacinque anni, con due figli, che deve fare la vita della studentessa fuori sede? Ecco, mi sentivo un poco spaesata. All’epoca facevo la radical chic capisci, mi dava fastidio.

Appena arrivo le due ragazze mi dicono: dai stasera vieni con noi, ci vengono a prendere e ci portano al mare. Per me che il mare è un elemento imprescindibile della vita, la risposta fu“sì”, o forse neppure risposi. Ero appena arrivata, non ci stavo ancora capendo nulla, ero come un pacco postale, non decidevo niente, non davo nessun contributo.

Mi ricordo solo che arrivammo sulla spiaggia. Le due ragazze e i nostri accompagnatori andarono a fare il bagno in slip e reggiseno. A me non sembrava… Va bene, punto, la scena finisce qui.

Insomma: il caldo, lo sgarrupamento, le cucarachas, questi insettoni enormi che somigliano a scarafaggi che, mi dicevano: “stai attenta tu che hai i capelli lunghi perché quelli volano e possono impigliarcisi dentro”. Allora di notte dormivo come una specie di mummia: con la testa tutta avvolta nelle lenzuola, con quel caldo.

Poi la mattina devi aggiungere che quelle due ragazze sovietiche, che si svegliavano molto presto per andare a fare del lavoro volontario prima di andare a studiare, (perché loro facevano parte del Komsomol, l’unione della gioventù comunista leninista) mi svegliavano portandomi, pensando di farmi una grande gentilezza, una bella tazza fumante di zuppa di verza, la loro colazione abituale.

Alessandra Riccio (a sinistra) con una delle due ragazze sovietiche (foto concessa da A. Riccio)

Altro che cappuccino, penso io. Penso che ti ho fatto un quadro della cosa almeno parziale. Che dire: annuisco senza fiatare.

Poi a pranzo andavamo in una casa di fronte: lì c’era la mensa.

Ti davano un piatto di alluminio con tutti gli scomparti. C’era soprattutto polenta (polenta? a 35 gradi? penso ma non voglio interrompere il filo del ricordo, o forse soprattutto questo suo parlare musicale) con un uovo, poi frutta, un bicchiere di ottimo latte, e il “dulce” che in realtà sono confetture di frutta. Insomma una cosa ben pensata, bilanciatissima da un punto di vista alimentare. Però lo dice con un tono che non capisco se è convinta o meno.

Il romanzo della rivolucion lo scrivi tu

L’idea dei miei professori, all’Orientale, io all’epoca ero assistente ordinaria, era che mi dovessi occupare del “romanzo della rivolucion”.

Una rivoluzione, dicevano, deve creare per forza la sua letteratura. Poi andando lì mi accorsi che invece era una stupidaggine enorme; casomai esiste il romanzo di quando finisce una rivoluzione, della decadenza di una rivoluzione, vabbè. E allora parto con quella idea nella testa.

Si porta dietro quell’idea ma soprattutto mi portavo nella testa un sacco di libri che avevo letto sul Sud America e dei suoi scrittori.

Il fatto che non esistesse un romanzo della rivolucion alla fine però fu il mio vantaggio perché la mia tutor mi disse: “va bene e allora vai in giro a parlare con gli scrittori cubani e quel romanzo lo scrivi tu”.

Fu un’occasione unica: non avevo altri impegni da svolgere se non quello, avevo il motivo e tutto il tempo per poter andare in giro e farmi un’opinione.

L’unico problema è che a L’Avana tutto era improbabile: gli autobus non passavano o quando passavano magari si rompevano, faceva un caldo tremendo e muoversi a piedi per quella città estesissima non era facile.

Sti scarafaggioni in agguato e neppure mi potevo comprare il baygon perché anche se avevi i soldi per comprarlo, il baygon a Cuba non c’era proprio. Però passavano ogni quindici giorni a disinfettare la casa e ci portavano sapone, dentifricio… anche la cromatina per le scarpe, quegli scarponi che usavano all’epoca.

Erano gli anni che chiamarono i “dieci anni grigi” poi i “cinque anni neri” perché il Che era morto, la “grande zafra” (la grande raccolta della canna da zucchero a cui Fidel aveva chiamato tutta la popolazione, con l’obiettivo di raccogliere dieci milioni di tonnellate. Arrivarono solo a nove) era fallita e allora l’Unione Sovietica li inizia ad aiutare economicamente; però in cambio vuole, da quel popolo così “variopinto”, almeno un po’ di disciplina.

Allora hanno le divise: le donne con la minigonna ma di un tessuto sintetico molto spartano, la camicetta, e scarpe e scarponi da pulire con la cromatina.

Una poliziotta cubana

Una mattina mi ricordo che stavo aspettando alla fermata del bus e c’era un ragazzo che aspettava anche lui con in mano una fiocina per pescare, manco a dirlo, tutta scassata pure quella. Ad un certo punto vedo venirci incontro una poliziotta.

Gli si avvicina e gli dice: “Ah mi amor, esto no esta bien, devi stare attento, sull’autobus con quello puoi far male a qualcuno”. Io rimasi esterrefatta da quel bellissimo modo di approcciare la cosa; piano piano imparavo cos’era davvero quella rivoluzione.

Poi ogni tanto arrivavano dall’Italia i compagni del partito, con i viaggi dell’Unità.

La cosa più divertente era che dopo tre minuti che erano sbarcati avevano già le soluzioni a tutte le inefficienze che vedevano in giro.

Magari arrivavano e gli si avvicinava il facchino dell’albergo che voleva portare la loro valigia, e loro subito: “no, compagno! la porto io”, senza capire che lo stato aveva dato un compito a tutti, anche cose piccole magari, ma era un motivo per farli uscire di casa la mattina e fargli sentire che davano anche loro un contributo.

Per esempio all’Hotel Nacional, in ogni ascensore c’era una donna che non faceva altro che premere il pulsante del piano. Molte erano ex prostitute che in quell’albergo, prima della rivoluzione, avevano fatto quell’altro lavoro.

Il problema era che quando si incontravano ad un piano, erano due ascensori uno di fronte all’altro, si fermavano a chiacchierare tra loro: “hai visto che è successo nell’ultima puntata della telenovela?…”, mentre la gente stava ai piani ad aspettare. Queste inefficienze erano quelle che ai compagni che venivano dall’Italia davano molto fastidio.

Insomma ti devo dire la verità che fra tutte le arrabbiature, tutte le critiche, tutte le inefficienze, alla fine ho capito la cosa fondamentale, e cioè che quella rivoluzione, sempre, quando ha individuato l’errore, ha cercato di correggerlo. Che è la cosa principale, perché, come si dice: “nessuno nasce imparato”.

Insomma anche se era il periodo grigio, quello sotto la cappa sovietica, come ti ho detto, era bello: ho imparato tante cose ma soprattutto si incontravano persone molto interessanti, molto aperte, molto cordiali. Anche se la vita, pure quella degli artisti, aveva i suoi problemi, come quella cappa di autocensura che ognuno si sentiva, perché qualunque cosa poteva essere interpretata come contro la rivoluzione.

Una sorpresa quando torno a Napoli

Poi c’è una cosa molto divertente che è successa a Cuba ma me ne sono resa conto solo quando sono tornata a Napoli.

Un giorno stavo seduta sul marciapiede ad aspettare, come al solito, l’autobus, quando vedo passare un gruppetto di scrittori; tra i quali c’è anche Cortázar. All’epoca aveva circa 60 anni, ma lui, un uomo bellissimo, aveva questa cosa particolare che ne dimostrava sempre trenta. “Noi andiamo alla Bodeguita del Medio, vuoi venire?” mi dicono. Era il bar famosissimo dove andava pure Hemingway. Tra di loro c’era anche uno scrittore brasiliano, Ignacio de Loyola Brandão, molto amato da una mia collega dell’Orientale, e allora gli chiedo un’intervista da mandare a lei.

Bene, dopo il mio ritorno a Napoli, incontro quell’amica e mi dice che Brandão le ha inviato il suo libro, anzi due copie, una anche per me.

Quando lo leggo ci trovo scritto di una giovane donna vestita di bianco. Ogni tanto, lungo tutto il libro, compare, mentre l’autore si chiede chi sia questa donna che capisce non essere di Cuba; Poi, nel finale, scrive: “poi un giorno, mentre andavo con Cortázar ed altri amici alla Bodeguita del Medio la incontro e scopro che è una docente universitaria di Napoli”. Scopro così di essere diventata il misterioso personaggio di un libro di Brandão.

Il mondo diventa, esattamente, come ce lo immaginiamo: lei tanto aveva sognato di libri che in uno, alla fine, c’era caduta dentro.

La “trinità” rivoluzionaria: Fidel Castro, Che Guevara, Camilo Cienfuegos

Poi, per alcuni giorni, mi vennero a trovare i miei figli.

Io ero separata; all’epoca c’era ancora il divorzio, ma se ne discuteva e si preparava un referendum abrogativo. Marito e figli arrivarono in un viaggio organizzato. La cosa divertente era che io dicevo, per esempio: “sappiate che qui gli autobus non passano mai”, poi andavamo alla fermata e l’autobus passava dopo pochi secondi. Oppure: “gli autobus qui sono affollatissimi”, e qualcuno appena saliti ci offriva di portare per noi i nostri pacchi.

Quando sono ripartiti mi sono rasserenata e riconciliata con Cuba, forse perché non avevo più quella nostalgia inconfessata dei miei figli, tutto era diverso perché erano venuti qui e si erano divertiti.

Va bene, il primo giorno te l’ho raccontato.

Avete letto queste parole. Mentre parlava avevo mille domande, però non l’ho interrotta quasi mai: non volevo interrompere il suono, che ricordava quello delle storie raccontate con calma, nel silenzio, e che vengono da molto lontano.

(Qui, se volete, trovate la seconda parte).

Intervista ad Alessandra Riccio, a cura di Francesco Paolo Busco

INCONTRI – A Felitto da Rosi Di Stasi, una signora dalle mille iniziative per recuperare il territorio

22 dicembre 2018

Sono quasi a Felitto, in Cilento. Sono un po’ in ritardo e sto facendo tre cose che in genere cerco di non fare: andare veloce, in macchina, senza guardare. Poi un cartello prima di un passaggio stretto: ponte medievale. Ha i muretti arrotondati e ci passo sopra, almeno così credo. Non ho tempo di fermarmi e vado oltre. Pochi minuti e sono a destinazione. Ci siamo dati appuntamento, con Rosi Di Stasi, a via Roma, la via centrale di quasi ogni paese, una vecchia cosa da cambiare. Ci ha messo in contatto Simona Ridolfi,  l’ideatrice della “Via Silente”, un bellissimo percorso cicloturistico che fa il giro del Cilento interno, con qualche puntata sul mare. È la rete vera, quella delle persone.

Parcheggio e le telefono per gli ultimi metri. Le dico che sto davanti ad un ferramenta, le dico il nome che leggo sull’insegna ma non lo conosce. Poi, quando ci incontriamo, scopre che è quello di suo nipote: il nome, per quelli del paese, non c’è bisogno di essere letto.

Ha occhi azzurri e un viso aperto. I capelli cortissimi, appena grigi, forti. Ci presentiamo e saliamo in macchina perché mi vuole portare subito a vedere una cosa del paese.

Pochi minuti e siamo in uno spiazzo verde, alla gole del fiume Calore. C’è un piccolo lago artificiale: era della centrale idroelettrica comunale. L’hanno aperta a inizio ‘900, dava energia elettrica a più di quaranta comuni. La centrale è stata chiusa negli anni ’70 ma resta uno specchio d’acqua di un colore verde, e una diga bassa bassa di un cemento antico e un edifico che magari se ne potrebbe fare un museo mi dice Rosi. Poi mi porta su per un sentiero agevole, e nel frattempo mi inizia a raccontare.

In Germania

Ha vissuto in Germania per quarantatre anni, col marito. Mi sono sposata e sono partita, avevo diciannove anni.

Quando sono arrivata lì credevo di trovare ricchezza e invece ho trovato povertà. Quelli che dall’estero tornavano nelle feste al paese scendevano con macchine grandi e nel frattempo avevano magari messo su meglio la casa qui a Felitto. Poi andavi lì e vedevi che vivevano in baracche. Il lavoro c’era, però la realtà era dura, molto diversa da quella che raccontavano. Sembra di sentire certi racconti letti sui libri di Alessandro Leogrande: dei polacchi, ucraini, che vengono d’estate in Italia a raccogliere pomodori, trovano a volte caporali che li sfruttano in modo disumano ma loro non raccontano molto queste cose e non tornano a casa fino a quando non hanno racimolato un po’ di soldi: tornare senza sarebbe troppo un disonore.

Mio marito lavorava in una fabbrica di tessuti. Anche io avrei voluto lavorare lì ma lui all’inizio mi convinse a stare a casa e dare una mano a sua sorella con i suoi bambini. Ma a me mancava mia sorella piccola, l’ultima di otto fratelli, se dovevo accudire qualcuno volevo accudire lei, in Germania non c’ero venuta per questo. In Germania ogni giorno piangevo. Poi una mattina sono andata a cercarmi un lavoro, così, da sola. Mi hanno detto: “da domani se vuoi puoi iniziare”.

Rosi ha fatto mille lavori: ogni volta, nei suoi racconti, inizia a svolgere una mansione in un luogo di lavoro, poi si rendono conto del suo valore, ma forse non è neanche solo quello, il termine giusto credo che sia entusiasmo e apertura e voglia di fare, rispetto per se stessa e per gli altri, avere sempre una buona parola. Ecco è la disposizione buona verso il mondo, mi pare d’intuire, che le ha aperto mille porte.

Lavoravo alla fabbrica di elastici. Inizialmente facevo lavori semplici, pulivo le macchine, poi piano piano sono arrivata fino al livello in cui potevo svolgere qualunque mansione. E mi dice la parola in quella lingua con il suono forte.

Poi la fabbrica di mio marito chiuse.

Ma lei non si perde d’animo, cambia lavoro. Inizia a fare le pulizie in una casa per anziani comunale. Dopo un poco i medici, e quelli del personale, le chiedono di fare un corso per diventare infermiera professionale. Lei fa il primo anno, ma poi con due figli, un marito e tante ore di lavoro al giorno, non se la sente più di studiare. Ma quelli insistono. C‘era un medico che mi disse: lo devi fare, hai le capacità, se avrai difficoltà a curare gli anziani mi puoi chiamare a qualunque orario e ti darò tutto il mio aiuto.

Allora piano piano mi convinsi e continuai. Io quando stavo in Germania mi dicevo: “dobbiamo prendere il più possibile”, ma non nel senso di portare via, nel senso di cogliere tutte le opportunità che quel luogo ci offriva. Mio marito anche pensava sempre di voler tornare. Lui però era un po’ diverso da me, lui non si è immerso completamente nell’ambiente, si è mantenuto sempre un po’ distante. Poi dice una cosa pesante: lui lì ha vegetato, non ha vissuto.

Il coinvolgimento nelle istituzioni

Lei ha avuto incarichi anche nel consiglio comunale e nel consolato italiano era rappresentante dei genitori. Ogni anno si organizzavano viaggi di formazione per noi del consiglio comunale. Viaggi in cui si andava a visitare qualche cosa di interessante, non so, una centrale dove producevano elettricità dal biogas o cose del genere, perché così potevamo prendere ispirazione e magari riprodurle da noi. Ecco, mio marito non è mai voluto venire anche se il coniuge era sempre previsto e gli altri mariti venivano spesso. Lui pensava molto a tornare in Italia.

Poi si è ammalato e allora mi ha chiesto di tornare al paese. E così siamo tornati.

Mi indica delle piante sulla roccia: li vedi questi, sono gerani, normalmente crescono a quote molto più elevate ma in questo posto c’è un microclima particolare che gli consente di durare.

Poi saliamo su un ponticello di ferro stretto stretto, fa quasi impressione, siamo in alto esattamente sopra il fiume Calore. L’acqua pulita si capisce da lontano. Le lontre qui ci sono ancora, anche qualche giorno fa le hanno riviste.

Poi continua.

Adesso che sono qui, di nuovo a Felitto, e mio marito non c’è più, ho pensato di mettere su un’associazione, sai perché? Se riuscissimo a fare in modo che uno solo, almeno uno, dei nostri giovani, non debba andare via da qui, non dico che non debba viaggiare o andare a vivere fuori per un periodo, ma che non debba andare all’estero per forza, allora sarei soddisfatta. È questo il nucleo, l’idea di fondo, quella che anima molti dei gesti di Rosanna oggi.

Si chiama come il marito l’associazione di Rosi: “Pasquale Oristanio”.

Poi mi invita a casa, a pranzo, e conosco Donato, un artista, pittore, il suo compagno adesso. Al piano di sotto è pieno dei suoi quadri. Me li mostra Rosi mentre Donato cucina oggi. Credo sia uno dei pochi casi al mondo, ora che ci penso, di un artista che riesce a stare, mentre qualcuno mostra i suoi lavori, in un altro posto.

I fusilli fatti a mano, la pasta tipica di queste parti, una bella tavola, e un altro milione di idee che quasi non riusciamo a mangiare perché con la bocca piena non si dovrebbe parlare.

Nell’insalata i pomodori sono di due colori: quelli rossi piccoli, comuni, sono pochi, la maggioranza sono quasi arancioni: sono i vernili questi Francè, mi dice Donato. E io gli chiedo che vuol dire. Sono pomodori che si mangiano d’inverno qui dalle nostra parti. Si raccolgono insieme agli altri alla fine dell’estate ma non diventano mai rossi. Li mettiamo appesi a grappoli e poi d’inverno sono come freschi.

Pure questo origano dentro l’insalata ha un sapore speciale.

Poi usciamo di nuovo ché mi vogliono far vedere un altro posto a cui tengono, è il loro progetto attuale. Avete presente quando al centro dei paesi antichi vedete, nella piazza principale, a fianco alla chiesa, il palazzo nobiliare? Ecco, a Felitto quel palazzo è stato per anni abbandonato, in cerca di un compratore. Cercavano qualcuno, mi dice Rosi, che lo volesse acquistare. Ma io ho pensato che non sarebbe stato bello se lo avesse comprato qualche forestiero. Che quel palazzo doveva rimanere di qualcuno del paese e così volevano anche i proprietari. Lo dissi pure al sindaco. Allora ad un certo punto, ho pensato di comprarlo io.

Ha una energia solare Rosanna. Si muove veloce, ha la sua idea nella testa però quando parli ti ascolta. Poi pensa un secondo. Poi ricollega il pensiero suo alla frase che gli hai detto e continua dritto.

Nel bar del paese

Ma non perdiamo tempo che abbiamo fretta. Rosi ha appuntamento alla casa al centro con un amico che viene a tagliare una pianta che crescendo sta rompendo il tetto. E, ma il caffè dopo tutto sto pranzo ci serve e allora io e Donato andiamo al bar a prenderlo per tutti.

Ci sono cinque o sei persone dentro o subito fuori, e Donato fa almeno dieci saluti. Tutti per nome, tutti non distratti. Con ognuno si ferma a parlare.

Dietro al bancone c’è una ragazza giovane: ha addosso la giacca di piumino perché oggi fa freddo, pure qui dentro. Ci pigliamo il caffè. Poi quando usciamo c’è un signore anziano, piccolo, con una faccia simpatica sotto il cappello rosso. Donato gli chiede delle capre.

Qualche giorno fa lo aveva incontrato tutto preoccupato perché non riusciva più a trovare quattro delle sue capre. Sì, le ho trovate. Due erano morte, se le sono mangiate i lupi. Due ancora non riuscivo a trovarle, poi le ho viste giù a un dirupo (la parola che lui dice è diversa, anzi tutte le parole di questa frase erano in dialetto, facevano una bella musica che purtroppo io non so suonare) e mi so’ calato con la corda che tenevo per andarle a prendere. Questo signore ha più di ottant’anni. I cilentani sono longevi e le capre non fanno perdere l’allenamento muscolare.

La casa delle cento stanze

Arriviamo alla casa nobiliare. L’ingresso è già molto bello. Un arco in tre pezzi, due pietre arcuate e al centro la pietra angolare. Sopra c’è lo stemma, più bello che se fosse nuovo: il tempo ha una mano da artista, spesso quello che accarezza a lungo diventa più bello.

A fianco alla casa c’è la chiesa principale. Ha un cortile con archi ornati con motivi che hanno qualcosa di orientale.

Entriamo e c’è un mondo antico in frantumi. Nelle foto trovate qualcosa di quello che c’è dentro. I parati nascondono muri dove il disegno era dipinto a mano. Le travi di legno dei solai. Un pavimento ha un enorme buco al centro. In altre stanze ci sono fogli, forse documenti. In una stanza c’è il resto dei medicinali di questa che era la casa del farmacista del paese. Questo lo chiamavano il Palazzo delle cento stanze, Francè.

Poi un cortile, e vani enormi, bui, al piano delle cantine. Poi, oltre il cortile, uno spazio separato con due forni. Ma non è tanto importante la casa, ma l’idea che Rosi mi aveva detto all’inizio, fare qualcosa per far rinascere questo borgo: se solo riusciamo ad evitare ad un giovane di dover per forza cercare intorno. E questa casa potrebbe essere il luogo dove di queste iniziative se ne potrebbero ospitare tante.

Rosi è membro del consiglio di Slow Food, anche del Touring Club Italiano. È stata a Torino a Terra Madre lo scorso settembre, la mostra sul cibo e le buone pratiche che si tiene ogni due anni: abbiamo fatto un corso per trenta persone su come si fanno i fusilli felittesi. C’erano cinesi, giapponesi, thailandesi, americani. E ognuno aveva la spianatoia ed il ferro per fare la pasta con le sue mani. E si impegnavano molto.

Rosi con la sua associazione dal 2012 ogni anno assegna il premio “Pasquale Oristanio” a belle realtà locali. Da quando è tornata definitivamente in Italia poi ha organizzato eventi che coinvolgono il territorio: come le passeggiate botaniche con un’altra cilentana d’eccezione (Dionisia De Santis), presentazioni di libri in collaborazione col Touring, attività con il Mercato della Terra del Cilento e tante altre.

Oggi 22 dicembre riapre finalmente il Palazzo delle cento stanze con una mostra nell’atrio dei quadri di Donato: fino al 6 gennaio potete vedere anche i quadri in cui ha ripreso i disegni che ha trovato in una grotta di un eremita del 1200 lungo il fiume Calore.

Rosi ha l’energia di un vulcano calmo, secondo me può averla solo chi ha radici forti in un terreno sano. Poi credo che abbia la visione che le cose lavorando sodo, senza troppe parole, si possono cambiare in meglio, di chi per molto tempo è stato fuori.

Tornando verso casa sono ripassato sul ponte medievale, però dopo che Rosi e Donato mi avevano detto che il vero ponte antico non è quello in alto, dove si passa, ma che fermandosi e scendendo dall’auto lo si vede in basso non molto lontano, ho seguito il loro consiglio e l’ho fotografato.

Muoversi in fretta, in macchina, senza chiedere alle persone del posto, mi hanno confermato che non è viaggiare.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

INCONTRI – Il profeta della Decrescita Felice, Serge Latouche a Napoli: “Decolonizziamo l’immaginario per ripensare a una vita con valori umani”

27 maggio 2017

Serge Latouche era mercoledì scorso all’Università di Napoli Federico II. L’Università compie, il prossimo 5 giugno, 723 anni ed il convegno è su pensieri nuovi, segno che non è morta, né si è ingessata troppo.

Alle 8.45 siamo all’Università, siamo venuti a piedi. Ci sembrava brutto, totalmente stonato, venire ad ascoltare parole su un nuovo modo, sulla “Decrescita felice”, così la chiamano, bruciando petrolio. In effetti lungo il cammino era passato un pullman, lo avevamo preso, poi dopo pochi metri ci eravamo resi conto che era molto lento per il traffico intenso, dentro ci faceva pure caldo, fuori si camminava bene, si stava al fresco, e siamo riscesi. Fermate… l’autobus voglio scendere, vado meglio a piedi.

Arrivati a Monte S. Angelo chiediamo ai custodi dove sia l’Aula G5, quella del convegno.

Entriamo e ci sono già alcuni studenti. Sembra il pubblico di una qualunque lezione. Poi spunta piano piano qualche viso più avanti negli anni. Mentre gli addetti discutono sul proiettore: non si cambiano i filtri della sua ventilazione (metti che hanno 723 anni?) e quindi tende a surriscaldarsi, va in protezione e si spegne. “Spegniamolo adesso, poi lo accendiamo quando serve, così magari facciamo in tempo”.

L’aula piano piano si riempie, ma non completamente (“Aula G5 188 posti” dice il cartello fuori, allora adesso ci saranno circa cento persone).

Poco prima delle 9.10 entra un signore col bastone, la barba e il cappello. Si chiama Serge Latouche, è un professore francese, un economista. E’ tra i fondatori di una nuova teoria ormai dall’inizio degli anni 2000. E’ nuova forse solo perché se ne sente poco parlare e sono ancora in pochi i coraggiosi che provano ad applicarla.

La professoressa che introduce esordisce: “oggi ci siamo subito adattati all’argomento della conferenza e l’aria condizionata non funziona, è perfetto per oggi che si parla di non inquinare” (pur’ ‘o condizionatore è del 1224?).

Poi il professore inizia:

All’inizio della mia carriera ero un economista puro e duro, sono andato come un “missionario” a predicare l’economia in Africa negli anni ’60; poi sono diventato un “pagano”, ho smesso di credere nel progresso, nell’economia, nella crescita e sono diventato un profeta della Decrescita”.

Ma insomma cosa dice questa sua teoria, e di molti altri pensatori che lo hanno preceduto e seguito? Dice: signori la favola dell’economia che il prodotto interno lordo deve e può sempre crescere purtroppo non è vera, è come credere a Babbo Natale. Come potrebbe crescere all’infinito un’economia su un pianeta che invece è finito, limitato? Per crescere all’infinito occorrerebbero risorse infinite: energia, lavoro, materie prime; occorrerebbe anche una domanda infinita di beni, e per completare il quadro pure un posto infinito dove buttare i rifiuti di questo gigante che non vuole diventare mai adulto.

Bene: ogni sera al telegiornale ci raccontano quanto è aumentato il prodotto interno lordo. Il cronista è quasi sempre preoccupato perché la cifra è bassa, e scopriamo stamattina invece che dovrebbe essere contento. Il suo problema è che non vuole smettere di credere a Babbo Natale.

Però il professore ce lo spiega perché il cronista è triste: “siamo una società della crescita dove però non c’è crescita; ridotta all’austerità”, ecco tutto, ecco perché ci conviene cambiare.

La gente nell’aula continua ad arrivare. Ma si, meglio… in ritardo che mai.

Arrivano anche due signore e si siedono qui a fianco. Una inizia subito con un foglio di carta a soffiarsi, venendo da fuori fa caldo.

La crescita è uscita dai pozzi di petrolio e finirà con loro”, nel frattempo cita il professore. “Anzi forse è già finita probabilmente negli anni ’70, ma poi grazie alla magia, qualcuno che si chiama Alan Greenspan (ex presidente della Federal Reserve, la banca centrale americana) ha fatto sopravvivere il mito della crescita, con il consenso di tutti, e si è inventato il modo di tenerla in vita per trent’anni: con la speculazione finanziaria ed immobiliare”, una specie di flebo su un malato terminale.

Oggi non c’è più neanche quella, siamo ad una crescita che è di circa lo 0,4-0,5 per cento. Peccato che il margine di errore delle statistiche sia dello stesso ordine: è come dire che si, state tranquilli, l’organismo sta crescendo di 4-5 centimetri all’anno, bene, bene, solo che la crescita la misuriamo con un metro che può sbagliare di circa 4-5 centimetri all’anno. Non si può misurare Babbo Natale.

Lo slogan in questi anni” dice il professore era: “vincente, vincente, vincente”, quello del modello in atto. Cioè secondo alcuni vincevano gli operai, lo Stato e anche gli industriali. Sfortunatamente ci eravamo scordati che ci sono un quarto e un quinto soggetto, si chiamano Terzo mondo e Natura e loro stavano e stanno perdendo.

Sembra che nella storia ci siano state finora cinque scomparse delle specie, la prima fu quella nella quale scomparvero i brontosauri; oggi siamo alla sesta dice il professore: “la differenza rispetto alle altre è che ha alta velocità, che è causata dall’uomo e che l’uomo stesso potrebbe essere a sparire”.

Sono le 9.42 e l’aula è finalmente piena. La signora a fianco si sta ancora soffiando, non era il caldo di fuori, è che sta proprio agitata: un poco guarda i social sul suo cellulare, un poco chiacchiera con l’amica. Ma non è colpa sua: ci ricorda questa società, presa sempre da mille pensieri, un poco ascolta ma poi si distrae, in un mondo che si sta riscaldando.

Ma da dove viene la parola Decrescita?: “è una parola che non ho mai usato fino al 2002, anche se avevo già scritto un sacco di libri su questi argomenti. Poi è venuto questo nuovo termine come uno slogan per contrastare un altro slogan, fantastico e mistificatore, che è quello di “sviluppo sostenibile” che aveva inventato negli anni ’80 una gang di tre criminali in colletto bianco”, cito testuale, “il principale è Stefan Schmidheiny (ndr: erede proprietario delle aziende Eternit, condannato nel 2012 a 18 anni per disastro ambientale dovuto all’amianto nelle sue aziende italiane, tra le quali quella di Bagnoli, dalla Corte d’Appello di Torino, poi prosciolto nel 2014 dalla Corte di Cassazione per intervenuta prescrizione del reato), Maurice Strong (ndr: petroliere canadese) ed Henry Kissinger”.

A Stoccolma nel ’72, alla prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, era stato creato il neologismo “ecosviluppo”, ma non gli piaceva, non tirava abbastanza: quelle tre lettere iniziali spaventavano troppo la lobby degli industriali americani, soprattutto da quando avevano visto che invece piaceva ai Paesi del sud del mondo perché richiamava l’idea di un nuovo ordine mondiale.

Un’altra cosa “bella” ci racconta questo signore, è quella che diceva la signora Tatcher, la lady di ferro del governo britannico, che citava sempre una certa TINA: “There Is No Alternative”, che tradotto è: “nun ce sta n’ata via”. Cioè, spiegateci, non c’è alternativa a credere all’omone con la barba bianca ed il vestito rosso?

Da società con un’economia di mercato siamo diventati una società di mercato (in pratica dice il professore si rischia che tra poco ve putit’ accattà e venner’ qualunque cosa, pure ‘e figli, ‘a mamma, ‘a suocera).

E invece, allora, cosa dovremmo fare? Se vogliamo credere che non esiste Babbo Natale?

L’abbondanza frugale, il circolo virtuoso delle 8 R: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare…” hanno sviluppato in questi ultimi anni: ripensare il mondo, la vita, recuperare i valori che ci rendono umani, la condivisione, mettere al centro i valori importanti, non i beni materiali. Recuperare, riparare le cose, non buttarle e pace. Ridurre l’orario di lavoro: la società della decrescita non è fondata, come dice la costituzione italiana, sul lavoro.

Il professore:“un lavoro di merda porta ad una vita di merda” e scatta l’ovazione. E ci sono due forze che ci spingono oggi nella direzione giusta: il desiderio di un mondo migliore (solo che non abbiamo tanta forza per uscire dalla tossicodipendenza, quella che ci fa fare le file alle quattro di mattina davanti al negozio per essere sicuri di avere l’ultimo smartphone) e quello che lui chiama “il calcio in culo”: la minaccia della sesta scomparsa delle specie.

Poi finisce il suo intervento e c’è qualche domanda che gli consente di specificare che lo Stato sta diventando uno strumento di oppressione: dà sempre più spazio alla privatizzazione mentre dovrebbe mantenere ampi spazi di bene comune. Aria, acqua, anche il denaro, vanno trattati da bene comune. Che la società va descolarizzata come dice Ivan Illich, perché la tecnoscienza ha assunto un ruolo che va oltre la ragione.

Riesce a citare pure Gandhi, che sembra avesse detto: “c’è voluto un pianeta intero per lo sviluppo industriale dell’Inghilterra, adesso dove troveremo i dieci pianeti che servono per lo sviluppo dell’India?”. Quel vecchietto coi sandali e senza denti vedeva chiarissimo e lo diceva pure.

Poi il professore dice la cosa più saggia: ”adesso ho raggiunto i miei limiti, sono un poco stanco”. Il concetto di limite, quello centrale in questa nuova teoria, quello che avevamo citato all’inizio di queste righe. Dopo che ci hanno spinto a competere sempre, ad andare oltre ogni possibile confine, il professore dice: per oggi ho raggiunto il mio limite, se volete possiamo parlarne in un altro momento.

E’ un bellissimo esempio, perché la società della decrescita si fa passo per passo, e soprattutto come dice lui “decolonizzando l’immaginario”. E i giornali in questo hanno una grande importanza: bisogna costruire una bella controinformazione.

Vi abbiamo dato degli spunti ma l’argomento è vasto, se volete approfondire il professore ha scritto mille libri e ne continua a scrivere. Noi vi consigliamo di leggerlo, parla di tutti noi dentro un futuro bello e soprattutto vero.

Un buon libro per approfondire: “Breve trattato sulla Decrescita serena”, S. Latouche

Poi c’è il giornale a cui lui collabora, ne aveva una copia sulla cattedra in aula, a fianco all’orologio da tasca. Eccovi il link, si chiama La Decroissance, il giornale della gioia di vivere.

Testo e foto Francesco Paolo Busco