TRA LE TERRE MUTATE – A tre anni dal terremoto siamo stati a Norcia e Pescara del Tronto

24 agosto 2019

So’ tre anni che c’ho addosso come ‘no scoraggiamento”.

Mi è rimasta impressa questa frase.

Scendendo, quest’estate, un po’ in giro per l’Italia, dalla Toscana verso sud, avevamo l’ idea di andare a vedere di persona anche alcuni paesi dell’ultimo terremoto. Arquata del Tronto, Accumoli, Norcia della Basilica di San Benedetto che in televisione si vede cadere l’ultimo pezzo che aveva resistito alla prima scossa forte. Sono nomi che suonano nella testa familiari anche senza esserci mai stati.

Norcia

Arriviamo a Norcia e si parcheggia fuori dalle mura. La porta del paese è puntellata coi tubi. Si entra a piedi e la strada è dritta, arriva fino alla piazza della basilica che coincide con la piazza principale e sbuca dall’altro lato in un’altra porta. In mezzo un sacco di ristoranti e negozi, molti, dopo tre anni, ancora chiusi. Sulle loro porte c’è quasi sempre un cartello che dice in sostanza: ci siamo trasferiti fuori.

Hanno costruito, subito fuori dalle mura, in legno e vetro. A tante travi. Più tardi, a cena, in alcuni di questi locali, di gente ne vedremo parecchia.

Invece dentro il paese, dai quattro angoli delle finestre quasi sempre partono le lesioni che spaccano i bordi delle porte. Hanno messo dentro ogni vano una X di legno molto forte per aiutare il tutto a mantersi in piedi. Poi ci sono le travi d’acciaio fuori e i puntelli di funi.

Un carretto aperto di pasticciere sta davanti al negozio chiuso con lo stesso nome. Adesso vendono i loro dolci come se fossero ambulanti ma stanno sempre fermi in quello stesso metro di strada, davanti alla vecchia insegna del loro locale: ad Assisi subito hanno ricostruito, qui a Norcia sono passati tre anni e ci hanno lasciati praticamente soli.

Sui lenzuoli stesi lungo le vie c’è scritto in rosso la rabbia per l’abbandono che sentono gli abitanti; sul muro di ferro che corre lungo la basilica: “Vergogna”, e qualche giorno fa per questa scritta qualcuno ha sgridato l’autore: dice che è vandalismo. Forse bisognerebbe guardare meglio al peso relativo delle cose. Ogni tanti metri mentre si cammina uno legge questi lenzuoli, guarda intorno, e cerca di capire.

Norcia

Ma è il giorno dopo che sento quella frase.

Pescara del Tronto

Stiamo andando verso Arquata del Tronto, ma prima, lungo la strada, c’è Pescara, una frazione. Le prime case crollate quasi del tutto. A fianco un albero perfettamente in piedi.

Pescara del Tronto

C’è un giardinetto con i giochi per i bambini: dentro stese tante magliette con ognuna una foto. Poi capisco che sono quelle degli abitanti del paese che quella notte del 24 agosto 2016 non hanno più lasciato questo posto.

Andiamo un po’ più avanti con la macchina. Mi fermo a fianco ad una casa che ce n’è solo una parte.

Attraversiamo la strada per guardare verso il paese che sta subito sotto. Quando esco dalla macchina mi viene incontro un cane. Non abbaia, neppure quando mentre mi cammina attorno, non lo vedo e gli calpesto una zampa. Venti metri più avanti, sull’altro bordo della strada, c’è un signore. È troppo buono, è il cane suo.

Gli chiedo se è del posto. E sì, vedete, la mia casa stava proprio qui in basso. Venite, tra gli alberi, si vede un poco. Il trattore sta ancora lì sotto.

Non potete più farlo salire?

Non c’è più neanche la strada.

Guardo avanti a me per cercare qualche riferimento, qualche traccia di dove passasse quella strada ma non ci riesco.

Sbalzati fuori

Quella notte a casa eravamo in quattro: mi hanno tirato fuori dalle macerie mio fratello e mia cognata. Se passava un’altra mezz’ora o un’ora credo che restavo senz’aria.

Loro due sono stati sbalzati fuori dal terremoto. Dice proprio così: “sbalzati”, come se si fosse trattato di una cosa, potente, veloce, come un incidente d’auto, quanto si deve essere mossa la terra alle 3.36 di quella notte.

Parlando con lui alla fine capisco che Pescara del Tronto è quel cumulo sparso di macerie sul fianco della collina davanti a noi in basso, un poco a destra.

Pescara del Tronto

Sono passati tre anni ma se guardate intorno sembrano passate un paio d’ore. Le rovine stanno lì, sparse uniformemente. Il paese sgretolato a caso.

I lavori di sgombero delle macerie erano cominciati, poi li hanno interrotti perché pare che la ditta avesse problemi di camorra. Mo stanno ricominciando e stanno lavorando meglio. Quelli di prima portavano semplicemente via tutto, adesso prima cercano se ci sono oggetti da recuperare e restituire alle persone.

E adesso dove state?

Molti hanno accettato il sussidio e stanno in fitto nei paesi vicino al mare. Molti con i bambini che ormai vanno a scuola, figuratevi se tornano. Io e altri due abbiamo qui sopra, in quella tensostruttura, delle pecore. È un scusa per tornare qui. Per camminare ogni giorno vicino al paese, io penso.

Camminare nel paese è impossibile, non ci sono più le strade. Prima neppure dove siamo adesso si poteva stare. Adesso è più facile. All’inizio ogni volta bisognava mostrare i documenti di residente per passare.

Adesso abbiamo le casette di legno, giù nella valle, vedete, a qualche chilometro laggiù in basso, c’è tutto, però non abbiamo più il paese, e le persone soprattutto. Il trattore si può ricomprare, le cose non sono un problema grande, ma le persone chi te le restituisce?

Le casette sono provvisorie. Il paese lo vogliono ricostruire un po’ più avanti sempre laggiù: hanno fatto i sondaggi del terreno e dicono che è buono.

Faccio caso adesso che in mezzo alle case distrutte, sotto, sembra un poco come di sabbia, chi sa se ha a che fare col nome di questo posto: ”Pescara”. Forse c’era un fiume.

Abbiamo parlato una mezz’ora e lui guardava quasi sempre verso una direzione: dall’alto della strada davanti in basso, verso la sua casa.

Poi poco prima che ci salutiamo mi dice quella frase: “so’ tre anni che tengo addosso come uno scoraggiamento”.

Lo saluto, fingo di dimenticare che l’ho già fatto, e la mano gliela stringo una seconda volta.

A Pescara del Tronto, di circa centotrenta abitanti, quella notte ne sono rimasti per sempre fermi più di quaranta, la quarta persona in casa era sua mamma.

Diamogli un’idea, una prospettiva bella, a lui e a tutti i nostri paesi dell’Italia interna, ne hanno bisogno.

Il cammino nelle terre mutate

Il cammino nelle terre mutate

Alcuni ci stanno provando: quando scendiamo nel fondo valle a vedere le case provvisorie, nel bar, provvisorio anche quello, trovo sul bancone una guida escursionistica. Hanno creato un itinerario da percorrere a piedi, si chiama “Il cammino nelle terre mutate” va da Fabriano a L’Aquila in 14 tappe, ci sembra un ottimo modo per rimettere le energie in moto, per riconnettere le persone e i luoghi, per farsi coraggio a vicenda e ripartire in una bella direzione.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

BENI COMUNI – A Napoli “L’Asilo”, modello e riferimento sul tema usi civici

19 marzo 2019

Tutti sanno che la zona di via San Gregorio Armeno, a Napoli, è unica nel mondo, che ci si può trovare un’altissima concentrazione di artigiani del presepe.

Bene, benissimo, c’è un’altra cosa però proprio dentro l’edificio a fianco al convento che porta il nome di quel santo, che è particolarissima, addirittura fa scuola in Italia e in buona parte del mondo, si chiama Ex Asilo Filangieri.

Qualcuno lo conoscerà, qualcuno molto bene, altri penseranno che invece è un centro sociale occupato.

Bene, l’Asilo è una grande palestra di vita civile, di comunità e pure di diritto.

Si trova in un edificio di proprietà del Comune di Napoli, che viene però gestito, con esplicita approvazione comunale, dai cittadini, direttamente e, bisogna sottolineare, non da una qualche particolare associazione, o gruppo, o fondazione, ma semplicemente dagli abitanti, tutti, pure se solo di passaggio, che vogliono partecipare.

Mettiamo il caso che voleste presentare un libro, oppure produrre uno spettacolo teatrale e vi serve un posto adatto, grande, disponibile senza pagare. Sembra ‘na cosa un po’ fuori dal mondo, almeno da questo nostro occidentale, e invece se ci andate un lunedì verso le sette di sera potete proporre all’Assemblea (cioè alle persone che sono lì, come voi, in quel momento) la vostra idea.

L’Assemblea

Noi ci siamo andati per vedere se era vero.

C’è l’ordine del giorno proiettato sullo schermo; se non siete in quell’elenco di proposte però magari vi fanno aggiungere anche al momento.

Si va in ordine di prenotazione. C’è l’interessato che parla brevemente della cosa, e gli altri che controllano sui loro cellulari o via computer se c’è posto e quando, per la vostra proposta. Dipende soprattutto da quanto tempo vi serve, e quale spazio, a che ora.

Si vede subito che hanno pochissime barriere: cercano semplicemente di fare in modo che succeda. Ecco, l’unico controllo che fanno, o che magari vi invitano a fare voi stessi tornando di mercoledì, quando si riuniscono i tavoli più specifici dei vari spazi (il laboratorio che costruisce – loro lo chiamano Armeria ma di armi non ce ne sono -, il Teatro, il Cinema, l’Orto, la Biblioteca, il Refettorio), è se ci sono le possibilità concrete di realizzarlo, e se magari c’è qualcuno a cui la vostra idea piace quanto a voi e vuole aiutarvi.

Mi hanno raccontato che a volte da quei tavoli l’idea trova molti altri spunti, si integra, cambia un poco, si ingrandisce e si trasforma. È così per esempio che dalla proposta di un collettivo brasiliano di artiste di fare una piccola fiera di editori indipendenti, piano piano, parlandone, con l’aumentare delle connessioni, sono venuti fuori dieci giorni di eventi.

Loro la chiamano interdipendenza, perché il loro obiettivo, o uno di quelli principali, è svincolarsi sì, dalle dipendenze dal meccanismo economico, competitivo, egoistico, però anche tendere a creare in collaborazione, interdipendentemente.

Anche le decisioni, tutte, non vengono prese né da uno, né da dieci e neppure a votazione. Questo c’ho messo un poco di tempo a capire come; poi all’assemblea forse l’ho visto avvenire.

L’idea è che si discute fino a che non sono tutti d’accordo. Ma non è che si discute tutto in una volta fino allo sfinimento. Se non c’è nessun problema particolare la risposta è , usuale. Se invece c’è qualche difficoltà, o qualcuno è in disaccordo, si parla finché si riesce, poi magari si rimanda ad un altro giorno.

Certo per fare questo ci vuole più tempo, ma la qualità che viene fuori è quello che qui stanno cercando. È una palestra civile, in cui non conta il quanto, non conta neanche moltissimo esattamente il cosa, conta moltissimo per chi sta qui dentro il come si arriva al risultato finale.

Sono venuti, negli anni, dagli Stati Uniti, dall’Olanda, dal Belgio, da tutta Italia a vedere questo posto, a studiarlo, li hanno invitati altrove ad esporre questo nuovo modo di gestire spazi di tutti oppure sono venuti loro qui a prendere ispirazione.

L’Assemblea Nazionale dei Beni Comuni

Mo pensate che stiamo esagerando, amplificando soltanto. E invece proprio poche settimane fa si è tenuta qui l’Assemblea Nazionale sui Beni Comuni.

Siamo andati a vederla per cercare di annusare che aria davvero si respira, oltre le dichiarazioni.

Arrivo la domenica mattina e l’appuntamento è dentro al Teatro, al secondo piano del palazzo.

È un ambiente accogliente, grande, ben costruito: ci sono gli spalti sopraelevati, tutta la strumentazione audio e per le luci, il palcoscenico in fondo con tutte le funi.

Arrivo e mi chiedono semplicemente il nome e a quale dei tre tavoli vorrei discutere: quello sul Fare Comunità, quello Legislativo o quello sulla Piattaforma digitale.

Il motivo per il quale hanno pensato quest’assemblea è anche legato ad un fatto giuridico. Qualcuno sta proponendo a livello nazionale un regolamento, una legge ad iniziativa popolare, che sembra solo nel titolo occuparsi dei posti come questo, cioè dei beni comuni. In realtà se passasse, dicono loro, poiché dà delega al Governo (legge delega) di occuparsi del tema senza fornire chiare indicazioni (né condivise con quelli che negli ultimi anni hanno lavorato sul tema), su limiti e direzione da seguire, potrebbe avere effetti addirittura deleteri.

E allora l’idea, secondo il loro metodo, che è la cosa più bella e più nuova, è discutere, insieme, un’altra proposta. Ecco perché l’Assemblea. Però insieme a tutti e allora Assemblea Nazionale.

Poi qualche giorno dopo, per cercare di capire di più, chiedo ad uno di quelli che questo spazio lo “attraversano” (come dicono loro, perché abitarlo dà già idea di possesso, che è quello che qui non si vuole), perché quest’Assemblea proprio a Napoli?

Mi risponde semplicemente: perché l’Asilo, questo, a Napoli, è stato il primo che è riuscito davvero a realizzare queste cose. È da qui che è nato questo nuovo modo di pensare, cioè quest’idea di provare, di tendere, ad avere delle dinamiche di gestione di beni pubblici diversa, mai vista prima su questo genere di cose.

Una palestra di gestione

Poi Cesare mi racconta molto altro. A noi non interessa, o almeno questa è la mia visione, avere uno spazio pacificato, un posto dove tutto sembra scorrere liscio ma in realtà solo in superficie.

A noi serve che se il conflitto, la divergenza di opinioni, c’è, che venga fuori. Così ne possiamo parlare, possiamo portarla, per risolverla, dentro l’Assemblea.

Addirittura sai cosa è successo una volta? Era venuto fuori un classico caso che noi chiamiamo ormai di “spirito proprietario”. Cioè ogni tanto può capitare che magari qualcuno rovina qualche strumento di produzione, e allora qualcun altro se la prende un sacco. Certo è comprensibile, perché magari aveva contribuito quello strumento a crearlo, però non è così che dobbiamo fare. L’idea, quello che vorremmo, se non proprio ci riusciamo esattamente però almeno la tensione vorremmo che sia quella, che nessuno si senta padrone dentro queste mura. Infatti non c’è neanche nessun affidatario.

E allora quella volta, appena l’argomento è venuto fuori, se n’è cominciato a discutere, ma non ancora in assemblea, semplicemente nei corridoi.

E piano piano così si è risolto, in maniera ancora più informale, parlandone a piccoli gruppi tra di noi.

Dentro l’Asilo, mi dice, non c’è neanche una divisione dei ruoli. Neppure un’attribuzione passeggera. Certo, quando si deve realizzare qualcosa, ognuno partecipa secondo le sue competenze, ma non creiamo gerarchie, cerchiamo solo buone collaborazioni.

Non so se sono riuscito a spiegarvelo bene, forse è una cosa troppo nuova, sottile e bella oppure è una cosa così semplice che per crederci davvero bisogna vederla.

Quello che vi posso dire è che all’assemblea nazionale c’erano oltre trecento persone dall’Italia e dal mondo (Bogotà, Tolosa, Londra, Marsiglia, Bolzano, Parma, Terni, Pozzuoli, Viterbo, Torino, Altamura, Spoleto, Pescara, Palermo, Pisa, Roma, Venezia, Mondeggi, Benevento, Caserta, Lanciano, S. Vito Chietino, Sambuca Pistoiese, Firenze…) e 43 spazi autogestiti o gruppi.

Sette anni dalla occupazione simbolica

Dal 2 marzo del 2012, quando si decise di fare un’occupazione simbolica di questo posto che doveva durare tre giorni, sono trascorsi sette anni e quest’Asilo a noi sembra tra le più belle invenzioni.

Qui dentro ci sono la sperimentazione artistica, quella del modo di decidere, di interagire, e quella legale: perché per poter gestire questo posto in questo modo si sono inventati un nuovo istituto giuridico, quello di bene comune ad uso civico collettivo urbano.

Ci raccontano spessissimo di progressi materiali, tecnici. Le fanno passare come grandi invenzioni, ma forse a noi servono progressi evolutivi interni alle persone, più che nuovi beni ipertecnologici materiali. Questo, come sta scritto sul cancello, è il posto della comunità dei lavoratori dello spettacolo e dei beni immateriali (che dovremmo essere tutti), l’Asilo, e a noi sembra una delle più belle scuole. Ci sembra un posto avanzatissimo, anni luce più avanti della Silicon Valley.

Questo è il loro sito, qui trovate il regolamento sviluppato insieme alle istituzioni del Comune. Ci hanno detto che nell’ultimo giorno in cui l’hanno scritto, a Napoli, non si riusciva più a riconoscere, seduti ai tavoli, chi era dell’Asilo e chi della Giunta comunale.

Sembra che all’inizio di quell’occupazione di tre giorni, sul portone avessero scritto: Arrendetevi siamo pazzi. Quelli che li assediavano si sono arresi, loro, fortunatamente per noi, non sono ancora guariti del tutto.

A San Gregorio Armeno, lo sanno tutti, c’è una cosa bellissima, patrimonio del mondo, unica. Venite!

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

INCONTRI – A Procida c’è la famiglia Di Candia: così si tramanda la tradizione dei maestri d’ascia

27 ottobre 2017

Ci raccontano quotidianamente del lavoro automatizzato, fatto dai robot, e dei posti di lavoro che scompaiono. Che resistono, per i costi bassissimi, solo in Cina, a spese però del tenore di vita dei lavoratori cinesi e dell’inquinamento delle loro città: “la fabbrica del mondo” ormai la chiamano. Allora noi andiamo a cercare i nostri artigiani, quelli che lavorano con le mani, ma pure con la testa e il cuore. La più bella specie di lavoratori.

Ci hanno detto che a Procida, alla Corricella, c’è una famiglia di maestri d’ascia: quelli che fanno le barche, di legno, per i pescatori.

Ci imbarchiamo da Pozzuoli, la giornata è bella, già il viaggio in traghetto merita l’uscita. Appena sbarcati una piacevole sorpresa: andiamo verso le biglietterie per informarci sugli orari di ritorno e … pare l’Olanda, ci sono decine di biciclette parcheggiate (molte a pedalata assistita), come nei parcheggi del nord Europa.

Bello: l’isola si muove più rapidamente del capoluogo in direzione della mobilità pulita.

Il borgo con le case colorate sta vicino e ci andiamo a piedi. Scendiamo la scalinata e, appena in basso, un gruppo di giovani che aggiusta le reti. Poi ci sono i ristoranti. Pesca e ristorazione, le due cose sembrano la stessa: stanno attaccati e sembra quasi che ci lavorino le stesse persone.

Camminiamo lungo la banchina, con il mare a sinistra, e leggiamo “piazzetta Massimo Troisi”. Dove abitava la Cucinotta nel film “Il postino”. In fondo dovrebbe esserci il cantiere.

Ecco la prima barca, a vela, con un piccolo albero, un Dinghy. Poi altre due stanno in fila indiana. Sapevamo che la famiglia Di Candia ama in particolare questo tipo di barche. Barchette di 12 piedi, meno di 4 metri, forse la prima barca a vela di piccole dimensioni ad essere usata per diletto. Negli anni ’20 ci facevano addirittura le Olimpiadi, e ancora viene usata: in Italia e all’estero le regate ce le fanno ancora. Le più nuove sono in vetroresina ma sono molti quelli che amano, e ci navigano, quelle di legno.

Davanti la porta c’è un giovane con gli occhiali: buongiorno, Rosario; eccoci siamo arrivati. Ci guardiamo un attimo in giro, e cominciamo a parlare.

Noi ripariamo le barche per i pescatori, barche fino ad una certa lunghezza, almeno in questo posto. Se si tratta di lavori su barche grandi li facciamo ma appoggiandoci in qualche altro cantiere. Questo angolo dell’isola è una specie di merletto, non si può invadere con grandi strutture. Vicino al banco da lavoro c’è il padre di Rosario, Salvatore, che, ormai in pensione, sta costruendo un modellino di galeone. Quella dei Di Candia è una tradizione familiare. Il nonno Vincenzo era comandante sulle barche a vela da ricchi, i classe “J”, quelli che negli anni ’30 si disputavano la famosa Coppa America; barche bellissime, slanciate, di più di 20 metri.Nel frattempo lo vengono a chiamare:

Don Salvato’ ci sta la barca per la festa di stasera che si dovrebbe armare, sulo tu ce può da’ na mano.

Stasera c’è la festa di San Michele, la prima edizione, e qui nel porto c’è ormeggiato un grande gozzo a vela. Solo che le vele le avevano tolte, per semplificare andavano solo a motore; oggi per la festa la vogliono rimettere in pieno splendore.

Don Salvatore: Ma nun se po’ ffà accussì veloce.

E si, don Salvatò, sta tutt a bbuord, nun’ ce manca niente: la randa , i fiocchi, nun ce vo assai tiempo.

Vabbuò, iamm’, mo vengo a verè

E il modellino resta fermo, per ora rimane a navigarci sopra soltanto una matita.

E noi ci facciamo raccontare da Rosario questa tradizione dei Dinghy:

Mio padre Salvatore, da ragazzo, quando cominciò ad apprendere i rudimenti della vela, a Posillipo, si appassionò a questa barca. Era il suo sogno averne uno; dopo anni finalmente riuscì a comprarlo, ma da rimettere in sesto.

Negli anni successivi abbiamo fatto ricerche e siamo riusciti a scoprire che è stato costruito a Napoli, a Santa Lucia, nel 1934, dal maestro d’ascia Domenico Fiorentino. Era un costruttore molto apprezzato all’epoca: lo chiamavano “matrtelluccio d’oro”. Ce l’abbiamo ancora, è tutto in legno, pochi anni fa lo abbiamo di nuovo rimesso perfettamente a posto.

Ah, e lo dobbiamo vedere.

Sta la vedete, sopra il soppalco.

In effetti sopra il soffitto dell’officina, spunta la poppa di una piccola barca. Si legge pure il nome: c’è scritto “Hombre”.

Chiediamo a Rosario se si può salire. Rosario inizialmente è un poco restio, ma vede che la cosa ci piace troppo e allora cala la scala a pioli, l’appoggia al muro e ci fa salire. Legno, luce di una stanza col soffitto a volta, polvere pure (ma ‘sta polvere sembra diversa, a Procida, mo penserete che stiamo esagerando, ma pur’ a povere pare pulita).

E’ una bellezza, in perfetto stato. Si vedono le parti nuove, ma senza contrasto; il boma, l’albero. E’ bella già a vederla qua sopra, in acqua, con le vele issate, adda essere nu spettacolo.

A fianco, parallela, vediamo un’altra barca; simile, ma non proprio. Rosario, e questa?

Questa l’abbiamo costruita noi da zero. E’ un po’ un incrocio tra un Dinghy e una barca da pesca. Le misure, la lunghezza, lo specchio di poppa sono gli stessi del Dinghy, però per esempio la prua vedete, sale inclinata invece che verticale.

Pure questa barca ha belle proporzioni. Pure questa sarebbe bello rivedere a mare.

Riscendiamo dentro l’officina.

Rosario come il padre Salvatore, si è diplomato all’Istituto Tecnico Nautico “Francesco Caracciolo” di Procida. Dopo una settimana che ero imbarcato, mi ricordo, piangevano tutti, allora capii che la mia strada era quella di mio padre, del costruttore, non del marinaio; che non valeva la pena rinunciare ad una eredità di conoscenze che mi era stata tramandata da mio padre su come costruire barche, per vivere sulle navi.

Attaccate al muro ci sono delle sagome di legno: degli scafi in miniatura. Rosario ci spiega che quelli sono dei modelli. Per progettare una barca loro partono da lì, da quel modello, perché così si vedono le linee d’acqua: si capisce davvero se la barca cammina.

Poi mi fa vedere un modello che è stato tagliato a fette (poi lo ha rincollato) e da quelle fette, poggiate sulla carta, ha ricavato il disegno delle varie ordinate.

Oggi per progettare le barche si usano i computer: si creano disegni di un modello tridimensionale, ma solo il modello reale può davvero rendere la tridimensionalità; quelli al computer sono solo disegni, in prospettiva, ma in realtà sempre a due dimensioni.

E quella dei modelli è un’attività che Rosario sta sviluppando ultimamente. Le manutenzioni alle barche vere gli lasciano tempo libero per quest’altra attività. Anzi insieme con la fidanzata, Morena, ha pensato ancora più in grande. Si chiama “Stella Marina”: su un piccolo palco, fatto a forma della tolda di una nave, saliti su una scaletta, si può vedere lui mentre costruisce i modellini delle nostre barche tradizionali, e se vi piacciono li potete comprare. Morena poi, con i piccoli pezzi di legno che rimangono dalle lavorazioni di modelli e barche, invece sapete cosa fa? Crea, per le donne, piccoli gioielli.

Nuove idee per continuare ad essere artigiani.

Salutiamo Rosario e ritorniamo verso il porto. Ecco la barca a vela che era andato ad armare don Salvatore, pronta per la festa di stasera.

Le vele sono issate. Con lo sfondo del borgo dietro sembra una foto d’epoca a colori. Un gruppo di turisti tedeschi, con la guida, si riposa e sta lì a guardare.

Ah, oppure potete provare a spedire il vostro gozzo da riparare in Cina; ma non sono esattamente sicuro che ve lo sanno aggiustare.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

TRATTORIE STORICHE – Da Cibi Cotti (Nonn’Anna): un pranzo a Mergellina, un pranzo napoletano

26 novembre 2018

Sabato mattina sono sceso a piedi verso il mare.

È l’una passata, c’è vento di scirocco che alza le onde e la temperatura dell’aria. Sono un poco stanco e tengo fame. Inizio a tornare verso casa ma non sono del tutto convinto.

A via Caracciolo un signore aspetta il verde sulle strisce pedonali in pantaloncini e a torso nudo: lo scirocco non porta solo caldo, ma, avevo sentito, pure una certa dose di “spirito creativo”. Una signora con la nipotina in braccio lo guarda seduta sulla panchina di fronte. Le passo vicino, ci guardiamo e le dico: fa caldo. Lei sorride, e tutto ritorna normale.

Poi mi ricordo che qua vicino c’era un posto bello dove si poteva mangiare, stava dentro il mercato coperto, tra la Torretta e il mare, ci manco da molto tempo e sono curioso di rivederlo.

L’antica trattoria alla Torretta

Arrivo, entro nel mercato, è tutto uguale. In fondo, nell’angolo a sinistra c’è la porta del locale.

C’è gente che staziona fuori. Chiedo se è la fila o bisogna lasciare il nome. Sì è la fila, si aspetta, mi dice un signore.

Mi fermo dietro di lui e aspetto.

Qualcuno dopo un poco esce: ch’ casin’, mammà, a famme è famme. Dentro evidentemente c’è un poco di ressa, di confusione, non si capisce l’ordine, l’appetito fa confondere il rigore: è, detto male, quello che capisco che voleva dire.

Però il signore di fondo sembrava contento, un poco stressato ma contento.

Aspetto.

Poi arriva un altro avventore. Si mette in fila ma non troppo. Mi faccio subito l’idea che sia il classico esperto di file napoletane: arrivano dopo, ma un millimetro alla volta, con moltissimo garbo, dopo dieci minuti stanno annanz’ a vuje. La fame è fame, so’ d’accordo, e allora glielo dico: guardate che la fila però inizia lì. E indico il punto più lontano nell’universo dietro le mie spalle.

Allora lui si sposta indietro di qualche centimetro. Né più né meno di quelli che servono per rassicurarvi, che avete ragione, che lui sta dietro, nun ce sta problema.

Passa qualche minuto e la fila non si muove. Stamme tutt’ quant’ alla stessa distanza dalla porta dell’inizio di questa rappresentazione. È qua che arriva il colpo di genio, il tocco dell’esperto, del napoletano superiore: ma quello, sapete, il posto per uno sempre si trova, è se siete in parecchi che c’è problema.

Io sto da solo, mi sono messo dietro perché sono arrivato dopo, avete ragione, però qua, da soli, l’uso è che uno, se è cliente, se è della zona, se sa come funziona, non la città, assolutamente, ma proprio questo posto, si infila, ma non saltando gli altri, salta solo quelli che sono in tanti, capite, nun sta prevaricando, ha proprio tutto il diritto di entrare. Lui aveva detto le poche parole di prima, questa qui è la mia “traduzione”.

Io non gli dico se appartengo a un gruppo o sto da solo. Non gli dico proprio niente, penso.

Poi me lo chiede lui: ma voi in quanti siete? Pure io sto da solo.

E lui capisce che il gioco è fatto. Entra, ma non solo per lui, entra davanti per farmi da esempio, mi chiama con una mimica sottile, neppure con i gesti, ma neanche del tutto con le parole, forse lasciando un millimetro di spazio dietro di sé, per farmi posto, non lo so neppure io esattamente, forse con l’esempio.

Insomma mi ritrovo pure io che so trasut’ saltando gli altri, ancora nunn o saccio si agge fatt bbuon, però non mi sento molto in colpa, forse è molta più la fame.

È talmente abile, sicuro, c’ha il giusto tatto e totale visione che da adesso in poi lo chiamerò Virgilio, come la guida di Dante, e che a Napoli tiene la tomba a pochi metri da questo ristorante.

Un napoletano particolare, una specie di Virgilio

Bene, il mio Virgilio si avvicina al cameriere, gli dice che sta da solo, se ci sta un posto, anzi che pure sto signore sta da solo, se ci trova un posticino per due.

All’angolo più vicino alla cucina e al bancone c’è un tavolino libero; ci possiamo sedere. Ci porta le posate, i tovaglioli e tutto. Io nel frattempo seguo a Virgilio che sta al bancone dove si chiedono le pietanze per portarsele al posto.

Conosce i nomi di tutti i lavoranti, pure del cuoco, e gli chiede se c’è qualche piatto che mo sta uscendo. La pasta e fagioli ‘ o verite, è uscita in questo momento. E lui pare contento.

Un altro po’ di esperienza serve pure al bancone. Stiamo io e lui in seconda fila. Annnanz’ ce sta nu sacc e gente, in prima linea. Noi stiamo ad aspettare, soprattutto io.

Le persone che fanno i piatti dietro al banco si muovono veloci, velocissime, ma a dirvi il vero a me me pare che nun succere niente. Annanz a me ci sta sempre lo stesso signore. Non ho capito se sta pensando bene cosa vuole mangiare oppure nun riesce a intercettare l’attenzione della cuoca aret o bancone.

Virgilio invece, ma già lo avete capito, dalla seconda fila già ha ordinato il primo piatto, la pasta e fagioli fumante. Io so principiante e mi so fatto solo un’idea che vorrei la pasta e patate al forno, ma dalla seconda fila non ho le arti di Virgilio mago e ripenso alla frase di quel signore che uscendo, vi ricordate, aveva detto: che casino, ‘a famme è famme. Ora capisco. Il quadro piano piano si sta delineando. Virgilio, in piedi a fianco a me, ordina pure il secondo, ma mo che sto capendo sfrutto quel millesimo di secondo di attenzione rivolta più o meno nella nostra direzione per ordinare la pasta e patate. Olè, il gioco è fatto. Ci sediamo, e buon appetito.

Questo posto mi piace.

Questo è un posto dove uno entra da solo e poi mangia insieme ad un tavolo a volte con quattro persone che non conosce, mi inizia a raccontare il mago. E a me viene in mente Michele a Forcella, dove questo è uno dei motivi più belli, oltre l’ottima pizza, per andare.

Nonna Anna

Poi gli inizio a chiedere la storia di questo luogo. Mi ricordavo di una signora anziana che abitava in questo posto. Sì, nonna Anna. È morta l’anno scorso, mi dice. Io lo avevo letto proprio su questo giornale. È quella nel quadro qua sopra, poi aggiunge.

Da fuori, aspettando, avevo fotografato un quadro particolare. Era troppo distante per capire il soggetto ma sembrava interessante. Da lontano m’ero fatto l’idea che fosse il quadro di qualche regnante. In effetti non avevo torto. Nel quadro ha proprio la corona: era la regina di questo posto.

Negli ultimi tempi si sedeva proprio dove state voi, aiutava a preparare qualcosa, asciugava le posate, o comunque stava qui a guardarsi intorno. Aveva cucinato fino a tarda età. Solo negli ultimi tempi stava seduta e basta.

Gli chiedo quando ha aperto questo locale e chi. L’anno non se lo ricorda ma ad aprirlo fu proprio la signora. Lo chiediamo ad uno dei camerieri che si muovono nei centimetri liberi in mezzo alla folla. Negli anni ’50 hanno aperto. Nonna Anna all’inizio cucinava un unico pentolone enorme di pasta e fagioli. E fa con la mano un segno che da terra sarà più di un metro.

Il mio commensale poi continua: Io ho lavorato qui in zona per molti anni e venivo sempre a mangiare qua, mo ci vengo pure di sabato. Ogni tanto si vede pure qualche personaggio famoso, attori, mi fa il nome di un avvocato che non mi ricordo, pure Ferlaino con la moglie.

Vengo qui a mangiare le paste mischiate, i piatti semplici, perché pure nei ristoranti ormai è difficile trovarli.

La pasta e patate al forno è buona, solo non è più caldissima, aveva ragione Virgilio, pure questa volta, che bisognava prendere quello che era uscito al momento.

In giro non mi sembra di vedere turisti stranieri però italiani di fuori ce ne stanno.

Finisco il mio pranzo, mi trattengo un altro poco, poi lo saluto e gli auguro un ottimo proseguimento con il suo secondo.

Mi avvicino alla cassa, dico cosa ho preso e la signora fa il conto. Primo, acqua e coperto tre euro e cinquanta; sì, tre euro e cinquanta. E pagati sulla fiducia, senza nessuna nota, diciamo in autodichiarazione. Mentre prendo le monete le chiedo di nonna Anna. Ha una faccia molto bella la signora, se siamo quello che mangiamo qua state a posto. Sì, era mia mamma, la signora nel quadro e nelle foto. Dietro al bancone, laggiù vedete, adesso ci sta mio figlio, Ciro, il nipote.

A che ora aprite poi le chiedo, più che altro per il gusto di sentirla parlare, pure un poco forse per tornare un’altra volta in un momento con un po’ meno di folla. Apriamo verso mezzogiorno e chiudiamo quando è finito quello che abbiamo cucinato. Se venite tardi però vi dovete accontentare di quello che trovate.

Un posto così non può esistere ovunque, in altri mondi o c’è la fila o è assente, si ordina e poi si paga quello che dice il conto. In questa città le sfumature sono assai di più e amplificano la realtà di molto.

Esco, Napoli mi ha colpito ancora.

Poi qua stavo scrivendo: l’amo. Ma le dichiarazioni d’amore, se uno tiene abbastanza coraggio, non si fanno a parole. Perché creano un ostacolo a chi le riceve, che poi si sente in obbligo in qualche modo di rispondere. Allora l’ho cancellato e mi fido di voi, faciteme o favore: nunn ‘o iate a dicere a’ gente.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)

BELLEZZA ALL’ALBA (3) – Sul monte Faito: escursione alla Croce della Conocchia

30 agosto 2018

Partiamo pure oggi alla ricerca di un poco di bellezza di mattina presto. Dopo Ieranto e il monte Epomeo, oggi andiamo a cercarla sui monti Lattari, quelli che percorrono tutto l’interno della penisola tra Sorrento e Amalfi.

Esattamente non sappiamo se è prestissimo della mattina di oggi o è tardi della scorsa notte. In autostrada traffico zero; sarebbe uno dei giorni di rientro dalle vacanze, da bollino nero, ma forse proprio con questa confusione temporale di date ci siamo smarcati. A Castellammare quasi saltiamo l’uscita tra sorpresa che già ci siamo ed eccezionale vista di notte.

Vico Equense dorme; e si inizia a salire. L’aria comincia a diventare fresca.

Siamo già un poco in montagna e… Ua’ che bella luna, è quasi piena e ha un colore caldo, sta per tramontare. ‘A facimme na fotografia? Appena finisco di dirlo compare una piazzola di sosta.

Se guardate la foto c’è una luna che lascia sul mare nero una striscia rossa. Siamo partiti per vedere bellezza all’alba del sole e per adesso fotografiamo un bellissimo tramonto del suo astro opposto.

Sul muro davanti ai fari dell’auto c’è un cuore grosso con scritto Per sempre, data 21/02; chi sa mo che scrivono, per chi e dove; speramme bbuone.

Continuiamo a salire lungo il fianco del monte, su un tappeto esattamente color asfalto tra due strisce bianche.

Sopra al Faito le macchine ci sono. Il villaggio è pieno. Forse questo posto si sta riprendendo. Saranno le ferie d’agosto, il caldo delle quote basse o la funivia dopo anni in funzione, si sta rianimando un luogo che raramente abbiamo visto abitato così fitto.

Poi si inizia a guidare in mezzo al bosco.

Arriviamo allo slargo sterrato dove si lascia l’auto per iniziare a camminare, ma è talmente presto che il buio è quasi perfetto adesso che la luna è bassa e non riesce a illuminare, e senza torcia non è il momento giusto. Allora saliamo altre due curve fino alla chiesa che sta proprio qui sopra; è San Michele Arcangelo, riaperta, dopo tre anni di restauri, a fine luglio scorso.

Il piazzale a fianco è ultra panoramico: appena uno scende dalla macchina viene preso dal freddo. Inimmaginabile da casa a Napoli ad agosto, meno male che la maglietta a maniche lunghe ce l’eravamo portata pur senza crederci del tutto; sta nello zaino e mo serve eccome.

Nella luce blu ci sono due sagome nere di monti: una somiglia ad un dente canino, triangolare, a punta, l’altra, squadrata, pare proprio un molare. Sono i nomi popolari di queste due montagne sopra al monte Faito: la seconda è la vetta più alta dei lattari ed il suo nome ufficiale è Monte Sant’Angelo (1444m slm), l’altra è il suo fratello appuntito, all’anagrafe montana è registrato come Monte di Mezzo.

Lo sfondo inizia ad andare nel rosso, il sole piano piano si fa notare.

Sul muro qui a sinistra, sotto la chiesa, c’è una parete di ricordi. Nomi di montanari e non, che amavano venire in questi posti in cerca di rifugio. Tra i nomi c’è quello di un signore che abbiamo conosciuto quando ancora andava per monti: era un uomo magro magro, silenzioso; lo avevamo incontrato dentro castel dell’Ovo, la sede bellissima del Club Alpino Italiano di Napoli, a mare. Be’ se stamattina sto qua lo debbo sicuramente anche a questo signore: è sua in gran parte la cartina che tengo nello zaino e anche l’ispirazione che animava chi per la prima volta, molti anni fa, mi ha portato qua sopra; allora lo citiamo, si chiamava Manlio Morrica.

Poi saliamo le scalette verso la porta della chiesa. E un altro Ua’ ci scappa quasi: ci avviciniamo in silenzio, si intravedono le sagome di un uomo col bastone e di uno con la mitra dei vescovi che parlano con un terzo addirittura con le ali; siamo capitati a disturbare un conciliabolo di santi. Questa chiesa è legata a San Michele Arcangelo, Sant’Antonino e San Catello: sono loro che si staranno consultando sugli ultimi lavori di restauro della chiesa nata qui sopra dalle loro mani.

C’è silenzio quassù. Lo sfondo è blu con strisce di rosso e rosa; in mezzo al nero in basso ci sono le luci gialle delle case. Da un lato si vede pure la nostra montagna di fuoco cardinale, e una statua della Madonna accerchiata da tralicci enormi. Ha le braccia aperte e pare provare a parlare a queste antenne che pensano di essere loro i veri emettitori moderni di segnale.

La luce adesso è sufficiente per iniziare a camminare. Allora scendiamo di nuovo le due curve, parcheggiamo e stavolta davvero si parte. Il numero del sentiero è 350 e coincide per un tratto col sentiero 300, cioè l’alta via dei Lattari: una strada solo per camminatori che va da Cava dei Tirreni fino a punta Campanella, 90 chilometri tra le montagne.

Noi stamattina ne percorriamo un piccolissimo pezzetto, vorremmo andare sul Canino, da tanto tempo non ci siamo andati.

Il percorso comincia benissimo, senza fatica, scendendo. Una vasca da bagno raccoglie l’acqua della Sorgente Scorchie per far bere le capre. Fresca, se vi siete scordati l’acqua, qui la potete prendere.

Dopo poco il sentiero diventa pianeggiante, poi in lievissima salita. Ci supera un gruppetto di persone: l’ultimo della fila ha sulle spalle un cestino agganciato ad un bastone. Per raccogliere i funghi ci vuole quello: così le spore riescono a passarci attraverso per tornare al terreno e far nascere altri funghi.

È una roccia a strati, calcarea, a tratti pare di camminare sopra una torta millefoglie. Se state attenti mentre camminate ricompare ogni tanto in alto la sagoma precisa dei due denti.

Terzo Ua’ della giornata: il sole sta sorgendo, sbuca da dietro montagne e nuvole in lontananza; una scintilla vivissima aguzza affilata rossa.

Ci fermiamo ad ascoltare finché non diventa un disco completo. Poi riprendiamo a camminare. L’aria fresca adesso è più rossa.

Sulla destra c’è un’altra sorgente. Questa è più bella perché esce da un pezzo vecchio corto di tubo metallico e gocciola sua una tavola di legno per poggiarci il secchio. Si chiama sorgente Acqua Santa. A fianco al tubo, se ci fate caso, sopra al muschio, crescono piccole piantine con le foglie aperte. Sulle foglie ci sono puntini neri: sono piante carnivore con sopra povere formiche appiccicate. È la Pinguicula crystallina, o erba unta amalfitana.

Poi se ci fate caso ogni tanto vedete una conca nel terreno, molto regolare, qualche volta magari al centro adesso c’è cresciuto un faggio, però una volta questi fossi li usavano per fare il ghiaccio. Ci ammassavano dentro la neve presa tutta intorno alternandola a strati di foglie. Poi la coprivano di terra per farla conservare fino ai mesi caldi, quando portavano a valle i blocchi per il beneficio di chi poteva comprarlo.

Dopo un po’ il sentiero fa una curva. Seguendola verso destra si andrebbe sul Molare, ma noi stamattina vorremmo vedere il panorama dalla punta del monte Canino, e allora andiamo dritto. Pochi metri e un cartello inchiodato ad un albero ci ricorda che quello che viene è un sentiero pericoloso. Lo sapevamo ma lo abbiamo fatto in passato, molto tempo fa, oggi siamo curiosi di andarlo di nuovo a trovare.

La prima parte è molto bella, non so esattamente la causa, forse perché è poco percorso, o sarà l’aria e la luce di questo momento: per qualche secondo non sembra di camminare davvero ma di stare dentro le immagini di un libro che parla di montagne. La traccia a terra a tratti è abbastanza battuta, allora il sentiero è ancora percorribile, ci viene da pensare. Poi dopo un po’ la stessa traccia diventa meno marcata, solo un lontano ricordo di passaggi.

Ecco il punto dove c’è una specie di scalinata naturale. Era uno dei punti dove stare attenti. Iniziamo a scendere, in mezzo alle piante sugli scalini, col frusciare delle lucertole nell’erba secca, disturbate mentre prendono il primo sole. Facciamo pochi metri però poi il mio compagno di viaggio, che oggi c’ha un ginocchio non in grande forma, pensa che per stamattina forse non è cosa. E gli diamo ragione. Il sentiero è impegnativo, se uno sta al meglio si può fare forse, ma con qualche dolore è meglio ritornare. Una delle cose belle che insegna la montagna è a capire che a volte ci si può pure arrendere, anzi che al momento giusto farlo è la migliore vittoria.

E sì, e allora cambiamo programma: ce ne andiamo a vedere il sole sulla cresta, andiamo alla croce della Conocchia, da dove si vede in un colpo solo tutta l’ultima dorsale di questa catena che con un piccolo salto arriva fino a Capri.

Torniamo all’ombra nel bosco di faggi che dà il nome al Faito intero. Si prende la curva che avevamo tralasciato e poi trovate scritto tre volte Conocchia in segnali vecchi e nuovi nello stesso posto.

Uau di nuovo quando compaiono li Galli tra le pietre del bosco. Si cammina un altro poco e ci sono altre antenne vicino a una casupola. Sembra tutto in disuso. Tenete presente quando l’antennista sopra il vostro terrazzo vi dice che da casa vostra si prende meglio il segnale del Faito e non quello dell’eremo dei Camaldoli? Ecco, ci piace vedere la televisione, però poi se andate su queste montagne trovate un sacco di ferro in tralicci e antenne senza più motivo. Forse una bella ripulita di questo ferro inutile sarebbe una bella missione.

Si cammina un altro poco ma non è faticoso perché è quasi in piano, e poi i polmoni, tutto il corpo, stamattina sembrano contenti: st’aria pulita e fredda dopo il caldo mette tutto in funzione.

Ecco la croce, è di ferro, tenuta da tiranti. Molti anni fa era piegata dal vento. In questo istante ha la stesso luccichio del sole. Questa è la fine della camminata di oggi.

Stamattina ci sono un poco di nuvole, lì in fondo Capri si immagina quasi soltanto ma non ce n’è davvero bisogno, perchè la bellezza oggi su questa montagna sta ad ogni centimetro di distanza, si sente lungo tutto il percorso. Ci fermiamo a sedere su un pezzo di roccia al sole, si sta meravigliosamente a respirare soltanto.

Poi si inizia il ritorno.

Un po’ più in basso sento un fruscio e intravedo un signore. Dopo un minuto lo incontriamo. Ha il gilet e i pantaloni lunghi, il bastone con la torcia nel manico per camminare di notte, i baffi e la barba che stamattina non s’è voluto fare, doveva svegliarsi troppo presto per andare a funghi. È la prima cosa che ci dice quando lo incontriamo: funghi oggi non ce ne stanno tanti, chi sa forse è il fatto che il bosco non è più molto pulito, a terra ci stanno un sacco di tronchi. Aggio truat sulamente questi due aglietielli, accussì e chiammammo. E tira fuori dalla tasca tre o quattro funghi gialli con le lamelle grandi. Gli chiediamo di vederli, dentro il loro odore ci sta tutto un bosco.

Poi ci viene un dubbio: mo chi sa se, in questa stagione di funghi che ci sembra davvero eccezionale per abbondanza, lui ci ha detto la verità o semplicemente difendeva il territorio di caccia dagli intrusi.

Ci chiede da dove siamo saliti: ah sì nuie a chiammammo a porta e Faito. Lui abita qui sotto e da come ce ne parla sembra che i sentieri siano come le autostrade, a lui andando a piedi qua sopra non servono, non servono tracciati per percorre un posto che è come le vostre tasche. Salutiamo e riprendiamo a camminare in questa mattinata che ci sembra calmissima.

Ancora fresco, profumi, idee buone, ci regala questa montagna stamattina. Camminare oggi non pesa, anzi solleva.

Poi in auto di nuovo verso valle. Solo prima una sosta al bar panoramico nel villaggio qui sopra. Ci piace scambiare due chiacchiere e dare un piccolissimo contributo all’economia di quelli che lavorano in alto, lontani dalle città, a quelli che si sforzano di stare un poco più vicini al cielo; il caffè e i dolci sono ottimi. Poi il ritorno a valle, nel tepore di agosto.

Se avete voglia di fresco di montagna non lontano da casa, il Molare, o la Conocchia sono un buon posto, si cammina meno di un’ora ad andare, altrettanto a ritorno. Se non andate all’alba potete arrivarci addirittura senz’auto: in circumvesuviana fino a Castellammare e poi da lì in funivia. Prima di andare guardate le previsioni del tempo e la cartina del percorso, attrezzatevi un minimo, ricordatevi di lasciare il posto come l’avete trovato o più pulito di prima, e poi buona escursione.

Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)