22 dicembre 2018
Sono quasi a Felitto, in Cilento. Sono un po’ in ritardo e sto facendo tre cose che in genere cerco di non fare: andare veloce, in macchina, senza guardare. Poi un cartello prima di un passaggio stretto: ponte medievale. Ha i muretti arrotondati e ci passo sopra, almeno così credo. Non ho tempo di fermarmi e vado oltre. Pochi minuti e sono a destinazione. Ci siamo dati appuntamento, con Rosi Di Stasi, a via Roma, la via centrale di quasi ogni paese, una vecchia cosa da cambiare. Ci ha messo in contatto Simona Ridolfi, l’ideatrice della “Via Silente”, un bellissimo percorso cicloturistico che fa il giro del Cilento interno, con qualche puntata sul mare. È la rete vera, quella delle persone.
Parcheggio e le telefono per gli ultimi metri. Le dico che sto davanti ad un ferramenta, le dico il nome che leggo sull’insegna ma non lo conosce. Poi, quando ci incontriamo, scopre che è quello di suo nipote: il nome, per quelli del paese, non c’è bisogno di essere letto.
Ha occhi azzurri e un viso aperto. I capelli cortissimi, appena grigi, forti. Ci presentiamo e saliamo in macchina perché mi vuole portare subito a vedere una cosa del paese.
Pochi minuti e siamo in uno spiazzo verde, alla gole del fiume Calore. C’è un piccolo lago artificiale: era della centrale idroelettrica comunale. L’hanno aperta a inizio ‘900, dava energia elettrica a più di quaranta comuni. La centrale è stata chiusa negli anni ’70 ma resta uno specchio d’acqua di un colore verde, e una diga bassa bassa di un cemento antico e un edifico che magari se ne potrebbe fare un museo mi dice Rosi. Poi mi porta su per un sentiero agevole, e nel frattempo mi inizia a raccontare.
In Germania
Ha vissuto in Germania per quarantatre anni, col marito. Mi sono sposata e sono partita, avevo diciannove anni.
Quando sono arrivata lì credevo di trovare ricchezza e invece ho trovato povertà. Quelli che dall’estero tornavano nelle feste al paese scendevano con macchine grandi e nel frattempo avevano magari messo su meglio la casa qui a Felitto. Poi andavi lì e vedevi che vivevano in baracche. Il lavoro c’era, però la realtà era dura, molto diversa da quella che raccontavano. Sembra di sentire certi racconti letti sui libri di Alessandro Leogrande: dei polacchi, ucraini, che vengono d’estate in Italia a raccogliere pomodori, trovano a volte caporali che li sfruttano in modo disumano ma loro non raccontano molto queste cose e non tornano a casa fino a quando non hanno racimolato un po’ di soldi: tornare senza sarebbe troppo un disonore.
Mio marito lavorava in una fabbrica di tessuti. Anche io avrei voluto lavorare lì ma lui all’inizio mi convinse a stare a casa e dare una mano a sua sorella con i suoi bambini. Ma a me mancava mia sorella piccola, l’ultima di otto fratelli, se dovevo accudire qualcuno volevo accudire lei, in Germania non c’ero venuta per questo. In Germania ogni giorno piangevo. Poi una mattina sono andata a cercarmi un lavoro, così, da sola. Mi hanno detto: “da domani se vuoi puoi iniziare”.
Rosi ha fatto mille lavori: ogni volta, nei suoi racconti, inizia a svolgere una mansione in un luogo di lavoro, poi si rendono conto del suo valore, ma forse non è neanche solo quello, il termine giusto credo che sia entusiasmo e apertura e voglia di fare, rispetto per se stessa e per gli altri, avere sempre una buona parola. Ecco è la disposizione buona verso il mondo, mi pare d’intuire, che le ha aperto mille porte.
Lavoravo alla fabbrica di elastici. Inizialmente facevo lavori semplici, pulivo le macchine, poi piano piano sono arrivata fino al livello in cui potevo svolgere qualunque mansione. E mi dice la parola in quella lingua con il suono forte.
Poi la fabbrica di mio marito chiuse.
Ma lei non si perde d’animo, cambia lavoro. Inizia a fare le pulizie in una casa per anziani comunale. Dopo un poco i medici, e quelli del personale, le chiedono di fare un corso per diventare infermiera professionale. Lei fa il primo anno, ma poi con due figli, un marito e tante ore di lavoro al giorno, non se la sente più di studiare. Ma quelli insistono. C‘era un medico che mi disse: lo devi fare, hai le capacità, se avrai difficoltà a curare gli anziani mi puoi chiamare a qualunque orario e ti darò tutto il mio aiuto.
Allora piano piano mi convinsi e continuai. Io quando stavo in Germania mi dicevo: “dobbiamo prendere il più possibile”, ma non nel senso di portare via, nel senso di cogliere tutte le opportunità che quel luogo ci offriva. Mio marito anche pensava sempre di voler tornare. Lui però era un po’ diverso da me, lui non si è immerso completamente nell’ambiente, si è mantenuto sempre un po’ distante. Poi dice una cosa pesante: lui lì ha vegetato, non ha vissuto.
Il coinvolgimento nelle istituzioni
Lei ha avuto incarichi anche nel consiglio comunale e nel consolato italiano era rappresentante dei genitori. Ogni anno si organizzavano viaggi di formazione per noi del consiglio comunale. Viaggi in cui si andava a visitare qualche cosa di interessante, non so, una centrale dove producevano elettricità dal biogas o cose del genere, perché così potevamo prendere ispirazione e magari riprodurle da noi. Ecco, mio marito non è mai voluto venire anche se il coniuge era sempre previsto e gli altri mariti venivano spesso. Lui pensava molto a tornare in Italia.
Poi si è ammalato e allora mi ha chiesto di tornare al paese. E così siamo tornati.
Mi indica delle piante sulla roccia: li vedi questi, sono gerani, normalmente crescono a quote molto più elevate ma in questo posto c’è un microclima particolare che gli consente di durare.
Poi saliamo su un ponticello di ferro stretto stretto, fa quasi impressione, siamo in alto esattamente sopra il fiume Calore. L’acqua pulita si capisce da lontano. Le lontre qui ci sono ancora, anche qualche giorno fa le hanno riviste.
Poi continua.
Adesso che sono qui, di nuovo a Felitto, e mio marito non c’è più, ho pensato di mettere su un’associazione, sai perché? Se riuscissimo a fare in modo che uno solo, almeno uno, dei nostri giovani, non debba andare via da qui, non dico che non debba viaggiare o andare a vivere fuori per un periodo, ma che non debba andare all’estero per forza, allora sarei soddisfatta. È questo il nucleo, l’idea di fondo, quella che anima molti dei gesti di Rosanna oggi.
Si chiama come il marito l’associazione di Rosi: “Pasquale Oristanio”.
Poi mi invita a casa, a pranzo, e conosco Donato, un artista, pittore, il suo compagno adesso. Al piano di sotto è pieno dei suoi quadri. Me li mostra Rosi mentre Donato cucina oggi. Credo sia uno dei pochi casi al mondo, ora che ci penso, di un artista che riesce a stare, mentre qualcuno mostra i suoi lavori, in un altro posto.
I fusilli fatti a mano, la pasta tipica di queste parti, una bella tavola, e un altro milione di idee che quasi non riusciamo a mangiare perché con la bocca piena non si dovrebbe parlare.
Nell’insalata i pomodori sono di due colori: quelli rossi piccoli, comuni, sono pochi, la maggioranza sono quasi arancioni: sono i vernili questi Francè, mi dice Donato. E io gli chiedo che vuol dire. Sono pomodori che si mangiano d’inverno qui dalle nostra parti. Si raccolgono insieme agli altri alla fine dell’estate ma non diventano mai rossi. Li mettiamo appesi a grappoli e poi d’inverno sono come freschi.
Pure questo origano dentro l’insalata ha un sapore speciale.
Poi usciamo di nuovo ché mi vogliono far vedere un altro posto a cui tengono, è il loro progetto attuale. Avete presente quando al centro dei paesi antichi vedete, nella piazza principale, a fianco alla chiesa, il palazzo nobiliare? Ecco, a Felitto quel palazzo è stato per anni abbandonato, in cerca di un compratore. Cercavano qualcuno, mi dice Rosi, che lo volesse acquistare. Ma io ho pensato che non sarebbe stato bello se lo avesse comprato qualche forestiero. Che quel palazzo doveva rimanere di qualcuno del paese e così volevano anche i proprietari. Lo dissi pure al sindaco. Allora ad un certo punto, ho pensato di comprarlo io.
Ha una energia solare Rosanna. Si muove veloce, ha la sua idea nella testa però quando parli ti ascolta. Poi pensa un secondo. Poi ricollega il pensiero suo alla frase che gli hai detto e continua dritto.
Nel bar del paese
Ma non perdiamo tempo che abbiamo fretta. Rosi ha appuntamento alla casa al centro con un amico che viene a tagliare una pianta che crescendo sta rompendo il tetto. E, ma il caffè dopo tutto sto pranzo ci serve e allora io e Donato andiamo al bar a prenderlo per tutti.
Ci sono cinque o sei persone dentro o subito fuori, e Donato fa almeno dieci saluti. Tutti per nome, tutti non distratti. Con ognuno si ferma a parlare.
Dietro al bancone c’è una ragazza giovane: ha addosso la giacca di piumino perché oggi fa freddo, pure qui dentro. Ci pigliamo il caffè. Poi quando usciamo c’è un signore anziano, piccolo, con una faccia simpatica sotto il cappello rosso. Donato gli chiede delle capre.
Qualche giorno fa lo aveva incontrato tutto preoccupato perché non riusciva più a trovare quattro delle sue capre. Sì, le ho trovate. Due erano morte, se le sono mangiate i lupi. Due ancora non riuscivo a trovarle, poi le ho viste giù a un dirupo (la parola che lui dice è diversa, anzi tutte le parole di questa frase erano in dialetto, facevano una bella musica che purtroppo io non so suonare) e mi so’ calato con la corda che tenevo per andarle a prendere. Questo signore ha più di ottant’anni. I cilentani sono longevi e le capre non fanno perdere l’allenamento muscolare.
La casa delle cento stanze
Arriviamo alla casa nobiliare. L’ingresso è già molto bello. Un arco in tre pezzi, due pietre arcuate e al centro la pietra angolare. Sopra c’è lo stemma, più bello che se fosse nuovo: il tempo ha una mano da artista, spesso quello che accarezza a lungo diventa più bello.
A fianco alla casa c’è la chiesa principale. Ha un cortile con archi ornati con motivi che hanno qualcosa di orientale.
Entriamo e c’è un mondo antico in frantumi. Nelle foto trovate qualcosa di quello che c’è dentro. I parati nascondono muri dove il disegno era dipinto a mano. Le travi di legno dei solai. Un pavimento ha un enorme buco al centro. In altre stanze ci sono fogli, forse documenti. In una stanza c’è il resto dei medicinali di questa che era la casa del farmacista del paese. Questo lo chiamavano il Palazzo delle cento stanze, Francè.
Poi un cortile, e vani enormi, bui, al piano delle cantine. Poi, oltre il cortile, uno spazio separato con due forni. Ma non è tanto importante la casa, ma l’idea che Rosi mi aveva detto all’inizio, fare qualcosa per far rinascere questo borgo: se solo riusciamo ad evitare ad un giovane di dover per forza cercare intorno. E questa casa potrebbe essere il luogo dove di queste iniziative se ne potrebbero ospitare tante.
Rosi è membro del consiglio di Slow Food, anche del Touring Club Italiano. È stata a Torino a Terra Madre lo scorso settembre, la mostra sul cibo e le buone pratiche che si tiene ogni due anni: abbiamo fatto un corso per trenta persone su come si fanno i fusilli felittesi. C’erano cinesi, giapponesi, thailandesi, americani. E ognuno aveva la spianatoia ed il ferro per fare la pasta con le sue mani. E si impegnavano molto.
Rosi con la sua associazione dal 2012 ogni anno assegna il premio “Pasquale Oristanio” a belle realtà locali. Da quando è tornata definitivamente in Italia poi ha organizzato eventi che coinvolgono il territorio: come le passeggiate botaniche con un’altra cilentana d’eccezione (Dionisia De Santis), presentazioni di libri in collaborazione col Touring, attività con il Mercato della Terra del Cilento e tante altre.
Oggi 22 dicembre riapre finalmente il Palazzo delle cento stanze con una mostra nell’atrio dei quadri di Donato: fino al 6 gennaio potete vedere anche i quadri in cui ha ripreso i disegni che ha trovato in una grotta di un eremita del 1200 lungo il fiume Calore.
Rosi ha l’energia di un vulcano calmo, secondo me può averla solo chi ha radici forti in un terreno sano. Poi credo che abbia la visione che le cose lavorando sodo, senza troppe parole, si possono cambiare in meglio, di chi per molto tempo è stato fuori.
Tornando verso casa sono ripassato sul ponte medievale, però dopo che Rosi e Donato mi avevano detto che il vero ponte antico non è quello in alto, dove si passa, ma che fermandosi e scendendo dall’auto lo si vede in basso non molto lontano, ho seguito il loro consiglio e l’ho fotografato.
Muoversi in fretta, in macchina, senza chiedere alle persone del posto, mi hanno confermato che non è viaggiare.
Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)