Ufficialmente si chiama via Macedonia ma l’uso di quell’altro nome è così diffuso che lo hanno dovuto scrivere anche nella tabella di marmo ufficiale: detta salita Prevetarielli. Una città in cui il detto popolare ancora vale.
Prima di partire da casa come al solito guardo la cartina via internet, mi faccio un’idea generale, soprattutto per essere sicuro che sia ancora aperta, che si passi, poi vado.
Inizia su via Ponti Rossi, a dieci minuti, circa ottocento metri, da Porta Grande del Real Bosco di Capodimonte. Su via Ponti Rossi vedo un laboratorio di ceramiche. L’ho visto milioni di volte passando con la macchina, mo mi devo per forza fermare.
Ha ragione Erri De Luca quando dice che viaggio è tutto quello che si fa andando a piedi perché è bastata una sola volta che qui venissi senz’auto nè bici perché il signore che lavora qui dentro spendesse un sacco di tempo a spiegarmi il suo lavoro e lasciarmi fotografare. Sta modellando questa materia pastosa, carnale, in forma di foglie e di petali per una composizione. Ci sono i forni, poi gli oggetti dipinti e pronti. Ci voleva un altro viaggio intero solo per starlo ad ascoltare del tutto, oggi dobbiamo andare oltre.
Riprendo a camminare ed ho ancora la sottile incertezza di vedere se la cartina corrisponde a quello che si trova con i propri piedi.
Eccola, meno male che la scritta è esplicita. Secondo me lo hanno dovuto citare per forza quel secondo nome perché la gente gli avrà chiesto mille volte: Sì, via Macedonia, ma io sto cercanno ‘e Prevetarielli.
Sembra una stradina di campagna, in più ha solo l’asfalto, tra un muro di tufo antico con dentro gli archi chiusi e un altro rifatto, più chiaro, spigoloso, senza rughe ma dello stesso materiale. Sulla destra il verde coltivato, al di là delle reti, compare.
Poi un paio di curve. Non passa nessuno, neanche a piedi. E due case basse, due villette con i cancelli di ferro come quelli di una volta, con le punte. Dentro il piccolo giardino ci sono due statuette, un uomo e una donna, una specie di riproduzioni di sculture classiche. Sembra che si parlino.
Altre due curve nel silenzio. Piano piano l’asfalto lascia affiorare sempre più basoli.
“Sei stupenda” a fianco ad un cancello di ferro arrugginito sopra un muro con l’intonaco grezzo.
Subito accanto a questo muro ecco lo sbarramento, la diga che fa tornare indietro nel tempo, che assicura un po’ di lentezza e di silenzio. Hanno distribuito una manciata di paletti; avranno discusso parecchio dove metterli: non riesco a riconoscere nessuna geometria nota, alcuni sono più sottili altri più grossi, per sicurezza ne hanno messi pure due curvi negli spigoli dei muri. Fanno alla rinfusa il lavoro di argine di mezzi veloci. Allora adesso deve venire la parte migliore.
Sarà larga due metri, tra un muro di cemento e l’altro giallo. Un gatto cammina sopra quello più alto. Sembra un posto abbandonato da secoli.
Poi all’improvviso vi ritrovate di nuovo nel mondo moderno, a essere gli unici pedoni che possono camminare praticamente sulla tangenziale.
Un’altra volta un posto in cui con l’auto c’ero stato milioni di volte. Adesso è come vederlo da un altro tempo, da un altro mondo, da fuori, anche se a un certo punto tra voi ed il guard rail c’è soltanto un campo verde con i fiori.
Ora si inizia a scendere e la strada diventa con dei bassissimi gradini enormi larghi. Chiamarla scalinata non mi viene, forse perché ogni gradino è così lungo che ci fate troppi passi, vi lascia troppa libertà per suggerirvi un ritmo.
Poi c’è una curva larga e si apre un tunnel.
Siamo sotto la tangenziale. Ognuno qui ha lasciato un suo pensiero scritto. ‘Sto punto mi mette un po’ di tensione stamattina. anche se è molto ampio, o forse proprio per questo, contiene troppo vuoto grigio deserto.
Continuo, scatto alcune foto camminando.
Ecco. I palazzi. Siamo fuori, uno spazio abitato, coi panni stesi, alti.
Un sacco di case che formano uno slargo.
C’è il tempo dei posti che non portano da nessuna parte. Dei laghi. La diga che lo crea l’abbiamo vista in alto.
Poi un pino altissimo.
E un ragazzino che sale in bicicletta. Lo fotografo mentre fa fatica in salita, in lontananza.
L’atmosfera man mano che scendo comincia a diventare molto interessante. Biblioteca laurenziana. Oltre il muro un campanile in alto. Qui c’è il convento dei frati cappuccini che danno il nome popolare a questo posto. Sono arrivati a Napoli nel 1529 accolti da Maria Lorenza Longo, e le davano un aiuto agli Incurabili. Due anni dopo iniziarono a costruire questo monastero.
Via Michele Guadagno stamattina sembra un luogo dove la guerra è finita da pochi anni; in alcuni angoli.
Sulla sinistra un palazzo con un cortile alberato che doveva essere elegante. Subito prima c’è un piccolo arco con sopra una bacheca di vetro e ferro, un tabernacolo diventato quasi una serra tanto ci sono cresciute le piante. Mi fermo. Fotografo.
Una signora mi vede, e mi chiede. Le dico che mi interessa non so bene perché questo posto. Allora mi apre la piccola chiesa del palazzo antico che adesso loro del posto utilizzano come deposito. Ognuno ha un po’ di cose sue conservate qui sotto i lenzuoli. Il pavimento, la volta a croce, gli stucchi attaccati dall’umido e l’altare. Ringrazio ed esco.
Villa Giordano si chiama ancora. Entro nel cortile interno. Il secondo dopoguerra sembra ieri. I viaggi nel tempo che consente Napoli.
Esploro il vicoletto che comincia dietro l’arco che vi avevo detto: si chiama Cupa Eterno Padre. Non lo so perché ma questo punto mi attrae. Poi Via Michele Guadagno Ingegnere, già Cupa Sant’Eframo Vecchio. Ecco, quest’ultimo santo a casa l’ho sentito nominare molte volte.
Continuo a scendere verso la piazza del re grande.
Quest’atmosfera di grande semplicità, piazza Gian Battista Vico con le giostre e il chiosco dei giornali.
M’è venuta fame e c’è una pizzeria proprio qui nella piazza al momento esatto.
La palazzina della ANM col deposito degli autobus.
Il muro laterale del Real Albergo dei Poveri. Poi si sbuca nella piazza. Salgo per la prima volta la grande scalinata del palazzo enorme. Scatto da qui sopra l’ultima foto di oggi.
Dopo alcuni mesi scopro che a fianco a quella villa con la chiesetta deposito sono nati tutti i miei zii paterni, anche mio padre, che questa strada in salita la faceva da ragazzo in bicicletta, a cui teneva molto.
Ah, per tenere ferma la tradizione dei cronometraggi: da via Ponti Rossi a piazza Carlo III per questo passaggio segreto, se siete pedoni, vi bastano 22 minuti.
Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)