16 settembre 2018
Lo Yoga ormai è di moda, pure a Napoli si porta, e magari a settembre è il momento in cui uno riesce finalmente ad iniziarlo a praticare. Allora prima che andate a finire in qualche palestra qualunque, con un maestro molto new age ma che magari insegna qualcosa di non proprio corretto, venuto non si sa esattamente da dove, abbiamo pensato di raccontarvi qualcosa che forse vi dà una buona traccia da seguire.
C’è una parola che se leggete libri sul buddhismo tibetano a un certo punto quasi sempre salta fuori. È come se l’autore, scrivendo, se la fosse tenuta riservata, un po’ indeciso se dirla o meno, o se per presentarla volesse aspettare il momento migliore.
Noi invece ve la diciamo subito, è: “Dzogchen”.
È una parola tibetana che letteralmente significa auto-perfezione. Indica l’insegnamento di buddhismo tibetano più alto, fino ad un po’ di anni fa era tenuto addirittura segreto. Pure il Dalai Lama, se ascoltate bene, ogni tanto dice di seguirne le tracce.
Bene, mo vi starete chiedendo che c’azzecca questo termine strano, proveniente dal Tibet, dentro questo sito quasi tutto napoletano? E allora vi diciamo che qualcosa c’azzecca di sicuro se è vero che questa antichissima pratica spirituale, negli anni ’60, dal Tibet, tra tanti posti nel mondo è sbarcata proprio a Napoli e poi da qui si è diffusa nel mondo occidentale. Ve ne raccontiamo brevemente la storia.
Nel 1964 un giovane signore tibetano, Chögyal Namkhai Norbu, arriva a Napoli, all‘Istituto Universitario “L’Orientale” per insegnare Lingua e letteratura tibetana e mongola (e ci resterà per circa trent’anni).
Era stato chiamato pochi anni prima, nel 1960, a Roma, dal prof. Giuseppe Tucci (uno tra i più importanti tibetologi del mondo, che ha realizzato otto spedizioni in Tibet per studiarne la cultura) all’IsMEO, l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente.
In Tibet le acque in quegli anni sono molto agitate, la Cina aveva occupato il Paese nel 1950. Così Namkhai Norbu prende la via dell’Occidente.
C’è pure qualcuno che sostiene che questa fuga dal Tibet verso l’ovest del pianeta somigli in piccolo a una cosa già accaduta in passato. All’esodo massiccio di intellettuali che con la caduta dell’Impero Romano di Oriente andarono verso l’Europa; in Italia sembra che questo sia stato uno dei fattori che diede origine al Rinascimento. Qualcuno azzarda oggi quindi il pensiero: Chi sa che anche questa migrazione di Maestri buddhisti dal Tibet non abbia in qualche modo un effetto positivo sulla nostra cultura occidentale di oggi.
Bene, arrivato dal Tibet a Napoli, il prof. Norbu inizia il suo insegnamento. Gli studenti si accorgono però ben presto che quello non è un professore del tutto ordinario: si sparge piano piano la voce che sappia molte cose non solo di letteratura, ma anche di medicina tibetana e yoga, e di questa antica tradizione che si chiama Dzogchen. Siamo dalle parti del ’68, la curiosità per l’Oriente comincia a farsi strada, pure i Beatles andavano in India.
E allora gli studenti iniziano a chiedergli lezioni di Yantra yoga. È uno yoga antichissimo quello del professore, uno dei pochissimi conservati da secoli (da circa 1300 anni) addirittura in un testo scritto ed il cui insegnamento diretto, da Maestro a discepolo, si è tramandato dalla stessa data senza interruzioni.
A parlarci di queste cose stamattina è il dott. Luigi Vitiello, medico e psicoterapeuta; lui in quegli anni, o subito dopo, c’era, a partire dal 1977.
Aveva 27 anni e, dice, nel gruppo ero uno dei più vecchi. Già qualcosa non ci torna tanto, perché se andate mo a Napoli a fare yoga o meditazione, l’età media è per lo meno il doppio: ma si sa, quelli erano i magici anni della fantasia al potere; (ritornano? quando?)
Il dott. Vitiello ci racconta quel suo primo incontro.
Il Maestro abitava a Pozzuoli, nei pressi della Solfatara (e non è un caso, lo vedremo dopo). Io seppi, dal fratello di un suo studente, di queste riunioni e un giorno andai a vedere. Mi ricordo che ad un certo punto, erano riunioni di non tante persone, mi avvicinai e mi misi a parlare direttamente con lui. Mi ricordo che tirai fuori tutte le mie conoscenze filosofiche, pure Sant’Agostino, mi ero messo a discutere dei massimi sistemi, della ricerca della verità. Allora dopo un poco il Maestro sai che fece?
Mi disse: “Va bene, va bene, la verità è che noi adesso ci andiamo a prendere una tazza di tè”. E teneva ragione.
L’approccio orientale, buddhista, alla ricerca della verità, dell’essenza delle cose, è molto meno mentale del nostro, o meglio passa per la mente ma coinvolgendola completamente, non soltanto nel suo lato speculativo. Per loro, più che pensare, conta vedere con la mente. Quindi se cercate la verità: studiate, leggetevi tutto quello che volete, pure Sant’Agostino; però non vi dimenticate di andare di persona a cercare, con la vostra mente, ma non solo con una parte, con tutta, pure con quella che usate per mettere l’acqua sul fuoco per preparate il tè in un pomeriggio qualunque.
Intanto nel 1977, a via Palasciano, in zona Riviera di Chiaia, le lezioni di Yantra yoga, in una palestra, cominciano a svolgersi più regolarmente.
Dopo qualche anno, l’idea, continua Gino, era avere un centro per la comunità che nel frattempo si stava creando, ed il gruppo si sposta in una struttura a via del Parco Margherita.
Erano gli anni in cui si cominciava a constatare il fallimento della lotta politica, c’era chi si spostava verso Lotta Continua e chi verso Osho, verso una ricerca più intima, spirituale, profonda. Il Maestro dice spesso: “non serve la rivoluzione ma l’evoluzione”. La prima vuole cambiare il mondo mentre con la seconda ci si accontenta di cambiare se stessi, ma cambiando se stessi il mondo davvero lo si cambia.
Poi nel 1976 a Subiaco, ci fu quello che io chiamo il “ritiro numero zero”: una trentina di praticanti provenienti soprattutto da Napoli e Roma, si ritrovano insieme.
Il primo vero ritiro è l’anno dopo a Prata, in un terreno in mezzo alle colline, con le tende, in maniera molto semplice, spontanea. E stavolta c’erano persone da tutta Italia: la voce si stava spargendo rapidamente.
Guardando le foto viene da pensare ad una piccola Woodstock, ma non di rock’n roll bensì di yoga e canti tibetani. Quell’uomo in foto con gli zigomi sporgenti, che sembra quasi un indiano d’America, è il Maestro Norbu.
Piano piano la comunità si ingrandisce e si inizia a pensare di acquistare un posto dove fare i ritiri, che intanto stanno diventando almeno tre all’anno: a Natale, a Pasqua e nei mesi estivi.
E allora Norbu propone di cercare un terreno in centro Italia in modo che sia facilmente raggiungibile un po’ da tutti.
La ricerca va avanti, poi un giorno lo portiamo a vedere, in Toscana, “Podere Nuovo”, così si chiamava quel posto. E lui ci dice: “sì, il posto è questo, l’ho visto in sogno”.
È così che nasce Merigar.
“Gar” è un termine della cultura tibetana nomade e significa “insediamento”, “accampamento”, un posto dove si sta finché ci si sta bene e poi ci si sposta altrove.
Mi ricordo che quando, ai tempi della sede al Parco Margherita eravamo un po’ in difficoltà economica e non sapevamo se mantenerla in piedi, il Maestro ci disse: “Non c’è nessun problema, se il centro chiude sono molto contento, significa che non c’erano le condizioni perché rimanesse aperto”. E ci viene in mente l’idea buddhista del “non attaccamento” alle cose. Le culture nomadi sono, a prezzo di un poco di scomodità esteriore, facilitate in questo.
Ma torniamo alla fondazione di Merigar, il significato della parola Gar lo abbiamo detto; “Meri” invece vuol dire “montagna di fuoco”, perché il posto si trova alle pendici del monte Amiata che è un vulcano spento.
I vulcani come vedete ricorrono spesso nei luoghi in cui si reca il signor Norbu. Dalla Terra delle nevi a Napoli, Solfatara, Campi Flegrei, poi Merigar sul Monte Amiata, attualmente abita a Tenerife, dominata dal monte Teide, il terzo vulcano più grande del mondo. Questa cosa ci racconta un po’ che la terra dove abitiamo, Napoli, è un luogo non comune, ha energia forte.
Una volta fondato Merigar però bisognava… costruirlo, perché non è che ci fosse molto. E lì, dice Gino, abbiamo fatto molto karma yoga (l’opera volontaria dei membri della comunità). La comunità Dzogchen deve manifestarsi attraverso l’impegno, altrimenti non ha senso. E poi si sente propria una cosa solo quando ci si lavora dentro.
A Merigar adesso ci sono strutture bellissime, dopo tanti anni. Una grande sala ottagonale in legno, perfetta per le pratiche durante i ritiri con tanta gente.
Nel 2007 però anche a Napoli nasce un nuovo centro, si chiama Namdeling.
“Namde” vuol dire “gioia infinita” e “Ling” è un punto di ritrovo più piccolo di un Gar, e poi questo nome richiama un po’ nel suono la parola Napoli.
Oggi i soci di questo centro sono circa 50. Sta in un posto tranquillo, confina col bosco di Capodimonte. Si trova in mezzo agli alberi di agrumi, in una piccola casa gialla con dentro una sala enorme senza colonne. L’hanno voluta così per farci entrare un grande mandala sul quale fanno alcune meditazioni in forma di danza. Ci si muove seguendo il percorso del cerchio, sul tempo della musica, cantando e mantenendo la presenza di poggiare i piedi sui colori giusti.
Quindi se a settembre volete partire col piede giusto, non farvi prendere dallo stress fino al prossimo agosto e volete approcciare il mondo dello Yoga, della meditazione; un modo diverso, che viene da Oriente e dal tetto del mondo, di cercare una risposta al perché siamo in questo posto, potete andare a trovarli, secondo noi vi si aprirà un altro bel mondo.
Qui c’è il loro loro sito, qui la loro pagina facebook.
Foto e intervista gentilmente concesse da Luigi Vitiello
Testo di Francesco Paolo Busco