Flygskam è una parola che gli svedesi hanno coniato da alcuni anni, significa: vergogna di viaggiare in aereo, perché sembra che gli aeroplani inquinino moltissimo.
Quasi tutti i giorni il telegiornale ci dice pure che migliaia di persone nel mondo, migranti, in molti modi, non in aereo e non per turismo, da un continente all’altro, si muovono.
E se di queste due cose così grandi, problematiche, ne facessimo una soltanto? Forse ritornerebbe guardabile, possibile, di dimensioni e senso umani.
Allora ho pensato di fare il giro del mondo senza muovermi, da una città, per esempio la mia, Napoli.
Bene, l’idea mi pare abbastanza strana, mi può interessare, da dove iniziamo a viaggiare?
C’è un posto del mondo che molto tempo fa veniva chiamato Serendip, poi da quella parola è venuto fuori un vocabolo, quasi di moda, serendipità: trovare qualcosa, bella, sorprendente, mentre ne stai cercando un’altra completamente differente.
Un esempio? La penicillina.
Serendip è il nome antico dello Sri Lanka e allora mi sembra un ottimo posto da cui iniziare un giro del mondo, se è vero che i viaggi occorre farli essendo più aperti possibile a lasciarsi spiazzare.
Mi accompagnate?
Giorno 1, giovedì 5 dicembre 2019, mattina
Scendo da casa a piedi in direzione metro, ma il biglietto che ho usato mille volte, Unico corsa singola, costo poco più di un euro, stamattina mi sembra quello del volo aereo più intercontinentale del mondo. E pure questa camminata fino alla stazione della Linea 1, l’avrò fatta due milioni di volte, da casa allo stadio Collana, quello col discobolo fuori, mi sembra il tragitto per andare al check-in di un aeroporto internazionale enorme. La sento nel ritmo del respiro, anzi nella tensione dei muscoli del petto, l’emozione di questo viaggio orientale.
Scendo le prime scale, marco il biglietto, però il tornello mi pare il cancello di imbarco. Continuo a scendere e percepisco lo spostamento d’aria del treno che sta per arrivare, allora accelero; subito prima dell’ultima curva il fischio dei freni, sprint finale: imbarco avvenuto, al gate, al volo, all’ultimo istante.
Dentro il vagone, davanti a me, seduto, c’è un signore dal colorito tipico delle persone di quella nazione. Il fatto strano è che tutti gli altri in questo momento mi appaiono viaggiatori, turisti, forestieri come me, e lui quello che in questo posto ci abita davvero.
Lo penso da parecchio che il mondo diventa come ce lo immaginiamo, non dovrei dirvelo perché ho sentito che i cronisti di viaggio scrivono semplicemente il vero. A me però, stamattina, il vero, scusatemi, ma mi pare questo.
“Next stop piazza Dante, exit on the left”: ‘o verite? pure la voce automatica dentro al vagone oggi ha l’accento straniero.
Esco sulla piazza, la statua del Poeta fiorentino neppure la vedo. Sono le 12.40, è un po’ presto per quello che ho in mente, penso che è una cosa utile se vado a cercare una guida turistica del Paese, come uno fa di solito prima di partire o appena sceso dall’aereo.
Cerco tra le bancarelle dei libri di Port’Alba. Ma non trovo niente.
Vi devo dire che quella di cercare era un po’ una scusa per ritardare la prova: non so come andrà questo viaggio, se arriverò a destinazione, se riuscirò a capire, a vedere, a “entrare in contatto” è la parola giusta per questa emozione. Se uno piglia il suo corpo, fisicamente, e lo sposta sul territorio dello Sri Lanka, mal che vada può sempre dire che quel viaggio lo ha fatto, pure se ha visto poco, se è stato tutto il tempo dentro un resort sulla spiaggia. Ma se uno invece resta quasi a casa, resta abbascio ‘o palazzo, e cerca un contatto, lo spostamento forse diventa molto più sottile, delicato, vasto.
Mi ricordavo di essere stato alcuni anni fa a mangiare da queste parti in un posto due o tre volte. Una specie di tavola calda singalese dove, se volete, potete pranzare pure in pace, seduti al piano inferiore. Mi pare una buona idea per trovare un punto d’accesso, per iniziare dal corpo pure forse: sentendo il gusto della cucina di quel posto. Poi lì magari avrò l’occasione di parlare con qualcuno di loro. Il cibo, una chiave d’accesso, un luogo, un ponte?
Entro e ci sono poche persone, saluto e chiedo se è un locale dove si mangia singalese, mi sorridono, dicono che è giusto. Cerco di capire che pietanze sono: stanno esposte in una vetrina nel bancone una quindicina di ricette di un sacco di colori.
“Lenticchie brodose”, mi hanno detto, poi una specie di fagotto triangolare con dentro le patate, una ciambella con le alghe: inizio da qualche parte. Mi siedo a un tavolino fisso al muro.
Questo fagotto (poi vi dico il nome vero, appena lo capisco, quello che suona come lo hanno inventato loro) è molto buono. È soffice, speziato, sostanzioso, molto piccante. Poi assaggio la crema di lenticchie. Mentre mangio penso che ho sbagliato a sentire: chiedo se ci sono per caso dentro i ceci, allora una signora che è venuta nel frattempo, mi dice che sono davvero solo lenticchie, però gialle: ci metto un po’ a comprendere che loro le lenticchie per fare questo piatto prima le sbucciano. Vabbè detto così sembra complicato ma poi scopro che se volete si vendono già fatte: le famosissime lenticchie decorticate. E allora il colore è molto chiaro e pure il sapore è molto più leggero. Buonissime, ve lo posso dire.
Poi chiedo di provare una di quelle ciambelle che pure sembrano invitanti.
Nel frattempo arrivano altre persone, il locale è abbastanza pieno. Vengono e prendono dei vassoi di alluminio con tante cose una vicina all’altra, anzi una sopra all’altra proprio che non c’è più spazio, come i vassoi di pasticceria mignon dei nostri pranzi domenicali più abbondanti.
Sto mangiando e sono un po’ distratto, però sott’occhio lo vedo che chi entra un poco si sorprende, e pure lui mi osserva: ecco, sono davvero, un po’, in un Paese straniero.
La signora che mi ha spiegato le lenticchie mi racconta che vive a Napoli da venticinque anni. Che qui in molti abitano in tanti. Che spediscono i soldi nel Paese di origine per far vivere bene madri, padri, fratelli, nipoti. E magari loro invece vivono stretti, con pochi soldi, un po’ stentati.
Però sorride, un sorriso dolce con uno sguardo vivo, forse appena triste. Ha un buon lavoro ma capisce gli altri. Le racconto che anche noi italiani abbiamo fatto questa cosa negli anni passati. Adesso ripensandoci mi accorgo che ho quasi mentito, perché dal sud la facciamo ancora, non proprio uguale ma, giovani, in molti.
L’ho fatto io stesso, adesso sono dieci anni, e questo posto, mo che ci penso, mi ricorda la pizzeria da asporto di Middelburg, in Olanda, dove andavo a mangiare i piatti italiani del mio amico Vincenzo, nato a Torre Annunziata, sposato, con figli, in Zelanda da molti anni. La bandiera singalese qui ce l’hanno appesa, di stoffa, fuori. Vincenzo la teneva distesa su tutte le pareti interne del locale nelle mattonelle di una lunga striscia tricolore.
Poi mi dà alcune dritte su dove andare a guardare, vedere, incontrare: c’è una comunità forte in questa zona, sì, siamo partiti bene, poi una alla Sanità, in zona piazza Cavour. Poi mi dice di una scuola un po’ più in alto di dove siamo, e che magari se incontro un monaco buddhista, singalese, pure può essermi utile per capire un po’ di cose.
Ogni tanto entra qualcuno e saluto.
Sorridono queste persone e sembrano incuriosite. In tutto il tempo che sono stato lì, di persone pallide come me ne ho vista entrare una soltanto.
Poi un signore che pure lui sta mangiando in questo posto, chiede di avere un bicchiere di qualcosa che sta dentro un grosso thermos su un lato del bancone. Chiedo informazioni alla signora che sta davanti a me, aspettando il suo turno. Lei non sente quello che le dico, allora la figlia, piccola, avrà sette anni, lei mi ha sentito bene, tira la manica della mamma per dirle che le parlo. I bambini a volte sono meno imbarazzati dei grandi. Sì, quello è tè, dentro il thermos. E capisco che la piccola birra che ho preso dal frigo non era la scelta più tipica che avrebbero fatto nel Paese che sto visitando.
Pago, saluto, ringrazio ed esco. Ora che un po’ sono entrato nel viaggio vedo se trovo altri luoghi singalesi nei dintorni. Mi inoltro lungo questa stessa strada, via Correra, ‘o cavone e piazza Dante, salendo.
Ai muri ci sono i manifesti in questi caratteri rotondi. Sembra una specie di cinese o di greco ma con gli spigoli curvi. Sono mischiati con i cartelli in italiano. I loro colori sono molto più forti.
Il primo che avevo visto, proprio all’inizio del vicolo, entrando, sembrava una specie di manifesto comunista, rosso, col martello inclinato, senza falce.
Salgo e i negozi singalesi, i manifesti, i nomi, sono mischiati ai napoletani. Entro in un fondaco, ma solo qualche metro, per non venire risucchiato da questa specie di macchine del tempo, ancora vivissime, se è vero il fiocco azzurro che vola sull’ingresso.
Salendo salendo mi trovo a via Salvator Rosa. Mi pare di essere tornato a casa da un lungo viaggio quando vedo il traffico caotico di scooter, all’incrocio, in equilibrio magico in un qualche loro ordine perfetto.
Poi mi voglio reimmergere, almeno un altro poco, cercare questa scuola di cui mi hanno detto.
Chiedo davanti ad un negozio dei loro: lì, vedi, a pochi metri, detto con le consonanti addolcite tra la lingua e i loro bianchissimi denti. Sopra un portone c’è un grande cartello: Saint Anthony’s International School.
Entro mentre escono i bambini coi genitori per mano. Una ragazza mi indica con l’ascensore il piano. Prendo appuntamento per domani, alle dieci. Vedremo cosa ci riserva la seconda parte del viaggio.
Nel frattempo mi è capitato di incontrare, un pomeriggio, in un teatro, questa frase scritta intorno all’anno mille: “L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero”. L’ha pensata Ugo di San Vittore, un teologo e beato della chiesa cattolica, tedesco.
Io c’ho messo mille anni a capirlo. Ve la lascio.
Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)
(fine prima parte, continua, qui trovate la seconda parte)