Una sera del 1938, insieme con Sara Mancuso, sua futura moglie, il professor Caccioppoli si trova in un locale, alcuni sostengono fosse la birreria Lowenbrau a piazza Municipio, altri Il Grottino, un ristorante verso Mergellina. Anche le versioni di quello che accadde sono un po’ diverse tra di loro ma il succo è sostanzialmente uguale.
Secondo Ermanno Rea il posto era la birreria e successe questo.
Dentro la birreria c’è un gruppetto di militari fascisti che a un certo punto iniziano un canto fastidioso per le orecchie di Caccioppoli: Faccetta nera.
Cantano sempre più ad alto volume, poi addirittura a squarciagola. Coprendo le note, diverse, che il pianista del locale stava già suonando. Anzi imponendogli di suonare le note giuste per accompagnare la loro canzone.
Fascisti, che cantano una canzone “oscena”, disturbando un onesto lavoratore intento al suo mestiere. Non ci poteva mai stare il professore. Allora, finita quella esibizione, Caccioppoli si alza, si avvicina al pianista. Gli chiede se lo può sostituire. Lui che al pianoforte era molto bravo inizia a suonare una canzoncina facilissima, orecchiabile, francese: la Marsigliese. Anche lui sempre più ad alto volume.
Quando finisce nessuno applaude. Hanno capito tutti che c’è tensione. Ma a lui la tensione non basta, vuole la scintilla della rivoluzione.
Allora si alza e inizia a spiegare cosa rappresenta quella canzone francese, che la libertà è un grande valore e che in Italia, grazie a Mussolini, non se ne può più godere.
Non gli aveva dato scelta insomma Caccioppoli ai militari, che magari volevano pure fare finta di niente, che magari manco la capivano quella canzone in francese. Si alzano, gli tappano la bocca con un fazzoletto, e se lo portano via, insieme a Sara.
La birreria Lowenbrau
Rea nel suo libro, Mistero napoletano, dice che di quel posto non ce n’è più traccia, che è scomparso del tutto. Stava, dicono, attaccata al Grand Hotel de Londres. L’albergo di cui a piazza Municipio potete leggere ancora, sul palazzo che sta a sinistra guardando il mare, solamente il nome. Noi avevamo provato a cercare quella birreria sul posto, in articoli di giornale, in vecchie foto di quella piazza, e senza esito avevamo smesso.
Una sera sto andando a Chiaia con la Metropolitana. Scendo alla fermata di piazza Municipio. Poi per uscire sbaglio direzione, appena passo il cancelletto automatico so che sto allungando.
Poi per un attimo mi ricordo di Caccioppoli e che questa era la sua zona. Allora cammino con una certa attenzione.
Devo andare verso via Toledo e passo davanti all’edificio che era del Grand Hotel de Londres.
Lungo il marciapiede c’è una porta a vetri, chiusa, con le tende aperte. Dentro c’è appena appena un po’ di luce accesa.
Mi affaccio un attimo a guardare.
Sui muri mi pare di vedere dipinte delle figure strane. Uomini col cappello tirolese, i calzoni corti, donne con il grembiule.
Fotografo un paio di volte; ingrandisco la foto nel visore: boccali di birra enormi nelle mani. Eccola la birreria Lowenbrau, non s’era mai mossa, solo che stava talmente attaccata alla porta dell’albergo che non ero ancora riuscito a vederla.
L’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi
Per salvarlo da conseguenze serie la famiglia decise di farlo dichiarare, falsamente, pazzo. A lui quest’idea non piacque mai.
Al posto del carcere, del confino, forse peggio, gli valse diversi mesi di clinica psichiatrica, prima al Leonardo Bianchi e poi a Villa Fleurent.
Andiamo a vedere cosa resta anche di quelle.
Stanno una di fronte all’altra su calata Capodichino, in alto, verso la fine.
Salgo da Piazza Carlo Terzo. Aspetto un poco alla fermata su calata Capodichino.
Vabbe’ dai, quasi quasi inizio a camminare, po’ se vere, nel caso passa un autobus lo pigliamo al volo. La zona sembra interessante.
Dal momento in cui ho guardato l’Ospedale dei poveri del regno dal suo lato sinistro ho avuto la sensazione istantanea, forte, di stare al di là di una specie di confine. Sarà un confine dentro la mia testa, ché in questa zona della città, in questa ala del palazzo, raramente sono venuto a vedere.
Le case qui sono vecchie, gli anni ’50, anzi l’immediato dopo guerra infinito della nostra Napoli capitale. Consumate dai bombardamenti, appena finiti solo dagli anni ’40.
Case coi balconi pieni di panni. Un aereo in atterraggio a Capodichino passa nella fessura tra due palazzi. Chi sa la gente, nelle case, come lo sente.
Sono quasi in cima, un’inferriata altissima e dietro un cartello blu: “Presidio Psichiatrico Leonardo Bianchi”, eccoci arrivati.
C’è un ingresso deserto, un viale per auto, senza nessuno dentro.
A sinistra al di là del muro, un edificio neoclassico molto maltrattato, nelle finestre i vetri colorati hanno mischiato tutti i colori.
Dettagli di ferro battuto raffinati e tettoie di lamiera, panni stesi e antenne della televisione. Più avanti delle enormi sfere ornamentali di pietra sopra la balaustra avvolta nelle reti per non far cadere i calcinacci. Un antico splendore in frantumi.
C’è un primo cancello ma proseguo oltre: partiamo dalla fine. Una madonna dentro una casetta di vetro: la luce la illumina dal fondo, forte.
C’è un secondo cancello, entro e c’è un giardino antico.
Ancora non ho visto nessuno eccetto un uomo che parlava al cellulare. Un colombo è il primo essere che vive. Spunta da un buco nella parete di una finestra murata. È un colombaio, i buchi sono tanti e messi ad uguale distanza di quadrato. Sta fermo, non si muove.
Pare tutto fermo qua dentro, l’erba è la cosa più veloce che si muove.
L’edificio era giallo. Adesso l’intonaco è crollato. L’hanno mimato col grigio del cemento. Era la cosa più costosa che hanno trovato.
Una finestra di legno a quadretti, elegantissima, scrostata, e a fianco un altro colombaio.
Un’altra antenna, poi un condizionatore. Un buco nel muro con una forma a caso, fatto in un posto a caso, serve a far entrare e uscire cavi per tutte le utenze.
Oltre c’è scritto “Assistenza domiciliare, terapia del dolore e cure palliative”. Di metodi palliativi qua pare che ne facciano continuamente uso per risolvere tutte le cose.
Un pino altissimo sembra ben curato. Poi c’è un albero di agrumi e un campo che ricorda qualcosa di un orto, prima di un altro padiglione chiuso.
Torniamo indietro. Che posto strano.
Entro nel cancello che avevo superato.
Ecco, c’è un custode adesso. Ci chiede dove andiamo. Gli spieghiamo i motivi per i quali siamo qui e ci dice di parlare con qualcuno.
Lo cerchiamo ma la porta è chiusa. Poi chiediamo, lo chiamano e compare.
Finalmente gli chiediamo del professor Caccioppoli. Conosce la storia.
Ha una grazia questo posto, anzi un’eleganza, che non ci aspettavamo. La scala principale, oltre il portone d’ingresso, ha ancora un fascino particolare.
In cima, al centro, c’è la statua di Leonardo Bianchi, che è la cosa meglio conservata che qua dentro abbiamo visto.
Al muro un cartello separava gli uomini dalle donne, come all’ospedale dei poveri, e pure in altri terribili posti.
Ci siamo fatti un’idea. Volevamo vedere almeno un poco cosa aveva visto il professore quel giorno che si era dovuto fingere pazzo perché una buona parte d’Italia aveva perso la ragione.
A dire il vero avevo dei dubbi se venire a vedere, che fosse troppo triste questo posto. E invece quest’architettura elegante non dà quell’impressione. Però io l’ho visto oggi, senza dentro nessuno ed ho visto solo la parte di fronte, quella per i visitatori. Se guardate sulla cartina questo era un complesso molto vasto, c’era spazio chi sa per quante altre visioni.
Esco e mi fermo un attimo in un negozio sulla strada appena fuori dal cancello principale.
Faccio due chiacchiere con il proprietario. Lui si ricorda di quando i degenti uscivano sulla strada, gli era concesso in certi modi. Se ne ricorda i nomi, o i soprannomi.
Villa Fleurent
Caccioppoli era stato ricoverato lì un mese, poi lo avevano trasferito in una clinica privata, che sta esattamente di fronte.
E allora questa mattinata folle continua un altro poco. Attraverso calata Capodichino e vado a Villa Fleurent che adesso è una scuola.
Della vecchia villa sembra non sia rimasto niente. Entriamo e chiediamo al bidello. Lui ci indica un altro signore che lavora qui da oltre trent’anni. Molto gentilmente ci porta in giro e prova a raccontarci. È un edificio moderno, di cemento.
Poi oltre alcuni corridoi c’è una sala molto grande. Sulla sinistra c’è qualche foto che testimonia di quando questa era una clinica. Proprio al centro ci sono i posti a sedere e il palco di un piccolo teatro.
Lo sappiamo che non è questo il luogo, lo sappiamo. Ma per un attimo ci sembra di vedere Caccioppoli pianista che, come raccontano, quasi ogni giorno, radunati tutti gli ospiti di quel posto, suonava al pianoforte a coda che s’era fatto portare, cantando l’inno della Marsigliese, la rivoluzione della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità francese.
Indomabile quel signore, nipote di un anarchico famoso.
E pensavamo che questa storia fosse un buon momento raccontarvela oggi.
(Fine quarta parte, continua qui).
Testo e foto di Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)