27 luglio 2018
La luce dell’estate nel nostro sud è forte, aggredisce; eppure ci sono luoghi bellissimi della nostra terra che in questo periodo sono belli da visitare, guardare, camminare. Allora abbiamo pensato di andarci, però in un orario che lascia più respiro e in cui la bellezza viene meglio fuori: all’alba.
Eccovi il primo di una piccola serie.
Buona passeggiata.
Subito dopo Punta Campanella, la punta che chiude il golfo di Napoli a sud, c’è una baia protetta, ci si arriva solo a piedi, è vietato anche entrarci in barca, è patrimonio FAI (Fondo Ambiente Italiano). È una delle nostre spiagge preferite da molti anni, e allora iniziamo da qui queste nostre passeggiate al sorgere del sole.
Siamo partiti da Napoli ad un’ora di notte: pure l’autogrill dove ci andiamo a pigliare il secondo caffè della giornata è quasi deserto. L’addetta è da sola: fa la cassiera, si occupa del banco dei dolci e della macchina del caffè, praticamente l’autogrill è lei. È talmente presto che il cornetto è di ieri, pure il caffè non è esattamente una cosa degna di chiamarlo tale. Vabbuo’ ma a quest’ora c’era poco da scegliere, siamo quasi sicuri che era meglio di niente.
L’uscita autostradale di Castellammare senza traffico arriva subito, poi si va fino a Meta. Da lì si inizia a salire per passare sull’altro versante.
Si sale fino a Sant’Agata sui Due Golfi. Quando ci arriviamo il paese dorme, le cinque di mattina devono ancora scoccare. Poi la strada inizia a scendere sull’altro versante, quello sud, della costa di Amalfi, fino al piccolo paese di Nerano. Lasciamo l’auto nella striscia blu, la macchinetta del parchimetro a quest’ora è l’unico esercizio che troviamo aperto.
Il sentiero inizia praticamente dalla piazza del paese: al primo metro della strada che scende verso Marina del Cantone, sul lato destro.
Le case sono immerse ancora nella penombra. Si mischiano le luci gialle delle lampade e un poco di rosa di chiarore di sole. Dopo pochi metri, a sinistra, dentro il mare, appaiono le sagome de Li Galli. Poi i due corni bianchi della Villa Rosa dove un signore inglese di inizio ‘900 ha iniziato a scrivere il suo libro sulla Terra delle Sirene. Non poteva scriverlo altrove. Al centro tra i due corni c’è scritto Silentium e non si capisce se sia un invito o una constatazione.
Il sentiero è ben tenuto, facile, ma non scontato. Lo tengono in alcuni tratti le pietre dei muretti a secco. Cammina in mezzo agli ulivi e a tutti gli altri arbusti del mare nostrum. Sulla destra c’è monte San Costanzo, noi ci camminiamo sotto.
Dopo una curva spuntano i tre pizzi, tre punte di roccia. Su quella centrale, Montalto, c’è una delle mille torri di avvistamento per i saraceni fatte costruire dai viceré di Napoli tra ‘500 e ‘700, le altre due si chiamano Penna e Mortella come ogni volta che ci sono i mirti. Una nave portacontainer passa in lontananza e si perde lo spettacolo. Uno yacht enorme invece sta ormeggiato proprio sotto di noi, da solo, in mezzo, appoggiato sull’acqua. Non si vede nessuno muoversi a bordo: staranno dormendo oppure lo spettacolo di quest’orizzonte così vasto si mangia tutti i suoni.
Altri pochi metri e, in mezzo ai fiori ben accuditi da qualcuno, spunta una piccola statua della Madonna. Poi in una nicchia nella roccia c’è un altro culto, più laico, quello di chi cammina; che usa testimoniare il passaggio poggiando una pietra a fianco a quella di qualcuno che non hai mai incontrato ma che è di sicuro tuo camminatore compagno. Pietre qui ce ne sono molte: il sentiero non è dimenticato.
In alto spuntano due bandiere lungo un parapetto di legno: dev’essere un ospite seminascosto nel verde lungo il fianco della montagna.
La luce cresce piano piano. Fa ancora fresco, c’è un poco di vento.
Un albero di carrube fa una galleria e ci passiamo dentro.
Poi il sentiero inizia a scendere e a destra compare la Sirena: Capri si mostra pochissimo, scopre benissimo invece i faraglioni, come un amo alla preda. L’isola è il punto cardinale di questa giornata: da qui in poi attrae lo sguardo ogni volta che uno alza la testa per guardare il mare.
Siamo immersi nel verde della macchia nostra, nel giallino delle piante secche, in fondo c’è azzurro vivo, anzi turchese di acqua, poi, dentro una specie di vapore celeste, in fondo a tutto il panorama, c’è la Sirena appena disegnata, sdraiata, a caccia di navigatori.
Ulisse è proprio qui davanti che si fece legare all’albero della sua nave dopo aver turato con la cera le orecchie dei compagni, ordinandogli che quanto più li avesse pregati di scioglierlo, più forte dovevano stringergli quei nodi. D’altronde il nome Ieranto deriva forse da ierax = falco oppure da ieros = sacro. Se uno pensa che le sirene erano raffigurate in origine come metà donne e metà uccello e alla loro natura imparentata con gli dei, per cercarle non si può andare oltre.
Si scende ancora, poi state attenti a un bivio: non è molto evidente perché è fatto di piante e tracce leggere di passaggio. Però a terra c’è un segno giallo ed il cartello verde del FAI che ci dice che per la spiaggia si arriva prima se si gira a destra, lungo la traccia sottile in mezzo agli arbusti. Andando dritto lungo il sentiero principale invece si va verso la torre di Montalto, la casa colonica e centro informazioni del FAI.
Si inizia a scendere lungo una scalinata di pietra. È così consumata, forse sdentata sarebbe il termine esatto, che c’è sempre venuto il dubbio che non fosse una scala ma soltanto noi che camminavamo per sbaglio sopra il filo di un muretto di pietre.
A sinistra si vede bene la torre e sotto la casa del guardiano del posto. Il tetto è semplicissimo e rigonfio come quello delle case greche.
Qui il vento è cessato, si soffre un poco il caldo anche perché l’umido del mare ora prende il sopravvento. Ma l’acqua si avvicina, manca poco alla spiaggia, siamo quasi arrivati.
Cominciano ad apparire lungo il percorso alcune delle strutture di questa che era, a inizio ‘900 una cava di pietra calcarea. Piccoli edifici, alcune vasche, poi balaustre di legno. Un altro cartello ci lascia scegliere di nuovo se andare verso il punto FAI o il mare e la spiaggia. Eccola, in un colpo solo appare la piccola spiaggia, dietro c’è la vecchia fabbrica e l’isola potente sullo sfondo.
La spiaggia è deserta. A capirlo basta poco perché si vede intera, non è più lunga di cinquanta passi. Gli ultimi metri sono un po’ più ripidi, lungo curve strette per arrivare alla quota zero. L’ultimo passo fa un rumore diverso, non è più un suono attutito di terreno ma uno scrocchiare di ciottoli. Siamo sulla spiaggia ombrosa della mattina, davanti a noi la luce dentro uno specchio, la bellezza civetta esattamente di fronte, in fondo, quella più calma tutt’intorno.
E mo ci vuole un bagno: sono le 6.30 del mattino ma l’acqua non è fredda, tutt’altro. Perfettamente trasparente, si contano i granelli di sabbia attorno ai piedi uno per uno. Fili verdi di poseidonia galleggiano strappati dal fondo.
È il migliore bagno di questa stagione fino a questo giorno. L’acqua è accogliente, calma, viva. Il paesaggio fresco, splendente.
Torniamo a riva, poi si sente una voce. Sono le 7.10, arrivano i primi compagni di viaggio. Forse sono un poco sorpresi: si sono svegliati prestissimo, hanno camminato, e arrivati in spiaggia ci sta già qualcuno. Dopo un poco risaliamo e gli lasciamo il premio di avere tutto il posto.
Andiamo ad esplorare il sito di archeologia industriale, verso la punta. Si entra attraverso un cancelletto e ci sono gli edifici della vecchia cava Italsider, che per fortuna non aveva costruito fabbricati enormi. C’è la vecchia piattaforma di attracco da dove oggi i ragazzi fanno i tuffi. Si percorre il sentiero in piano verso la punta estrema. A sinistra c’è la vecchia ferita della cava di pietra: si vede la pendenza troppo ripida, troppo regolare, staccata dal paesaggio. Da qui, attraverso un edificio basso con sei buchi, caricavano le navi che portavano questa roccia piena di calcio allo stabilimento dell’acciaio di Bagnoli.
Però la natura piano piano riarmonizza il tutto. Un pino cresce solitario in mezzo alla spianata. Gli fanno compagnia arbusti più bassi. Arrivati alla fine dello slargo sembra di stare in mezzo al mare, Capri adesso si vede quasi del tutto. Punta Campanella e il faro sono molto vicini.
Poi iniziamo a risalire. Stavolta passiamo sul sentiero lungo la casa del guardiano. È fatto di scalini di terreno che passano in mezzo agli ulivi. Da lontano si vede una sottile linea di fumo che sale tra le foglie: è lui che brucia le erbe secche che raccoglie.
Vicino alla casa c’è un piccolo limoneto protetto, anche un piccolissimo orto. Poi si sale lungo i gradini di pietra sul fianco della casa.
Poco prima che spuntiamo un cane abbaia. Un attimo di incertezza, mo che facciamo? Sbuchiamo dall’angolo della casa mentre il guardiano, che da lontano ha già capito tutto, dice al cane di starsene buono, mentre noi salutiamo con un buongiorno rivolto metà al padrone e metà al quadrupede guardiano. Gli passiamo ad un metro di distanza e lui resta buono.
Sulla terrazza della casa c’è la tovaglia stesa ad asciugare, e a fianco una sedia sdraio vista faraglioni. È un quadro che non ha bisogno di essere dipinto, il tempo qui sembra così lento che fermarlo servirebbe soltanto a perderne una parte.
Continuiamo a salire. Il dislivello totale non è tanto (180 metri in tutto dal mare fino al paese da dove siamo partiti) e su questo lato della collina c’è ancora ombra. Ci fermiamo ogni tanto per riprendere fiato e sentire un poco di aria che si muove salendo dal mare. Cespugli di rosmarino vivo, se li odorate sono meglio dello Chanel numero 5. Scende un altro cane portandosi dietro l’uomo che come sempre ha la stessa sua identica espressione.
Il dislivello ora lo abbiamo fatto quasi tutto quanto: resta solo la parte facile in piano. Ripassando davanti alla madonnina ci accorgiamo che a pochi metri ci sta un altro santo: Padre Pio ai limiti delle stesse piante.
Il sole si solleva e incontriamo altri sul sentiero in direzione mare. I ragazzi più giovani camminano in costume, pronti per il bagno. Un ragazzo è attrezzatissimo e davanti alla madonnina passa armato di tappetino e sedia sdraio in alluminio.
Siamo quasi in paese. Proviamo a scattare la stessa foto con la chiesa che abbiamo fatto all’andata: tutti gli spigoli geometrici coincidono, di tutte le case, nessun colore e neppure un’ombra è rimasta al suo posto.
Nella piccolissima piazza del paese c’è la fontana per sciacquarsi la faccia. Una Vespa scende verso la spiaggia di Marina del Cantone con tre bagnanti a bordo. Saliamo in auto, ragazzi con accento del nord ci chiedono dal finestrino per dove si va alla baia di Ieranto, alla spiaggia.
A ritorno, a Sant’Agata, il bar pasticceria famoso adesso è aperto; ci fa fare pace con il caffè e con i dolci. E ritorniamo a casa.
Testo e foto Francesco Paolo Busco (tutti i diritti riservati)
Per informazioni dettagliate sulle possibilità di visita della baia qui trovate il sito del FAI